JIM CLARK: Non doveva finire così.

di Renato Villa

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No, mio Signore, non è giusto, non doveva finire così. Era stata una sofferenza sino dall’inizio, quella gara, combattuta contro il tempo e contro tutti gli avversari, e non bastava che la sfortuna si accanisse contro la mia vettura verde, e contro il sogno di vittoria che avevo, oggi. Non credevo che si potesse arrivare a combattere per nulla, per inseguire un sogno perduto alla terza curva… no, non lo credevo davvero, quando ho sentito il motore mancarmi all’ultima curva dell’ultimo giro… quella dannata parabolica assassina, che oltre ai miei sogni di un trionfo leggendario stroncherà le vite di piloti più giovani e meno esperti di me, che la conosco e la affronto con il dovuto rispetto… e comunque io, io sono il Mito, lo Scozzese Volante, l’uomo che ha vinto tutto e vincerà ancora, se la sorte beffarda me ne lascerà il tempo, e la soddisfazione. Perché in questo momento, al mondo non esiste un uomo più veloce di me, e che sappia mettere a punto un’auto meglio di me. E so che la prossima sarà veloce, ancora più veloce di questa, ed il mio sogno è quello di vincere con quella macchina. Davvero, non ne vedo l’ora.

No, mio Signore, non doveva cominciare così, come tutte le altre volte, con la muta di cani lanciata in caccia alla volpe. Come sempre. gli altri inseguono, come sempre devono sperare che mi succeda qualcosa, per provare ad ottenere un risultato, perché in questo momento nessuno di loro può reggere il mio ritmo, può seguirmi a quella velocità. Eppure, dopo poco, ho sentito la macchina sbandare da una parte all’altra della pista, perché c’era qualcosa che non andava, che me la sbilanciava, e poteva essere solamente un pneumatico, insomma, mio Dio, una gomma, una stupida gomma forata. E non era altro che un problema da poco, d’accordo, ma nel 1967 i cambi gomme sono lenti, e di tempo se ne perde, e poi per arrivare ai box si deve percorrere la pista, e non basta neppure quello, perché si resta ultimi, staccati, perché per non rovinare la macchina si deve andare troppo lenti, e Monza è una pista velocissima, di quelle che adoro, ma che ti ingannano fino alla fine, ed allora mi sono trovato lì, ai box, a cambiare quella gomma, sperando di metterci il meno possibile… e poi, quando sono tornato in pista, mi hanno solo detto – Corri-. Ed io ho obbedito, e mi sono messo a correre.

No, mio Signore, non doveva continuare così, con la mia macchina giusto ad un giro dai primi, e la rabbia per una gomma forata che mi lasciava staccato dal mondo. Non mi sembrava giusto non combattere, non correre, quel giorno, perché la velocità del mio bolide era superiore a quella di tutti gli altri, e sapevo che se avessi fatto quello che sapevo avrei vinto, sicuramente. Il capo ai box mi aveva atteso con l’espressione leggermente infastidita che può avere un Lord inglese davanti ad uno stupido imprevisto, ed osservava la lentezza esasperante di quel cambio gomme con le mani in tasca ed il solito cappellino calcato in testa, gli occhi che bruciavano di rabbia. Ed io ero lì, dentro a quella macchina rombante, attendendo che mi venisse dato il via, il via per il rientro in pista, perché avevo chiara la sensazione che sarebbe stata una gara memorabile, e che chi mai l’avesse vista non l’avrebbe scordata mai più. Quando rientrai in pista vidi i due primi sfilarmi davanti, come non avevo preventivato che potessero fare, e pensai che non avevo altra scelta che mettere il piede sull’acceleratore, e non toglierlo mai più di lì. Dovevo recuperare, ed avevo paura di non farcela, prima di tutto perché il motore non sapevo ancora se avrebbe retto, a certi ritmi, e poi perché andando così veloce c’era anche il rischio di fare un errore, uno solo, che potesse pregiudicare tutta la gara. E io non volevo, no, non volevo pregiudicare il tutto. Sapevo che avrei provato a rimontare, che non avrei mollato… fino alla fine.

No, mio Signore, non dovevi illudermi così, quando cominciai a vedere che giravo due secondi più veloce di tutti gli altri, e che lentamente qualcuno cominciava ad avere paura, o ad avere problemi. La risalita era iniziata, drammatica e trionfale, come mai era successo in un Gran Premio, e lentamente vedevo macchine fermarsi a bordo pista, e la mia classifica migliorare, giro dopo giro, sorpasso dopo sorpasso, record dopo record. Non oso pensare ai visi stupefatti dei miei meccanici, e dei miei amici ai box, il capo per primo, che avrà controllato se il suo cronometro funzionava o si era inchiodato sotto il minuto e mezzo, per qualche strana e magica ragione. No, non aveva ancora pensato a cosa poteva capitare, quando non si videro transitare alcuni piloti che avrebbero potuto rallentarmi, e tirò un sospiro di sollievo. Tempo perso in meno, gli sarà venuto da pensare, mentre controllava le lancette del cronometro, che a lui sembrava impazzire, o fermarsi di colpo. E poi, vidi ferma anche la macchina di Danny, e pensai, ma forse fu lì il mio peccato, che forse avrei potuto anche vincere, perché la mia macchina sembrava un orologio, e le altre avevano tutte qualche piccolo inconveniente, qualche incidente di percorso. E poi la gente sulle tribune, assiepata, stupita, esaltata, urlante, sarà una sensazione indescrivibile che mi porterò dentro per sempre, fino a quando avrò vita. Perché è stata quella la molla per correre, credetemi, quella e nessun’altra. 

