MICHAEL LAUDRUP: “Amleto”

di RENATO VILLA

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1.

Mi hanno chiamato.

Io ho finito la stagione il venti maggio.

Ho vinto una Coppa dei Campioni.

Ho visto la convocazione, e mi sto chiedendo cosa possano volere da me.

 

Penso però che, orgogliosamente, mi farebbe anche piacere rappresentare il mio Paese in una manifestazione importante come il Campionato Europeo di calcio.

 

Poi, il mio sguardo cade sui sorteggi dei gironi, e mi passa la voglia solo di pensarci.

 

Ma chi me lo fa fare di interrompere le vacanze per andare a prendere bastonate in un girone già scritto, nel quale noi danesi siamo solo la Cenerentola?

Chi?

 

Forse, potrebbe farlo il mio orgoglio.

 

2.

Ho ancora sullo stomaco quell’ottavo di finale di sei anni fa.

Eravamo nettamente più forti della Spagna.

Non doveva esserci partita.

 

Tanto che, nonostante le prodezze del loro portiere, riuscimmo a portarci in vantaggio.

A quel punto, tutti noi pensammo di essere ai quarti.

Pensavamo che nulla e nessuno avrebbe potuto toglierci quella giusta qualificazione.

 

E poi…

E poi chissà cosa sarebbe successo, se non ci fossimo suicidati all’ultimo minuto del primo tempo, prendendo un gol assurdo.

Con i nostri occhi vedevamo il pallone, con la mente vedevamo le semifinali.

Le semifinali.

Mondiali.

Non una cosa di tutti i giorni.

 

3.

Però non ci abbiamo creduto abbastanza.

Abbiamo mollato gli ormeggi, per dirla in gergo marinaresco.

Abbiamo segnato e ci siamo illusi.

E illudersi fa male.

 

Poi, quando subimmo il pareggio, a tempo quasi scaduto, il mondo ci cadde addosso.

Ci sentivamo traditi da noi stessi.

Noi, che eravamo i più forti.

Noi, che eravamo i più belli.

Noi, che esaltavamo la folla.

Noi, che tornavamo a casa.

 

4.

La nostra favola era finita lì.

Perché poi non eravamo mai più stati all’altezza del nostro valore di allora.

Avevamo sempre fallito.

 

Due anni dopo, in Germania, avevamo fatto una figura desolante, ed avevamo finito il nostro Europeo senza segnare un gol.

 

Ai mondiali in Italia non eravamo neanche presenti.

Della magnifica squadra che aveva stupito nel mondiale di quattro anni prima in Messico era rimasto solamente il ricordo, oltre a quei pochi giocatori che allora erano giovani.

 

La Federazione aveva deciso di ricostruire, di ripartire da zero.

Obiettivo, Svezia 1992.

Ma non aveva fatto bene i conti.

Per niente.

Finimmo secondi nel girone, dietro alla Jugoslavia, che le vinse tutte.

 

Eravamo rassegnati all’ennesimo fallimento.

 

Poi…

Poi accadde qualcosa.

 

5.

Accadde che, mentre ero in vacanza e pensavo felice a quella coppa vinta poco tempo prima, mi arrivò una telefonata.

Una telefonata strana.

Mi chiedeva se potevo andare in Svezia per l’Europeo.

 

Era il selezionatore della nazionale danese.

Subito pensai a uno scherzo, visto che avevamo finito il girone secondi.

 

C’era qualcosa che non andava.

 

Così, una volta riuscito a staccarmi dal telefono, pensai a come informarmi.

 

Pensavo a uno scherzo, almeno all’inizio.

Poi accesi il televisore nella mia camera d’albergo.

 

Non ebbi bisogno di guardarla.

Squillò ancora il telefono.

 

Era mio fratello.

 

6.

“La Jugoslavia è fuori”.

Quelle furono le prime parole che mi disse.

Non mi salutò nemmeno.

Poi ci fu la richiesta di interrompere le vacanze, cosa che lui aveva già fatto, perché avremmo dovuto giocare l’Europeo.

 

Lo ascoltai.

E, mentre lo ascoltavo, mi chiedevo cosa ci sarei andato a fare in Svezia.

 

I “plavi” ci avevano allegramente tritato.

Non meritavamo quell’occasione.

 

Non meritavamo quella speranza.

 

E poi, le vacanze sono le vacanze.

Sono sacre.

 

Non scherziamo.

 

7.

Certo, la voglia di tornare indietro e aggregarsi alla squadra fu forte.

Perché, in fondo, sarebbe comunque stato un altro torneo importante da giocare.

 

Però…

però c’era un problema.

 

Non sapevo cosa fare, e tanto meno cosa dire.

Non avrei avuto il coraggio di giocare un torneo per il quale non mi ero qualificato.

Sarò fatto male, ma sono così.

 

Ma tutti premevano perché andassi.

In fondo, ero il giocatore più rappresentativo.

Quello col nome più importante, che aveva giocato nelle squadre più grandi.

