di DIEGO MARIOTTINI
Il 25 novembre 2005, muore all’età di 59 anni uno dei più grandi talenti del calcio moderno. L’uomo che ha non soltanto rivoluzionato alla sua maniera il modo di stare in campo ma che nell’immaginario di un’epoca ha concesso un’anima all’essere calciatore. Un’anima con le sue fragilità, la sua grandezza, i suoi insondabili abissi e le sue più intollerabili solitudini. Dopo di lui il calcio non sarà più lo stesso, perché tra la metà di un secolo e l’inizio di un millennio è passata una cometa, veloce e luminosa, che ha ridefinito ogni cosa e il suo contrario. Il buio pesto e i colori, la gioia di essere di essere lì e l’incapacità di restarvi a lungo. La storia di George Best, il migliore di nome e forse di fatto. Un cuore (nord) irlandese, patrimonio dell’umanità. Il privilegio e la condanna di possedere una classe superiore e, per cognome, un superlativo assoluto. È almeno per ora l’unico calciatore al mondo al quale sia stato intitolato un aeroporto internazionale (quello di Belfast, naturalmente) e che può vantare la propria effigie sulla banconota da 5 sterline.
NATO AI BORDI DI PERIFERIA. Quella di George Best è una storia che ha inizio ai margini del Regno Unito. Nasce a Cregagh, quartiere a est di Belfast, nel 1946. Una città strana, la capitale dell’Irlanda del Nord. Un luogo diviso e contemporaneamente unito da fili spinati visibili e invisibili. Dove camminare in una certa strada o bere in un certo pub può significare schierarsi da una parte o dall’altra, anche senza volerlo. Figlio primogenito di Dickie Best e Anne Withers, George cerca di bypassare il dissidio fra protestanti e cattolici dedicandosi fin da bambino a fare ciò che gli riesce meglio. Il padre cerca di convertire quell’interesse al calcio nella lotta contro gli interessi dei cattolici nell’Ulster e allo stesso tempo quelli del governo di Londra. Troppo complicato. Lui, Georgie, come lo chiamano a casa i genitori, il fratello Ian e le quattro sorelle, può tutt’al più guerreggiare contro lo strapotere del rugby e di quella palla ovale che proprio non riesce a governare.
MATT, CREDO DI AVERTI TROVATO UNGENIO. Ma la prima delusione grande gliela dà proprio il calcio, anzi, peggio, la squadra del cuore: il Glentoran. I verde-rosso-neri di Belfast lo scartano perché il ragazzo è piccolo e leggero. Guardano le fattezze fisiche e non si accorgono di due piedi da arte orafa e di un dribbling devastante per chi lo subisce. Ma la fortuna a volte viene da lontano. Robert Bishop, un osservatore del Manchester United che si trova in quel momento a Belfast, ritiene di aver visto all’opera un genio in fasce e avverte in fretta l’allenatore della prima squadra, Matt Busby. Bishop non è uno che di solito si spertica in complimenti, dunque bisogna sbrigarsi prima che ci arrivi qualcun altro. Best viene portato a Manchester. Un provino di prammatica, la partitella fra ragazzi e l’allenatore vede in quel ragazzotto un calciatore già completo. Uno che oltre al dribbling ha capacità di contrasto, senso pratico sotto porta, culto dell’estetica applicata al risultato, voglia di vincere. Superata la saudade in salsa nordirlandese, George Best viene fatto esordire con i Red Devils. È il 14 settembre 1963 e la partita è Manchester United-West Bromwich Albion.
TITOLARE INAMOVIBILE. Dopo un gol segnato al Burnley durante una partita di FA Cup, diventa sempre più complicato escludere Best dal gruppo dei titolari. Non avrà sempre la dovuta continuità ma un suo lampo, anche uno solo, può cambiare una partita. La stagione 1963-64 vede Best in campo per 26 volte con 6 reti segnate. L’anno dopo è subito scudetto, al termine di un campionato drammatico che i “red devils” vincono in virtù della miglior differenza reti sul Leeds.Contribuiscono, e non poco, anche a 10 reti dell’astro nascente. Il quale avrà la sua consacrazione a livello internazionale con la Coppa Campioni 1965-66. A tal proposito, ci sono una partita e una data che impongono per sempre il genio di Belfast all’attenzione continentale.
YES I’M GONNA BE A STAR. Il 9 marzo del 1966 il Manchester United ha in programma una trasferta di Coppa Campioni particolarmente dura. Il Benfica di Lisbona è stato finalista in quattro edizioni su cinque delle stagioni immediatamente precedenti. Ci gioca Eusebio, Pallone d’oro in carica. E già questo dovrebbe spaventare. In meno di un quarto d’ora il non ancora ventenne Best chiarisce subito di non essere inferiore al suo blasonato collega. Con una doppietta di rara bellezza (un colpo di testa a incrociare e un perfetto diagonale rasoterra appena all’interno dell’area) avvia una goleada trionfale in terra lusitana. 1-5 per i red devils e Best diventa da quella sera una star assoluta. È bello, è un campione, ha uno stile di vita sregolato e tutto suo. Nulla sembra poterlo fermare ma l’allenatore Busby sa tutto di lui e a malincuore gli perdona quasi tutto. “Georgie” è eccessivo in ogni aspetto: belle donne, notti brave, feste danzanti ma soprattutto troppo alcool. Lui è molto cool, la sua vita è molto swinging. È forse una tara familiare, quella che lo porta allo stravizio sistematico. O forse una vena autodistruttiva che poco alla volta sta diventando un’arteria. Per il momento tutto è tenuto sotto controllo e il giocatore incanta tutti, fino all’apoteosi datata 1968. È talento puro, è colpo sopraffino, ma è anche voglia di andare in pressing a recuperare palloni e far partire la manovra. È capacità di fare gol “alla Best”, perché solo lui è capace di farne di così belli e con quella continuità. Lo United non vince il campionato ma Georgie è lo scorer della stagione con 28 reti (in condominio con Davies del Southampton). Ma soprattutto la formazione di Busby vince la Coppa dei Campioni. Il Pallone d’oro 1968 va a un ragazzo di Belfast di 22 anni. È il punto più alto e nel contempo l’inizio della fine.
