JCS 14

di Renato Villa 

cruyff2

14.1

Non è mai esistito qualcuno migliore di lui.

 

Poteva esserci forse qualcuno tecnicamente più forte, più uomo gol, più genio.

Ma nessuno racchiudeva tutto in un solo giocatore.

 

Tranne lui.

 

L’avevo visto giocare la prima volta da bambino, e l’impressione era stata fulminante.

 

L’avevo sentito parlare pochi giorni prima che ci lasciasse e, come sempre, ne ero rimasto affascinato.

 

Perché lui era “lui”.

 

L’uomo che aveva cambiato il calcio.

 

14.72.1

Lo vidi la prima volta in una partita importante, mio papà me ne parlò come della finale della più agognata Coppa europea.

 

Vidi la sua squadra entrare in campo con quella strana maglia, con uno striscione centrale e verticale che in Italia non si usava assolutamente.

 

Poi, li vidi giocare.

E fu lì che la mia vita cambiò.

Per sempre.

 

14.72.2

Non fu una finale.

Fu un macello.

La squadra dalla strana maglia arrivava in porta come voleva.

 

E sembrava andare a velocità doppia rispetto agli avversari.

 

Che, comunque, resistettero per un tempo, asserragliati in area.

 

Poi, all’inizio della ripresa, un’azione magnifica portò al primo gol.

 

Non sapevo cosa fare, se urlare di gioia o piangere, come i bambini tifosi che si vedono strappare un sogno.

 

Scelsi la prima soluzione.

 

14.72.3

Quando segnarono il secondo gol, ormai mi ero abituato al loro modo di giocare, nuovo ed esaltante, e non soffrii più di tanto per la sconfitta.

 

Andai a dormire con nella testa quelle maglie con una larga striscia grigia centrale, perché allora i televisori erano in bianco e nero, con il capitano che portava sulla schiena un numero inusuale.

 

Un numero da riserva.

 

Un numero che mi sarebbe rimasto nella mente.

 

Un numero che mi sarebbe rimasto nel cuore.

 

14.73.1

Lo rividi in una sera di maggio, un anno dopo.

 

Era un’altra finale, per la solita coppa.

Di fronte, una squadra che aveva un nome che conoscevo.

La Juventus.

 

Loro indossavano un completo ai miei occhi grigio.

Anni dopo seppi che quella maglia era di un rosso regale.

 

Non passò molto che segnarono.

 

E da quel momento in poi, lui dettò tempi e ritmi della danza.

 

Una danza che sarebbe durata novanta minuti.

 

14.73.2

Vidi il pallone viaggiare per il campo, e i giocatori in bianconero inseguirlo vanamente.

 

Non riuscirono praticamente a combinare nulla.

 

Non fu una vittoria.

Fu un annichilimento.

 

Perché praticamente i bianconeri non la presero mai.

 

E, alla fine dell’incontro, allo scambio delle magliette, quello che di solito era un gesto di rispetto si trasformò in uno sfregio.

 

“Indossiamo voi le vostre maglie, è l’unico modo che esiste per vedere qualcuno in bianconero alzare questa coppa”, sembrava stessero dicendo.

 

Fu l’ultima volta che li vidi giocare assieme.

 

14.74.1

A nove anni si passa il tempo a inseguire un pallone, più che a vedere partite.

 

Ma quello era l’anno dei mondiali.

 

E si era qualificata “quella” squadra, che così tanto mi aveva affascinato in quelle serate di maggio.

 

Così, sacrificai un bel po’ del mio tempo per tornare a casa per vederli giocare.

Loro.

Tutti loro.

 

Ma uno in particolare.

Il 14.

 

Non riuscivo ancora a pronunciarne il nome, ma lo avevo stampato in testa.

 

Per me era “il calcio”.

 

Così, quando tornai a casa per vedere la partita con l’Uruguay, rimasi ancora più stupito.

 

E quel numero 14 si innalzava sopra ogni altro.

Guidava il gioco come non avevo mai visto fare.

 

Era dappertutto e da nessuna parte.

 

Spariva e riappariva come d’incanto, giusto dove era necessario che si trovasse.

 

Fu uno spettacolo nello spettacolo, e io restai col naso appiccicato al televisore come non mi era mai successo prima.

 

Giurai a me stesso che avrei seguito “la squadra” in ogni incontro.

 

14.74.2

Quel giorno “la squadra”affrontava una delle avversarie più toste.

L’Argentina.

 

Eppure fu un massacro.

 

Ero tornato dal campetto sotto casa proprio per vedere quella partita.

 

Non ne rimasi deluso.

 

Gli argentini ce la misero tutta per arginare le continue giocate dell’undici in grigio, che io sapevo vestire d’arancione solo grazie alla Panini.

 

Finì quattro a zero.

E il numero 14 incantò con una partita incredibile ed un gol che rimase nella storia.

 

Il fascino di quella squadra e di quel giocatore mi avevano conquistato, definitivamente.

 

14.74.3

Quel giorno c’era la semifinale virtuale.

 

“Loro” contro i campioni in carica.

Il Brasile.

 

Non uscii nemmeno di casa, tanta era l’attesa per la partita.

 

Passai il tempo a leggere, prima di accoccolarmi davanti al televisore.

 

“La squadra”, quel giorno, vestiva un insolito completo bianco.

Scintillante.

 

Quella non fu una partita.

Fu una guerra.

 

I brasiliani non ci misero molto a far capire che non ci stavano a perdere.

Picchiarono e furono picchiati.

 

Ma non bastò ai campioni uscenti buttarla in rissa.

