HO RUBATO LA COPPA DEI CAMPIONI

di SIMONE GALEOTTI

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Ho la testa che mi scoppia, devo rallentare, sto correndo troppo e credo di non aver rispettato nessun limite di velocità. Ma non sono ubriaco, stasera non ho bevuto niente, niente di niente, nemmeno un bitter. Sono lucidissimo e appena l’emicrania allenta la sua morsa mi viene persino da ridere come un nevrotico clown da circo. In tutta sincerità non so come finirà questa notte. Ogni volta che oltrepasso le luci giallognole della M42 un riflesso metallico mi balena sulla fronte e per un attimo alzo impercettibilmente gli occhi sullo specchietto controllando per l’ennesima volta che quella chincaglieria ingombrante scaraventata in malo modo sul sedile posteriore della mia Datsun Cherry blu cobalto sia ancora al suo posto. La cartellonistica autostradale mi indica che giusto adesso ho infilato la M1 e sto andando verso Sheffield. La campagna delle West Midlands è buia da far paura, solo qualche lampione in lontananza a delimitare perimetri di fabbriche di periferia. Man mano che il tempo passa mi rendo conto di aver commesso una bella stronzata, ma d’altro canto ne avevo ben donde, quei disgraziati mi stavano mettendo sotto sopra il locale, il mio locale, belli e straricchi con le loro mogliettine stronze e viziate sottobraccio più un numero imprecisato di fidanzate stridule al seguito. E allora ho pensato al modo migliore su come fargliela pagare. Adesso però sento la rabbia calare, credo sia tempo di porre fine a questa sceneggiata inutile, devo fermarmi, rimettere a posto le idee, provare a spiegare il fatto e tornare a casa. In fondo a questo punto è solo necessario trovare una stazione di polizia e cercare di esporre nella maniera più esauriente possibile quello che è accaduto all’incirca un’ora fa. Tutto sommato se saranno comprensivi non sarà certo un dramma, o almeno spero. Scalo un paio di marce e il motore della Datsun grugnisce che è una meraviglia. Imbocco l’uscita e mi passo una mano sui capelli per non assomigliare troppo a un fuggitivo di chissà quale carcere di estrema sicurezza e con il labbro inferiore mi inumidisco i baffi. Leggo distrattamente l’indicazione e pare sia finito in un posto chiamato West Bar, dove francamente non sono mai stato ma dove, per fortuna, c’è quello che speravo: una piccola stazione di polizia ricavata nell’angolo di un vecchio edificio georgiano in mattoni scuri. Parcheggio la macchina accanto a quella delle forze dell’ordine e mi volto, si mi volto un ultimo istante verso il sedile alle mie spalle scuotendo sensibilmente la testa. Quattro parole in ordine ben preciso mi solcano la mente, sembra che il mio vocabolario dialettico si sia ristretto a questa frase:
“Che cazzo ho fatto?” 

L’aria tersa della notte mi riempie i polmoni e mi aiuta ad asciugarmi la mente. Ormai è primavera inoltrata nonostante tiri la solita arietta frizzante di queste parti. C’è una coppia che sta uscendo dall’ufficio della polizia, lei assomiglia vagamente a Kate Bush, indossa una minigonna inguinale, un giacchetto di pelle nemmeno buono per un rigattiere di seconda mano e si regge in piedi approssimativamente su di un paio di scarpe rosse fuoco dal tacco imbarazzante. Lui ha la faccia seminascosta da una fluente barba nera, una camicia a motivi floreali e un paio di jeans laceri calati sopra delle converse scolorite. Il poliziotto in cima alla breve scalinata tiene le mani sui fianchi, appare stanco e decisamente nervoso:
“Andate a casa forza, e non fatevi beccare più, altrimenti prima o poi passate qualche giorno nella patrie galere per la gioia della signorina Thatcher che ne ha le palle piene di comunisti, hooligans, punk e drogatelli come voi…” 

Poi pigramente sposta lo sguardo su di me. Ho un piede sul gradino più in basso e l’altro ancora sull’asfalto, mentre impugno il corrimano sinistro della ringhiera. Cerco l’espressione più pacata di questo mondo tuttavia si capisce lontano un miglio che non sono credibile. Allora guardo l’orologio come a darmi un inflessione di serietà e i cristalli liquidi del mio Seiko al quarzo indicano che è mezzanotte passata da qualche minuto. L’ora dei folli, andiamo male Eric mio. Il poliziotto, un giovane dai capelli biondicci senza berretto d’ordinanza e con una frangetta più buffa che accattivante, dopo un attimo di esitazione, in tono seccato mi dice:
“E lei?” 