LA PARABOLA DISCENDENTE. Nel 1968-69 gioca ancora su alti livelli (22 reti in 55 partite totali) ma lo United termina il campionato a metà classifica. In Coppa dei Campioni Best e compagni raggiungono le semifinali, poi vengono eliminati dal Milan. A fine anno Matt Busby annuncia il ritiro e viene sostituito da Wilf McGuinness. Nella stagione 1969-70 Best segna un totale di 23 reti, di cui 6 in una singola partita (la celebre vittoria per 8-2 sul Northampton Town in FA Cup). Nel dicembre del 1970 Busby in realtà torna alla guida dello United, ma il giocattolo sembra rotto. La squadra si piazza ancora una volta a metà classifica e i vizi e la fragilità psichica di Georgievengono definitivamente allo scoperto: dapprima subisce multe per cattiva condotta e poi si becca una sospensione di due settimane per aver passato un weekend con una nota attrice inglese invece di scendere in campo contro il Chelsea. Tra sbronze colossali, fughe romantiche con questa o con quella donna, minacce di morte e perfino l’accusa per il furto di una pelliccia, il 1° gennaio 1974 il rapporto fra Best e il Manchester s’interrompe per sempre. Senza di lui la squadra retrocede in Second Division, con lui la vita nello spogliatoio era diventata impossibile. Best si ritrova senza più una squadra a soli 28 anni. Comincia un lungo periodo in cui girovaga fra varie compagini in quattro continenti diversi, sempre con contratti di breve durata e prestazioni alterne. Nel 1978 un grande dolore segna ancor più una psicologia eccentrica ma essenzialmente frangibile. Annie, madre di George, muore di una malattia cardiovascolare dovuta all’alcolismo. Un segnale che il 32enne George dovrebbe fare suo al volo, ma che in effetti non coglie. Forse non può più. Gli anni 80 procedono così, fra qualche bella partita da virtuoso fine a se stesso, molto alcool, un matrimonio fallito, un figlio di nome Calum che ha bisogno di un padre sobrio e autorevole e qualche arresto per guida in stato di ebbrezza, nonché resistenza a pubblico ufficiale.
NON ESSERE CATTIVO. Negli anni 90 Georgie Best, l’ex ragazzo prodigio di Belfast, è ormai un uomo di mezz’età, mai maturato davvero. Gli anni migliori sono passati, un talento straordinario è stato del tutto dissipato e l’unica compagnia fissa è la bottiglia. Nel 2000 viene ricoverato per gravi danni epatici dovuti proprio a quel tipo di problemi. Nel 2002, all’età di 56 anni, subisce un trapianto di fegato. Il 2 ottobre del 2005 lo ricoverano in terapia intensiva in una clinica privata londinese, il Cromwell Hospital, per un’improvvisa infezione ai polmoni. Dopo alcuni segni di miglioramento, alla fine del mese le sue condizioni cominciano nuovamente ad aggravarsi. Il 20 novembre, il tabloid inglese News of the World pubblica, su richiesta del diretto interessato, una foto che ritrae Best nel suo letto di ospedale, con le sue ultime parole pubbliche: «Don’t die like me», «Non morite come me». Ha capito anche lui che i suoi giorni sono contati e quello sarà il suo ultimo dribbling. Ilpiù autentico. Il più coraggioso e definitivo. La morte avviene il 25 novembre 2005, proprio al Cromwell. L’Irish heart, quel generoso incoerente cuore, ha smesso di battere. Ai funerali, che si svolgono pochi giorni dopo a Belfast, partecipa quasi mezzo milione di persone. Ci sarà un motivo, nonostante tutto. The Sun riporta: “Quello di Best è il funerale più grande dopo quello di Lady D.”.<<Era un ribaldo, un figlio di buona donna – pensano ad alta voce molti nordirlandesi – ma era anche il nostro orgoglio, uno di noi>>. Per strada risuona “Have I told you lately that I love you” di Van Morrison. Non è il pezzo migliore del grande Van, ma fra spiriti irish quello è un messaggio chiaro, trasversale a tutto. È il loro modo di riconoscersi e di chiamarsi a raccolta al momento giusto. Uno dei pochi in grado di alzare dalla sedia chiunque, da quelle parti. Cattolici o protestanti che siano. È il modo di chi manifesta un sentimento senza usare le parole. È opinione comune che se avesse avuto maggiore continuità e una mente un tantino più sgombra, oggi George Best sarebbe uno di quei 3 (massimo 5) giocatori che hanno cambiato per sempre la faccia del calcio. Forse sì, forse no. Ma a Belfast, come nel resto dell’Irlanda del Nord, guai a confutare un’ipotesi del genere. Risponderanno che “Maradona Good, Pelè Better, George Best”. Ed è meglio evitare discussioni pericolose, con certa gente.