di Simone Galeotti
Dopo lo scroscio di applausi, un coro. Consapevolmente atteso, che partì dalla “Jungle” spezzando il giro d’onore:
“Abbiamo vinto la lega per Doyle, oh sì, abbiamo vinto la lega per Doyle..”
Certi attimi hanno la capacità arcana di fermare il tempo, immortalandolo in una bolla dai riflessi argentei che sale verso l’alto sospinta dalle voci e dal cuore. Qualcuno pianse, altri cercarono nelle mente un loro ricordo personale, un palpito.
Il calendario dichiarava 15 maggio 1982, l’almanacco cattolico recitava Sant’Isidoro agricoltore, quello più profano della Scottish Premier League enunciava invece Celtic- St Mirren. La squadra di McNeill vincerà nettamente 3-0 aggiudicandosi il terzo titolo in quattro anni. Parole e musica di Tom McAdam e George McCluskey.
Erano passati otto mesi dal tragico incidente domestico del 19 ottobre 1981 che era costato la vita a Johnny Doyle. Una scarica elettrica fatale mentre stava armeggiando con un apparecchio nella sua soffitta.
Oggi Doyle riposa nel cimitero di Grassyards a Kilmarnock, una digradazione verdeggiante dove sbucano sul marmo nomi e epitaffi, e tutt’intorno profumi di fiori e di erba bagnata sotto su un cielo velato.
Johnny Doyle era di Bellshill, Lanarkshire. Vi nacque l’11 maggio del 1951 da una famiglia di poche pretese. Il padre William, minatore, subì un brutto infortunio sul lavoro quando Johnny era un bambino. La sorella di Johnny, Anne Marie, rammenta che il padre dopo l’incidente fu costretto a deambulare su una sedia a rotelle trascorrendo pomeriggi interi a guardare suo figlio calciare un pallone, rimproverandolo spesso:
“Devi tenere ferma quella gamba destra. Se non impari a calciare con entrambi i piedi non potrai mai giocare nel Celtic!”
Non c’è la farà William Doyle, in breve quel guaio lo condurrà a una morte prematura.
Il figlio nel frattempo apprende e migliora. Aveva la faccia beffarda, Johnny, da poeta maledetto, con i capelli ricci disordinati come il mondo.
Scivolò dapprima all’ Ayr United: quattro sterline a settimana per stantuffare nella pioggia e nel fango del Somerset Park, tanto da diventare l’ultimo giocatore a indossare la maglia della nazionale per gli “Honest Men”.
Nel 1976 l’esperienza nella patria di Robert Burns ebbe termine perché il Celtic lo pretese e se lo portò a casa. Questa volta si parlò di una somma vicina ai 90000 pounds. Johnny ne fu entusiasta, non riusciva a crederci, stentava a dormire la notte. C’era in lui, evidentemente, la fierezza di appartenere a quel club che si portava sempre addosso sotto forma di sciarpa. La indossava ovunque in casa e in trasferta. Amava ascoltare la musica di Francis Rossi e Alan Lancaster, i cosiddetti “Status Quo”, che proprio quell’anno rischiarono grosso a Vienna dove furono bloccati per il possesso di qualche sostanza stupefacente di troppo. Ma erano gli anni settanta dai, che ci vuoi fare.
Doyle forse frenato dall’emozione non partirà in maniera eccezionale. D’altro canto, a dirla tutta, non si trattava di un fenomeno allo stato puro, tuttavia la sua determinazione, al di là delle prestazioni, lo avevano eletto un beniamino della tifoseria.
E in strada si mischiava alla gente comune. La sua semplicità lo portò tante volte a dare un passaggio post gara a tifosi che abitavano nella sua zona con genuina cortesia.
La sua posizione in squadra divenne in pericolo quando l’allenatore Billy McNeill acquistò nel 1978 l’ala Davie Provan e i tabloid profetizzarono la fine di Doyle a Parkhead.
Invece Johnny cominciò a macinare grandi partite e la “Jungle” cantava il suo nome, e lui, ironicamente, faceva finta di non sentire, incitandola a cantare più forte.