 

Perché finì due a zero per “la squadra”, e il suo capitano segnò un altro gol incredibile, come aveva fatto con l’Argentina.

 

Così, giusto per non scontentare nessuno.

 

E adesso, erano in finale.

E io non vedevo l’ora che tutto iniziasse.

 

14.74.4.1

Olympiastadion.

Monaco di Baviera.

La finale.

 

I padroni di casa del “Kaiser” contro loro, e contro quel condottiero col numero 14 sulla schiena.

 

Partita dal pronostico indecifrabile.

Ma “la squadra” è qualcosa di esaltante.

Spettacolare.

Ribelle.

 

E i ribelli cominciano a modo loro.

Una serie di passaggi, irridenti.

 

Poi, palla a “lui”.

Accelerazione.

 

Verticale e improvvisa.

 

Vedo il suo marcatore annaspare ed arrancare.

Vedo “lui” entrare in area.

 

E poi…

poi lo vedo cadere.

 

Rigore.

 

E’ il primo minuto di gioco.

 

Sull’Olympiastadion cala una cappa di silenzio.

Quando il pallone entra in rete, il gelo avvolge lo stadio.

 

Io esulto davanti al televisore.

Pregusto un altro massacro.

 

14.74.4.2

E invece no.
I tedeschi non si lasciano intimorire e, come da loro abitudine, combattono.

 

E pareggiano, su rigore anche loro.

Tutto da rifare.

Ma proprio tutto.

 

Mi sa che non sarà un massacro.

Perché una ventina di minuti dopo segnano anche il secondo gol, poco prima che l’arbitro fischi la finedel primo tempo.

 

Ma ci sono ancora quarantacinque minuti da giocare.

Non è finita qui.

 

14.74.4.3

Fu un arrembaggio.

Un arrembaggio che durò tutto il secondo tempo.

 

Ma il pallone non voleva saperne, di entrare.

Un paio di volte attraversò l’area piccola, mancando di un micron la deviazione finale.

 

Altre, danzò al limite dell’area del portiere, prima di venir allontanato con violenza.

 

“la squadra” aveva perso.

 

“lui” aveva perso.

 

Sembrava impossibile, ma era accaduto.

 

Ai miei occhi di bambino era come se il drago avesse ucciso il cavaliere.

 

Sì.

Era proprio così.

 

E lo era per tanti della mia generazione.

 

14.2

Lo rividi anni dopo.

 

Era sulla panchina dell’Ajax, la “sua” squadra.

Ed era nuovamente in una finale.

Come ai bei tempi.

 

E, col numero 9, era in campo un ragazzo del quale si diceva valesse il suo allenatore.

 

Fu lui a segnare, quella sera.

E fu lui a consegnare al suo padre calcistico il primo trofeo importante da allenatore.

 

Anche lui, prima di andarsene.

 

14.3

Berna, il giorno del mio compleanno.

 

“Lui” allena l’altra parte del suo cuore.

Il Barcelona.

 

Dall’altra parte, l’emergente Sampdoria guidata da Boskov.

 

Non c’è partita.

I catalani vincono due a zero.

 

Per me, che sono genoano, è una doppia festa.

 

Per “lui” è solo uno dei tanti trofei.

Ma non è ancora il più importante.

 

Il più ambito.

 

Il più inseguito.

 

Per quello, c’è ancora tempo.

 

14.4

Stavo guardando la televisione.

Uno dei soliti film.

 

Arrivò la pubblicità.

E, come d’incanto, apparve “lui”.

 

Palleggiava con un pacchetto di sigarette, vestito col suo solito trench, come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo.

 

“Nella mia vita ho avuto due vizi. Uno, il calcio, mi ha dato tutto. l’altro, il fumo, stava per togliermi tutto”.

 

Diceva più o meno questa frase.

Ed era assolutamente convincente.

Assolutamente convincente.

 

14.5

Londra.

Maggio.

Sono passati tre anni dall’ultima finale.

 

Ma stavolta, anche se non cambia l’avversario, cambia il trofeo.

 

Stavolta è Coppa dei Campioni.

Ed è ancora Barcelona-Sampdoria.

 

La vedo in casa, e vedo “lui” teso, con l’espressione di chi si aspetta qualcosa.

 

Ma la partita è noiosa e tattica.

Si va ai supplementari.

 

E nulla cambia.

Almeno fino a quando l’arbitro non fischia una punizione a favore del Barcelona.

Bomba.

Gol.

I giocatori si abbracciano.

Io sono inginocchiato davanti al televisore.

 

“Lui” è ancora in piedi, con lo sguardo fisso, come se non fosse successo niente.

 

EPILOGO

Sto girando in rete.

E’ una giornata nella quale non ho praticamente nulla da fare.

 

Improvvisamente vedo comparire sue foto, una dopo l’altra.

E, subito dopo, la notizia.

 

Terribile, come quando aveva annunciato di smetterla col calcio.

Ma questa volta è peggio, questa volta è il triplice fischio.

 

Questa volta il 14 esce dal campo, per non rientrare.

 

 

APPUNTO FINALE

Di lui rimane l’eredità sportiva e filosofica.

Oltre all’immenso affetto che la generazione dei JCS gli ha portato.

Per noi rimarrà sempre “lui”.

Sarà l’unico calciatore che ricorderemo come il fuoriclasse col numero da riserva.

 

Colui che riuscì a rendere leggendario qualcosa di anonimo.

 

Ah, per chi non lo sapesse, “i” JCS in quel periodo sono due.

L’altro, è la rock-opera di Rice e Webber.

Uno, il più importante, è lui.

 

Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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