FRIDA KAHLO: ¡Viva la Vida!

di SARA DEL BARBA

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Ho avuto tutto e niente.

Il corrimano di quel tram fu, forse, molto più di una spavalda ironia della sorte, tanto furba e sfrontata quanto amara; lo volle davvero, perché se non fossi scesa dal precedente per cercare quell’ombrellino, non avrei sentito, senza sentire, attraversare il mio corpo così acerbo e gracile, sferrando un colpo secco, duro, senza speranza, frazionando la mia colonna vertebrale fino a lacerare il mio sesso. Sì, ho detto bene: sentire senza sentire. Oh, non è un’antitesi paradossale. Perché non avvertii nulla nel momento dell’impatto, se non la lucidità della tragedia. Per poi vivere scontando la pena dell’urto ogni minuto beffardo di ogni singolo giorno che da lì è seguito.

Sono certa che nessuno mai abbia realmente capito cos’abbia significato sentire frammentare a poco a poco ogni parte del mio corpo, mentre la mente è stata sempre sveglia, lucida, dannatamente presente. Anche quando ho iniziato a bere e poi a mescolarvi pasticche. Ho urlato al mondo tutto il mio dolore, col silenzio, con le grida, con le parole e, soprattutto, con i miei dipinti. Ho colorato me stessa e tutto ciò che ho messo sulla tela, così da poter immaginare, da poter fingere di sapere cosa sono quelle dolci cromie di cui possono godere gli esseri umani.

Sono stata dolore. Sono dolore. Disperazione ima. Ma non mi sono mai fermata. Ho combattuto per la rivoluzione. Per i cachucas. Per Alejandro. Per la patria. Per la Casa Azul. Per Diego. Per me stessa. Per Diego E me stessa. E per i figli che ho dovuto abortire.

Diego, l’elefante grasso, trasandato, brutto, traditore, intelligente, passionale, pazzo, vicino e lontano. Diego sopra ad ogni cosa.

Urlando, ridendo, viaggiando, studiando, piangendo, gemendo. Dipingendo.

Frida, la colomba spezzata.

Ma avrei già dovuto capire che non sarebbe stata una vita facile. Nonostante la mia grinta, la mia voglia, l’intelligenza che mio padre mi ha sempre riconosciuto, i fatti reali,dalla scuola ai risultati concreti, che confermavano che avrei potuto farcela. “Frida pata de palo”. Ben prima di quello squarcio, di quella perforazione uterina. Sì, ne avete riso. Ma nelle mie lacrime non ho mai smesso di ingannarmi che, anche senza gambe come le vostre, non ho avuto bisogno mai nemmeno di quelle ali finte.

Fri(e)da vuol dire libertà. Mio padre fu bravo a trovare il compromesso con quell’isterica di mia madre. Frida sono io. Sono stata sempre rinchiusa in una gabbia, ma non ho mai smesso di rincorrere e combattere per la libertà. Di qualsivoglia natura.

Il mio corpo non mi ha impedito di amare ed essere amata. Uomini e donne. L’ho urlato al mondo. Che, forse, sordo, non ha compreso fino in fondo che l’unico vero limite per me stessa è stato sempre e solo proprio me stessa.

Brucia tutto. Dentro e fuori. È piú cocente del sole a mezzogiorno della mia Terra. Nulla di bello e grazioso. Lo nascondo. Eppure lo grido. Lo urlo a squarciagola, senza sosta. Lo specchio mi condanna. Lo specchio sa essere sarcastica salvezza senza soluzione. Sentenza senza ricorso.

É vividamente insopportabile perché il dolore fisico non ha mai dato respiro. Ed ancora di più, è insopportabile perché il pensiero doloroso non ha mai trovato tregua.

Tutta la mia devastazione si perde come le volute elicoidali di fumo delle mie sigarette, che eppure penetrano ovunque, ma nessuno, tranne me, se ne accorge.

Corpo rotto. Mente intonsa. La condanna è servita. Su un vassoio onirico quanto reale. Frida. Che prova a brillare. Nonostante tutto. A non affogare. Trasognando di un lucido, lento, crudele delirio.

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Un corpo distrutto, fragile. Una mente eccezionale, spirito indomito e selvaggio. Dicotomia antonomasica di una vita troppo breve e difficile. La malattia e l’incidente hanno inevitabilmente segnato la vita di Frida Kahlo. Eppure la passione per tutta una serie di cose, fatti, persone, vissuta senza freni e timori, in cui ha messo tutta sé stessa, ha avuto da guida il cuore piuttosto che la razionalità. Proprio questo l’ha tenuta in vita.

La passione per l’arte, la passione per il caldo e colorato Messico, l’amore per il padre, per la politica, per lo studio, per il piacere fisico e mentale e, su tutto, l’amore complesso, completo e tormentato per Diego Rivera. Vivere al massimo. Anche quando la morte è sempre alla finestra, un Caronte sempre in vedetta a voler traghettare all’Inferno la sua anima. Perché il dolore lancinante ha lacerato tutto, dentro e fuori. Si sente. E si vede, pur tentando di dissimularlo senza sosta e senza scampo. Quando la sofferenza si trasforma in una tale ispirazione, non vi è parola all’altezza per descrivere il risultato.  