Il compagno di squadra Tommy Burns (altro uomo sfortunato) né ricordava un aspetto scanzonato:
“Quando Johnny tornava verso il centrocampo dopo aver segnato una rete mimava il gesto di fumare un sigaro e scuoterne la cenere”.
L’estasi si racchiuse in un volo serale nel momento in cui s’inerpicò lassù in alto a ghermire il traversone partito dai piedi di Alan Sneddon che appariva elevato per chiunque. Doyle ci arrivò, lo colpì di testa e la nuova traiettoria della sfera oltrepassò la chioma scura di Miguel Angel. Il Celtic sconfisse il Real Madrid nei quarti di finale della Coppa dei campioni del 1980 per 2-0. Purtroppo le due reti non servirono perché “el miedo escenico” del Bernabueu, risultò come spesso accadeva nel periodo determinante e “conturbante” e i sogni dei Bhoys si infransero amaramente.
Un giocatore disposto a dare tutto Doyle. Impavido in campo e burlone fuori, spesso al limite dell’irriverenza. Negli spogliatoi si divertiva a imitare gli accenti, rubava le chiavi dell’auto dei compagni andando poi a bloccarle in “simpatici” ingorghi. Tutti sapevano inoltre che Johnny teneva un goliardico libro nero dove riportava i nomi degli avversari che lo avevano sottoposto ad un trattamento ruvido, in modo da rendergli pan per focaccia la prossima volta.
Talmente bravo e un pò irriverente che ad ogni Old Firm faceva dannare quelli dei Rangers invitandoli a baciare il crocifisso che gli ciondolava sul petto. Nemmeno il Papa in maglia Hoops avrebbe scatenato una rabbia simile.
Vittima o colpevole? Un temperamento particolare, senza dubbio. Un derby lo segnerà: quello del 21 maggio 1979 giocato a Celtic Park.
“About seven o’clock.”
Era l’ultima partita della stagione in casa e il Celtic aveva bisogno di una vittoria per vincere il campionato. Una sconfitta o anche solamente un pareggio avrebbero consegnato il titolo ai “Gers” e dalle parti di Edminston Drive sarebbero impazziti.
Nemmeno dieci giri di lancette e i blu segnarono, firmandosi Alex MacDonald.
Ahi. Quell’anno sembrava girasse tutto storto; il governo conservatore di Margaret Thatcher aveva spaccato il Regno Unito e il dissenso si era manifestato in agitazioni che avevano riguardato tutti gli aspetti della vita del paese.
All’intervallo i Rangers erano ancora in vantaggio. Quando Johnny Doyle rientrò sul campo gli scese sugli occhi tanta di quella nebbia che in una rissa con MacDonald, l’arbitro Eddie Pringle fu costretto a espellerlo.
Dirà:
“Mentre uscivo dal campo volevo vomitare. Il Celtic stava perdendo il campionato per colpa mia.”
A ripensarci l’analisi a caldo di Doyle non faceva una piega. Un uomo in meno e un’impresa disperata da compiere. Restava mezzora, minuto più minuto meno per luce o eclisse.
“Sia fatta la luce” (genesi 1:3). E luce fu. Aitken e McCluskey ribaltarono la partita, tuttavia c’era veleno nella coda dei Rangers e Bobby Russell riportò in parità l’incontro, finché un maldestro autogol di Colin Jackson rimise avanti i biancoverdi e una crepa si aprì sui muri lontani di Ibrox. Pandemonio, paura, poi Murdo… Yeeeeeessss” 4-2.
“Ten men win the League.”
Poi venne quel giorno, quell’autunno così triste, quelle fasi, quel circuito di fili maledetto, quella scossa tremenda, gli angeli, il nulla, un bacio, un grido di tifosi, forse il volto di suo padre, chi lo sa.
“As long as it’s got green and white hoops any number between 1 and 11 will do me. I’d even settle for 12 or 13 sometimes. Numbers don’t bother me, as long as I’m playing for Celtic.”
Johnny Doyle, 11 may 1951- 19 oct 1981.