No, mio Signore, non dovevi esaltarmi così, lanciato alla conquista di un qualcosa che non sapevo se sarebbe venuto, convinto di poter abbattere le barriere del tempo. Erano attimi di strane sensazioni, quelli, nei quali vedevo gli avversari sempre più vicini. Anche Graham, che aveva la mia stessa macchina, e che sapevo che avrei ripreso prima della fine della gara. E poi capivo che il tempo per me si era fermato in una nuvola di velocità, sperso come poche altre volte alla ricerca della traiettoria, della traiettoria fuori traiettoria per un sorpasso impossibile, tra le mani e le voci delle persone che urlavano il mio nome, esaltate dall’imprevisto che avevano davanti ai loro occhi. E la giustizia che sembrava avvicinarsi, mentre lentamente scavalcavo altri avversari, o doppiavo qualcuno, perché la mia macchina andava troppo più veloce delle altre, lasciandole indietro come tram a cavalli. Non chiedevo nulla di particolarmente strano, mio Signore, chiedevo solo che tu mi lasciassi andare, almeno per questa volta, a prenderli tutti, perché sapevo di averne la possibilità, così come lo sapeva il capo, al box, ancora perplesso, un po’ per i tempi ed un po’ perché gli sembrava impossibile, quello che stava vedendo, a meno che un folletto non si fosse impadronito di me e della mia macchina… e non si stesse divertendo. 

No, mio Signore, non dovevi beffarmi così, facendomi vedere le macchine di alcuni dei miei avversari ferme a bordo pista, e lasciandomi sempre più la convinzione che avrei potuto farcela. S’erano fermati Bruce e Graham, che erano nel gruppetto dei primi, e mi era rimasto poco per arrivare a tagliare il traguardo del sogno. Mancavano poco più di cinque giri quando ero riuscito a balzare al comando della gara, come era accaduto all’inizio, e mi sentivo tranquillo, perché ormai la macchina non poteva tradirmi più, perché non poteva accadere null’altro di imprevedibile in quella gara. Sì, mio Signore, forse ho peccato di presunzione, e questo per un uomo che corre sul filo della morte è sicuramente grave, ma in quel momento non vedevo cosa potesse portarmi via quella vittoria, quel risultato assolutamente unico ed irripetibile. Ed invece, mio Signore, devo ammettere che ero cieco.

No, mio Signore, non dovevi tradirmi così, all’ultima curva, lasciandomi col motore sputacchiante e morente, ad osservare John che mi passava, scavalcandomi e togliendomi quel trionfo che avrei meritato più di qualunque altro. La benzina, solo lei, poteva lasciarmi a piedi alla parabolica, mentre stavo per alzare le braccia in segno di giubilo e scatenare nella gente il boato degli applausi. E neppure il secondo posto mi è stato riservato, perché sul filo del rasoio ho visto un’altra vettura superarmi, mio Signore, quasi a farmi capire che bisogna essere umili per vincere, che bisogna saper accettare le sventure per capire cos’è il trionfo. Il gradino più basso del podio mi è stato riservato da Te, come punizione per il mio comportamento, forse, o come lezione, ma la gente non ha approvato e mi ha tributato un’ovazione che penso non sia mai stata dedicata ad altri, mio Signore. Forse loro non capiscono, o forse sono io che accetto tutto perché Tu mi hai sempre protetto, e so che mi proteggerai ancora per molto tempo, mio Signore, so che lo farai.

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Jim Clark nasce a Kilmany, in Scozia (non dite mai ad un uomo delle Highlands che è un inglese, potreste morire) il 4 marzo del 1936. Alla fine degli anni ’50 conosce, durante una gara minore, Colin Chapman. L’anno seguente diventa pilota Lotus in F1. L’English Green delle vetture di Chapman diventa per lui una seconda pelle. Nel 1960 esordisce nel mondiale, e nel 1962 lo perde per un pelo, guidando la Lotus 25, telaio monoscocca e costruita appositamente per lui. Le cose migliorano nel 1963, quando domina il mondiale e giunge secondo a Indianapolis. Il secondo mondiale giunge nel 1965, alla guida della Lotus 33, ed è un trionfo ancora più schiacciante. Oltre a ciò, Clark vince anche la 500 miglia di Indianapolis. La sua gara più avvincente ed indimenticabile è però il GP d’Italia del 1967… prima del tragico incidente del 7 aprile 1968 a Hockenheim, probabilmente dovuto ad una lenta foratura di uno pneumatico.

Le cause effettive della morte dello Scozzese Volante non saranno mai accertate.

A seguire un breve video che ripercorre l’ultimo Gran Premio del grande Jim, quello maledetto di Hockenheim.

https://youtu.be/asb92E8HU8s

Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

1 commento su “JIM CLARK: Non doveva finire così.”

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