di SIMONE GALEOTTI
Che cos’è questo silenzio assordante, questa voragine nella frenesia, spezzato solo da singhiozzi, da flebili preghiere, da passi ordinati sull’asfalto alla maniera delle note di un Requiem, davanti alle bifore gotiche della Chiesa di Saint Mary’s? Che cosa sono tutti questi fiori, queste sciarpe, queste maglie ripiegate su se stesse, questi nastri colorati di claret&amber bagnati dalle lacrime e dalla pioggia sottile di Motherwell? Hanno un valore? hanno un senso? ti accompagneranno Phil? dove? ti serviranno? Questo pegno di ricordi, questa schiera di commozione aggrappata come edera ai cancelli del tuo stadio, riesci a vederla zio?
Il Fir Park dove tutto era cominciato e dove tutto è finito. Esiste davvero una qualche specie di aldilà, un riverbero di luce da raggiungere indossando la maglia numero 10 degli Steelmen? Oppure no, siamo destinati al nulla, alla polvere, costretti a piantare radici di memoria? Agli inizi del 1800 Motherwell era poco più di una manciata di case scure sul lato destro del fiume Clyde. Oggi di quell’embrione di città resta una targa su un muro in Ladywell Road. Phil O’Donnell aveva trentacinque anni, era sposato con Eileen e padre di quattro figli.
E’ stato il freddo dicono. Il freddo che fa battere i denti anche a chi è nato qui nel North Lanarkshire.
C’è un ora fatale che scocca da dieci anni esatti negli orologi dei tifosi del Well: le 17.18 del 29 dicembre 2007. Un inceppo, un sussulto nel meccanismo che fatica nel far avanzare le lancette sul quadrante, al pari del cuore di Phil O’Donnell nel momento in cui il malore ebbe la meglio, stroncando la vita al capitano tornato nel club con cui aveva esordito a soli diciassette anni. Suo nipote David Clarkson stava giocando con lui e aveva già segnato due goal. Il giovane David che inevitabilmente gli aveva fatto affibbiare quel soprannome: uncle. La partita andava alla grande: 5-2 contro il Dundee United al trentaduesimo del secondo tempo. Mica male, c’era profumo d’Europa nell’aria. Poi Mark McGhee si alzò dalla panchina.
Chiamò Phil: “vieni zio, faccio entrare Marc Fitzpatrick”. Voleva dargli un po’ di respiro. Ma appena O’Donnell prese la strada della linea laterale si accasciò di schianto a terra, immobile. Lo soccorsero tutti, perfino il medico dell’altra squadra. Lamentava dolori alla gola, respirava male, appariva cianotico. “Dai Phil, che ti succede, non adesso, non ora, non lasciarci, in fondo non volevi andartene da casa nemmeno dopo i due milioni di sterline offerti dal Celtic.” A Glasgow ammirarono i tuoi piedi nonostante i troppi infortuni. E allora, passando da Sheffield sponda Owls, rientrò nel 2004.
La situazione apparì subito grave. Un ischemia, forse un infarto. Agitazione e mani tremanti a nascondere il volto. Mani più salde sul suo petto per il massaggio cardio-polmonare in attesa dell’ambulanza. Cinque minuti che non sono mai passati e continuano a scorrere in uno spazio temporale parallelo dove magari si apre una porta del destino diversa e Phil O’Donnell si salva. Invece nella teoria dei multiversi questo è l’universo sbagliato. Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero? un bacio, i bambini, i suoi genitori, oppure quel pomeriggio a Hampden dove aiutò il “Well” a vincere la seconda Coppa di Scozia della sua storia segnando una stupenda rete di testa?. Idealismi. Mentre i macchinari cercavano di rianimarlo e la sirena balenava sull’orizzonte delle vecchie acciaierie di Motherwell, in direzione del Winshaw General Hospital, O’Donnell ci lasciava per sempre.
Rest in peace, uncle Phil.