E io? Penso tra e me…
“Io dovrei soltanto farvi presente una cosa, dieci minuti e me ne vado.” 
“Guardi, si auguri che sia una cosa seria e non una cavolata perché ultimamente di dissennati c’è ne sono pure troppi in giro. Si figuri, un oretta fa ci hanno chiamato dalla centrale di Birmingham perché dicono che un pazzo abbia rubato la Coppa dei Campioni vinta dall’Aston Villa… Avanti, salga su e si accomodi, arriviamo tra un istante.” 

Sto per aggiungere qualcosa ma ritraggo all’ultimo momento le parole. Meglio così, meglio parlare all’interno, in maniera concisa e ordinata, magari mi offriranno pure qualcosa, diamine in un qualche giornale lessi che per certi collaboratori di giustizia c’era un trattamento di favore.
La stazione di Polizia assomiglia a una sorta di ambulatorio medico con uno sportello in vetro antiproiettile fissato lungo un bancone che copriva i sei o sette metri di larghezza della stanza più un minuscolo atrio d’aspetto con delle seggioline di legno scomodissime fissate alla parete dove rannicchiarsi e aspettare il proprio turno magari in manette. In quel caso, per ora, me ne stavo senza catene ai polsi. Attesi i cinque minuti accademici. Nel frattempo il poliziotto che mi aveva fatto entrare si era defilato scomparendo dentro una porta di servizio ed ero rimasto solo sotto un neon il cui continuo “bzz-bzz” ne annunciava l’imminente decesso. Ciò avrebbe confermato l’ineluttabilità della legge di Murphy. Al di là dello sportello, immancabile, la classica donnona da centralino, una stanca e flaccida signora dai capelli rossicci che con una certa probabilità si stava ridipingendo per la terza volta le unghie. Alzò svogliatamente la faccia per scrutarmi storcendo un angolo della bocca come a confermare la sua già confezionata tesi precotta della presenza di un tossicodipendente o di nuovo,  alticcio, scocciatore notturno. Insomma evidentemente non presentavo la faccia da serial killer, terrorista islamico, e nemmeno  da fanatico dell’IRA. Con ostentato biasimo mi dice di darle un documento e di spiegarle il motivo per cui alle 00.24 minuti del 31 maggio 1982 fossi voluto entrare alla caserma della polizia di West Bar poco fuori il centro urbano di Sheffield:
“Prego signor… Sykes, mi dica…”

Rintraccio una parvenza di portamento ma capisco che alla luce dell’accaduto il mio sforzo di chiarire il caso in maniera ragionevole sia insostenibile, comunque devo provarci.
“Ho rubato io la Coppa dei Campioni ai giocatori dell’Aston Villa, c’è l’ho con me, è sul sedile posteriore della mia auto posteggiata all’esterno…” 

La donna respira profondamente. Emette un colpo di tosse di circostanza, schiocca le labbra, preme un numero sulla tastiera del telefono nero posto su un tavolino di legno accanto a lei e un paio di secondi dopo ecco aprirsi l’unica porta dietro di lei da cui escono due agenti. Quello di grado verosimilmente più alto, un tipo normolineo dal baffetto curato, prende la parola:
“Qual è il problema agente Davies?” 
“Il tipo qui dice di avere la Coppa dei Campioni o come diavolo si chiama quella cosa sportiva dentro la sua macchina, qua fuori al parcheggio…” 

Il poliziotto mi osserva da capo a piedi in un misto fra la curiosità e pena, dopodiché enuncia ciò che temevo.
“Mi ascolti bene, sono il sergente Mick Greenough e in vent’anni di servizio ne ho sentite parecchie di storie. Un giorno è venuto un tizio alle tre di notte dicendo di aver rapito la Regina Elisabetta e un’altra volta un tale vestito da Conte Dracula. Ci mancava giusto il ladro pentito delle coppe calcistiche. Sia cortese, mi dica la verità, mi sta prendendo per il culo vero? Guardi che mi girano le palle a fare il turno di notte e la sbatto dentro se scopro che si è fatto di qualche acido. Facciamo così, non ci siamo visti e vada a dormire, dalla patente vedo che abita nei dintorni di Birmingham, beh certo ne ha fatta un bel po’ di strada per venire fin qui a dirci questa stupidaggine, eh?” 
“No, no, è tutto vero, controlli pure, ecco queste sono le chiavi.” 
“Ok, ok, … agente Wells proceda ad aprire quella fottuta macchina e diamo soddisfazione al signor Sykes. Mi vada a prendere la Coppa…” 

Resto a testa china percependo le risate ironiche del gruppo di poliziotti a cui nel frattempo si è aggiunto il biondino che mi aveva accolto all’entrata. Quando l’agente Wells rientra però l’atmosfera cambia repentinamente. I volti si fanno improvvisamente seri e tesi. La Coppa dei Campioni d’Europa con ancora i nastrini colorati di claret&blue legati ai manici è sul bancone dell’ufficio della polizia di West Bar. Riconosco il momento confuso scivolante nel catartico e chiedo gentilmente di poter fumare una sigaretta.
“No, … qui non si fuma… E comunque adesso prima che mezza Scotland Yard, giornalisti, addetti dell’Aston Villa, tifosi, e curiosi vari arrivino in massa in quest’ angolo di merdosa Inghilterra mi spieghi cosa cavolo ha combinato visto che tutti, esercito compreso, siano alla ricerca di questa cosa.” 