 

Anche questo mi piaceva poco.

 

E io continuavo ad essere indeciso.

 

8.

Poi, dopo una lunga discussione con mio fratello e col selezionatore della nazionale, cominciai ad avere le idee un po’ più chiare.

 

Anche se relativamente, ovvio.

 

Ma la mia idea era sempre quella di restare a casa, anche se difendere i colori della bandiera mi attirava.

 

In fondo, ad ogni giocatore interessa essere chiamato in nazionale.

Anche se, nel mio caso, mi sentivo un po’ come l’ancora di salvezza, il gancio al quale potersi appendere.

 

E non mi pareva.

 

9.

Mi presi qualche giorno di tempo, in fondo quella era una scelta da ponderare bene e le vacanze sono pur sempre le vacanze.

 

Ci demmo una scadenza, così loro sapevano che per quella data avrei comunicato la mia decisione e mi avrebbero lasciato in pace fino al mio ritorno a Barcellona.

 

Sì, lo ammetto, me la presi comoda, sfruttando il fatto che ero il giocatore più rappresentativo del mio paese.

 

Insomma, la feci sporca.

 

Poi, però, non mi sentii di dire a Moller Nielsen che avrebbe dovuto lasciare qualcuno a casa per poter far giocare me.

 

Non sarebbe stato giusto.

 

Così, presi il telefono e gli dissi che rinunciavo.

Definitivamente.

 

10.

Poi, decisi che mi sarei guardato gli Europei dal divano di casa, senza alcun rimpianto.

Svezia, Francia e  Inghilterra sarebbero state le nostre avversarie.

 

Ora, erano le “loro”.

 

Un po’ mi dispiaceva, ma nella vita non si può avere tutto, e io in quell’anno avevo già avuto tanto.

 

E poi, ero convinto che la spedizione sarebbe finita male.

 

Erano la squadra più debole, e lo sarebbero stati anche con me.

A meno di un miracolo.

 

11.

Vidi le partite del girone quasi rassegnato.

Non avrei mai pensato che quella squadra, raccolta e radunata in pochi giorni, sarebbe riuscita a fare tre punti e a passare il turno.

 

Ero contento per mio fratello, che stava giocando un europeo sontuoso.

Se avevano passato il girone, e dico “avevano” e non “avevamo” perché parlo di loro, gran parte del merito era di Brian.

 

Non dico che cominciavo a pentirmi di essere rimasto a casa, quello no.

 

Però loro una bella soddisfazione se l’erano tolta, alla faccia dei bookmakers.

 

E in semifinale avrebbero incontrato l’Olanda campione in carica.

Quella di Van Basten, Gullit e di tanti altri campioni.

 

Una sfida impari.

Una sfida impossibile.

 

Ma, pensai, nel calcio nulla è impossibile

 

12.

La sera della sfida con l’Olanda ero tentato di non guardare la partita.

Temevo un massacro.

un’umiliazione.

E, anche se non ero in campo, sono pur sempre danese.

Non ci tenevo ad assistere ad un’ esecuzione.

 

Poi pensai che, in ogni caso, era già stato un successo.

Perché di passare il girone non era convinto nessuno.

 

Così, accesi il televisore, pronto ad assistere ad una sonora sconfitta.

Se poi fosse successo altro… non mi sarebbe certo dispiaciuto.

 

13.

Fu una partita incredibile.

Come, d’altra parte, molte di quell’ Europeo.

 

Gli olandesi giocarono con la convinzione di essere già in finale.

La Danimarca ci mise l’anima, un po’ perché se proprio doveva perdere voleva farlo con onore, e un po’ perché vedeva la possibilità di giocare la finale, di fare la grande impresa.

 

Io ero lì, seduto sul mio divano, a pensare a cosa avevo buttato via, a quale occasione stavo rischiando di perdere.

 

Perché la partita finì in parità, e si passò ai supplementari.

 

Le squadre erano stanche e sfiduciate, e decisero di giocarsela ai rigori.

Solo che loro avevano una classe media molto superiore alla nostra.

 

Ma noi avevamo Schmeichel.

 

14.

La serie infernale si decise quando Peter parò il tiro dal dischetto a Marco Van Basten.

 

Lì gli olandesi crollarono di schianto.

L’errore del loro giocatore  più forte e più rappresentativo li abbattè.

 

Quando la partita finì, vidi quelli che avrebbero dovuto essere i miei compagni festeggiare una finale conquistata.

Una INCREDIBILE finale conquistata.

 

Una vittoria impossibile.

 

E ora, in finale, ci aspettava la Germania.

Quella Germania che quattro anni prima ci aveva battuto, in casa sua.

 

Ma stavolta…

stavolta doveva essere un’altra partita.

 

15.

La Germania.

 

L’avevamo stroncata nel 1986, quasi senza fargli vedere palla.

Poi loro erano arrivati in finale.

Con noi, arrabbiati e delusi, a casa.

 

Due anni dopo, si erano invertite le parti.

Ci avevano asfaltato impunemente.