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón, nonostante amasse collocarsi anagraficamente nel 1910 (e non per sembrare più giovane, bensì per definirsi “figlia della Rivoluzione”) nasce il 6 luglio 1907 a Coyoacán, Messico. Figlia di Wilhelm Kahlo, tedesco di origine, emigrato in Messico, persona semplice, fotografo di professione, con un amore ed una capacità sorprendenti per la musica. Vedovo da un primo matrimonio, nel 1898 sposa Matilde Calderon y Gonzales, figlia di una messicana e di un indio, originaria di Oaxaca, antichissima città azteca, fortemente cattolica e dai tratti isterica. Sei figlie.  Tra le quali Frida, la più ribelle, molto più che “sopra le righe”. Carattere forte dal primo vagito, capacità e intelligenza fuori dal normale. Contrapposti a un fisico e ad una salute troppo deboli.

A sei anni inizia il calvario della sua “gamba di legno”. Il dolore ha iniziato presto la sua guerra contro Frida.

Nel 1925, di ritorno da scuola in autobus col primo amore Alejandro, viene coinvolta in quell’incidente tremendo che le causa la rotture multipla della spina dorsale, vertebre e bacino fratturati. Il corrimano le trapassa il corpo; nemmeno se fosse stata la sagoma di un’area di tiro avrebbe avuto una tale precisione dei punti del dolore . Le perfora l’utero e il sesso, condannandola al più grande dei suoi rimpianti: non riuscire a portare a termine una gravidanza.  Rischia di morire, più di 30 interventi chirurgici che la costringono a letto per mesi. Sfigurata nel corpo e nell’anima. Per sempre. 18 anni e la vita è già segnata.

Durante i mesi a letto immobilizzata da mostri di busti di metallo e gessi, i colori e le penne di cui non può colorare la propria esistenza divengono il mezzo salvifico per aiutarla a non affogare. Da qui un’indiscussa carriera artistica di successo mondiale. Ma, a che prezzo.

La prima opera di Frida è un autoritratto, il primo di una lunga serie “dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio”. Lo specchio sul soffitto, immobilizzata a letto, é diavolo e salvatore. Dicotomia ricorrente della tragicità.

Nel 1928 diventa attivista del partito comunista. È in quell’anno che conosce Diego Rivera, il pittore più famoso del Messico rivoluzionario. Lo aveva già incontrato quando aveva quindici anni (e lui trentasei), anzi, inseguito, spiato, indispettito,sotto i ponteggi della scuola nazionale preparatoria, mentre Diego stava dipingendo un murale per l’auditorium della scuola.

Il 21 agosto 1929 sposa Diego, nonostante lui abbia 21 anni più di lei. Diego é più di un Casanova, marito infedele, al terzo matrimonio, con tre figlie, “e con tante amanti quante le spine di un cactus”. Il loro sarà un legame difficile e folle, ma totale e completo, indissolubile, nonostante tutto, fino all’ultimo giorno. Lei stessa dirà: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita… il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera”.

Anche Frida ebbe molti amanti, uomini e donne, tra tutti Lev Trotsky e André Breton. Ma l'”apertura” della coppia Frida-Diego fu più dovuta alle infedeltà di Diego che per scelta di Frida, che soffrì molto per i tradimenti del marito che ebbe persino una relazione con la sorella minore di Frida, Cristina.

Vista l’impossibilità di fare affidamento sulla fedeltà di Diego, la seconda volta in cui si sposarono, dopo la prima separazione, Frida decise di vivere in case separate, unite tra loro da un piccolo ponte, in modo che ognuno di loro potesse avere il proprio spazio “artistico”.

Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”.

Tra l’arte e l’angoscia, i viaggi e i rapporti umani, gli aborti e le mostre. La vita di Frida finisce all’alba del 13 luglio 1954. Poco dopo aver compiuto 47 anni. Il suo ultimo quadro è una natura morta di frutta fresca ed invitante, dal titolo “¡Viva la Vida!”. Le sue ultime parole scritte nel suo diario “Spero che l’uscita sia felice e spero di non tornare mai più”. Embolia polmonare. La causa non la sapremo mai davvero.

 

Poche persone sanno quanto un corpo che si disgrega giorno dopo giorno sia qualcosa di devastante per un’esistenza. Nessuno intorno a me, sicuramente, è in grado di capirlo. Oggi, tengo alla vita solo perché sono ancora legata ad essa dal filo dei miei pensieri. Idonea solamente alla sofferenza fisica – quella che, ahimè!  sfugge da qualsiasi analisi. Il resto è inutile. Allora, cosa importa, a questo punto, che un bicchiere, una pasticca, o il miscuglio di entrambi, siano di troppo? La goccia che fa traboccare il vaso? Almeno lascerò il beneficio del dubbio: sfido chiunque, se muoio in tali condizioni, a saper se la cicuta fosse volontaria o no. Ho il diritto di avere un ultimo segreto”.

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Nota dell’autrice.

 Ho smesso di contare le volte in cui, arrivata alla seconda riga, ho cancellato e riscritto tutto nuovamente. Cercavo un inizio ad effetto, qualcosa di poetico e vero allo stesso tempo, qualcosa di grandioso, ma agli occhi. Non ci sono riuscita. Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai saputo: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore, nascosto, di struggente bellezza.”

 

Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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