Rinfilo la mia Benson&Hedges nel pacchetto semivuoto e riporto la versione mentre il luccicante trofeo sembra ipnotizzare gli ufficiali più giovani, increduli di avere quella coppa nel loro luogo di lavoro quotidiano.
“Mi chiamo Eric Sykes ma questo lo sapete già. Sono il titolare del Fox Inn di Hopwas.” 

[Una piccola digressione: il Fox Inn è il tipico pub che odora di impregnante per legno, birra e piscio, situato in un villaggio a due passi da Tamworth alla periferia nord di Birmingham, dove in genere l’alcool scorre in maniera copiosa, si canta, si balla e chi riesce a restare in piedi gioca a freccette, perché il vero sport nazionale da pub è il dardo, è lui che decide la supremazia.]
“I giocatori dell’Aston Villa avevano scelto senza nessuna prenotazione preventiva il mio locale per festeggiare. Me lì sono ritrovai tutti dentro belli carichi e con un nugolo di gente in coda che in breve ha imballato il pub in ogni ordine di posto e hanno sistemato la Coppa su uno sgabello del banco di mescita. Tutti la toccavano, baciavano, fotografavano. Era talmente al centro dell’attenzione che paradossalmente ad un certo punto rimase “sola” e nessuno sembrò più accorgersi di lei, talmente erano tutti sbronzi.” 
“E perché mai l’ha portata via Sykes? mi scusi, ma non capisco.” 
“Vede hanno incominciato a spaccarmi il pub quei casinisti, io ci tengo al mio posto di lavoro, le sterline le sudo, mica come quei calcia palloni a tradimento, e allora mi è salito il sangue alla testa, ho agito. Ho preso quella Coppa e sono scappato via, per dispetto, per spregio, per ripicca.” 
“Ma non ha pensato che potevano riempirla di soldi una volta andati via poteva essere un’occasione più unica che rara?”
“Ho già avuto in passato a che fare con calciatori di Prima Divisone o cantanti di grido, prima bevono anche il fondo del fusto e infine se ne vanno dicendo che passerà la società o il loro agente a pagare e puntualmente i conti non tornavano mai.”

A questo punto tuttavia la faccenda si fa grottesca. Mi invitano sul retro a prendere un tè. Si capisce che per il momento non hanno nessuna voglia di arrestarmi né tantomeno di avvertire Birmingham del ritrovamento. Questa cosa l’avrebbero raccontata ai nipotini e in qualche modo comprendo che volevano dilatare i tempi. Gli occorreva un idea geniale prima di ristabilire l’ordine naturale delle cose e riconsegnare il trofeo ai legittimi proprietari.

 

L’agente Tim Wells escogita la trovata:
“Dai alla svelta chiamiamo altri due ragazzi e organizziamo un match 4 contro 4 in garage. In palio la Coppa Campioni d’Europa. Non capita mica tutti i giorni di poterla sollevare dopo una partitella tra amici…” 

Chiaro no, voi che avreste fatto al loro posto?

 

Qualche giro d’orologio e vedo arrivare altri loro colleghi e ci trasferiamo tutti nel garage della caserma per giocare la partita di calcio più assurda della storia.

 

Nessuno parlò mai di quello che avvenne prima che le autorità venissero a riprendere il trofeo. Nessuno seppe di quella mezzoretta di calcio nell’umidissima autorimessa della polizia di West Bar. E io Eric Sykes tornai con tutta calma al mio pub ormai vuoto e in subbuglio. La versione ufficiale fu soltanto quella che l’oggetto era stato ritrovato e riconsegnato.

 

Anni dopo, l’edificio dove si trovava quella stazione di polizia fu messo in vendita e da polverosi scatoloni sono riemerse le foto degli otto fortunati, me compreso, che in una notte di maggio del 1982 si giocarono in amicizia la Coppa dei Campioni.

 

[Di Eric Sykes si persero le tracce, non si seppe mai se giocò con quelli che vinsero o no, sta di fatto che lo lasciarono andare indisturbato dopo “la partita”.]
“Non lo rifaccia, Sykes, mi raccomando.”. 
“Ah no, certo che no” –dissi -, e poi quando pensate che quelli possano rivincere un’altra volta la Coppa dei Campioni?”

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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