Comunque, loro erano andati avanti e noi a casa.

Come al solito.

 

Stavolta no.

Era la bella.

Ed era una finale.

 

Non sapevo dove l’avrei vista, se a casa o in un locale, in mezzo alla gente.

 

So solo che volevo vincere.

Anche se non ero in campo.

 

16.

Camminai un paio d’ore per Barcelona.

Non avevo voglia di stare al chiuso.

L’attesa mi stava consumando, più che se avessi dovuto giocare.

 

Così, mi cercai un locale nel quale vedere la finale.

La “mia” finale.

Quella che avrei dovuto giocare, e che non giocavo.

 

Quella che avrei pagato per giocare.

E che avevo rinunciato a giocare per la mia eterna indecisione.

 

Non sono mio fratello, lui si butta nelle avventure.

 

Io sono il pallido prence.

Il timido.

l’indeciso.

 

Quello che ha buttato qualcosa di leggendario perché non ci credeva.

A volte avere delle illusioni è una bella cosa.

 

17.

Trovai un locale nascosto in un vicolo.

Non me la sentivo di andare in uno di quei posti “in” nei quali sei riconosciuto anche dai tavoli.

 

Volevo un po’ di privacy, e di silenzio.

 

D’altra parte, anche se era una finale, la Spagna non giocava.

Ma giocava la Danimarca, e io ci tenevo a vederla tranquillamente.

 

Non  volevo che la gente si fermasse al mio tavolo per chiedermi l’autografo.

Volevo solo vedere la partita.

 

Così mi andai a sedere ad un tavolino in un angolo, in ombra.

Per fortuna vedevo bene lo schermo.

E, già che c’ero, ordinai da bere.

Così, per confondermi tra la folla.

 

18.

La birra arrivò.

Non persi tempo e la assaggiai.

Il collegamento stava per iniziare, ed io ero lì che sentivo battere il cuore.

 

Non mi era mai successo.

Ma stasera non giocavo.

Ero un semplice tifoso.

 

Della squadra, ma non solo.

Il cuore batteva per mio fratello, che sarebbe stato in campo fin dall’inizio.

 

Non ci pensai due volte e buttai giù un altro sorso di birra.

In fondo sono danese, e la birra è bevanda nazionale.

Aiuta a passare il tempo, a lasciar scivolare via l’attesa.

 

Perché l’attesa consuma i nervi.

Logora.

Rende irritabili.

Cosa che a me non era mai accaduta prima.

Mai.

 

19.

La partita iniziò come tutti ci aspettavamo.

I tedeschi all’attacco e la Danimarca a difendere.

 

D’altra parte eravamo stati definiti “Cenerentola al ballo di corte” da tutta la stampa mondiale.

E ce lo stavamo godendo il ballo di corte.

 

Sì, perché non passò neanche metà del primo tempo che andammo in vantaggio grazie a un contropiede fantastico.

 

I tedeschi cominciavano a non capirci più nulla.

Non era da loro farsi prendere di sorpresa.

 

Noi c’eravamo riusciti.

 

20

 

Jensen.

 

Aveva segnato Jensen.

Un onesto corridore di centrocampo.

 

Per i tedeschi era uno sfregio.

Avessero preso gol da Brian, che di quella Danimarca era il miglior talento, non se la sarebbero presa così tanto.

 

Invece s’incazzarono, e di brutto.

Ci assediarono.

 

Ma non riuscirono a cavar fuori niente.

 

Non era serata.

 

Quando il primo tempo finì, noi eravamo ancora in vantaggio.

 

E loro erano furiosi.

 

21.

Ordinai un’altra birra, per il secondo tempo.

 

Arrivò appena prima del calcio d’inizio.

 

I tedeschi si avventarono all’attacco come non li avevo mai visti.

 

Volevano recuperare quel gol.

Volevano vincere.

E, minuto dopo minuto, iniziarono a scoprirsi sempre di più.

 

Anche perché il nostro portiere stava parando tutto, e la nostra difesa reggeva l’urto.

Continuo

 

Vedevo mio fratello Brian sfiancarsi in corse, per recuperare sugli avversari, che  io non avrei mai fatto.

 

Non era da me.

E capii in quel momento cosa mi ero perso.

 

22

L’ attacco tedesco continuò per quasi tutto il secondo tempo.

 

Poi, un lampo improvviso.

Una lama squarcia la difesa tedesca.

E quella lama porta La maglia numero 18.

Kim Vilfort.

 

Ha la figlia in ospedale.

Leucemia.

 

E’ il giocatore al quale avrei tolto il posto, se fossi andato.

 

Vola verso la porta tedesca, palla al piede.

E piazza il pallone in un angolo.

 

Scatto in piedi, birra in mano.

Ora è proprio finita.

 

Guardo il boccale.

Guardo il tavolo.

Vabbè, puliranno dopo.

 

Sono contento.

Per loro.

E per me.

 

Me la sono goduta lo stesso.

 

Anche se in campo…

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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