di ANDREA PELLICCIA
“Così tu pensi di saper distinguere
il Paradiso dall’Inferno,
i cieli azzurri dal dolore.”
Pink Floyd, Wish You Were Here
In Paradiso i pali delle porte da rugby sono infiniti.
Non “prolungati idealmente all’infinito” come recita, con insolita poesia, il regolamento del gioco. Sono proprio di lunghezza infinita. Farebbero la gioia del matematico greco Euclide, se solo potesse vederli. Due semirette bianche, lucide, perfettamente parallele.
Isaac Newton, che invece ha potuto ammirare quei pali da vicino, si è domandato più volte come quell’esile e allo stesso tempo immensa struttura non crollasse, vinta dal proprio peso. Ma l’esimio scienziato ha dovuto ammettere che le leggi della fisica della Terra sono diverse da quelle del Paradiso.
Non sempre, però. Ad esempio ci fu quella volta in cui, spinto da alcuni connazionali inglesi che in vita erano stati giocatori di rugby più o meno famosi, decise di scendere in campo per una partitella tra amici.
Entra subito nel vivo del gioco, anche se, nella posizione di tre quarti ala in cui è schierato, non vede giungere molti palloni dalle sue parti.
Poi un attacco avversario. L’ala di fronte a lui, un irlandese, lo punta, si dirige dritto verso di lui, poi all’ultimo momento, con un’abile finta, cambia direzione ed evita il placcaggio. Il povero Newton, disorientato da quella repentina accelerazione, perde l’equilibrio e cade pesantemente a terra.
Gli ci vuole poco per rendersi conto che le leggi del moto che hanno regolato la sua caduta su quel campo del Paradiso sono identiche a quelle che lui stesso aveva descritto e codificato molti anni prima sulla Terra.
A parte i pali, i campi da rugby del Paradiso sono identici a quelli della Terra. Ma non ci sono spalti. Né curve né tribune.
I vecchi allenatori amano posizionarsi ai bordi del campo per rivivere l’emozione di dare indicazioni e suggerimenti ai giocatori in campo.
I vecchi tifosi amano librarsi a mezz’aria per poter osservare da vicino le gesta dei propri beniamini.
“I piloni hanno il posto garantito in Paradiso”, recita un saggio proverbio. Ed è vero. Tanti piloni si sono guadagnati il posto in Paradiso per la fatica, per lo spirito di sacrificio. Sempre allo scontro, sempre a contatto con l’avversario per guadagnare pochi preziosissimi centimetri e per garantire l’avanzamento e il possesso della palla alla propria squadra. Generosi in campo, generosi fuori dal campo.
Ma in Paradiso ci sono anche tante seconde linee, terze linee, tre quarti.
Fra questi c’è un giovane neozelandese, un tre quarti centro. Robert George Deans, detto Bob.
La sua vita terrena è stata molto breve.
Bob fa parte della leggendaria spedizione che nel 1905 partì dalla Nuova Zelanda per raggiungere le Isole Britanniche. Il rugby di due mondi a confronto. Quaranta giorni su una nave passati a giocare a carte e ad allenarsi, immaginando il momento dello sbarco nella terra dei propri avi.
La Nazionale Neozelandese, che in questa tournée si guadagna il soprannome di All Blacks, si mostra nettamente superiore a tutti gli avversari: un gioco dinamico e innovativo, una capacità organizzativa mai vista. Le squadre che li fronteggiano si ritrovano quasi sempre a contare alla fine della partita passivi molto pesanti. Nelle trentacinque partite disputate totalizza quasi mille punti subendone poco più di cinquanta. Dominio assoluto.
Gli All Blacks stravincono, tra lo stupore generale, tutti gli incontri. Tranne uno. Quello con la maggiore potenza britannica dell’epoca: la Nazionale del Galles.
Una partita straordinaria. Il Galles, a metà del primo tempo, segna una meta con Teddy Morgan. 3 a 0, in base ai punteggi in vigore all’epoca. I Neozelandesi non riescono a esprimere il loro rugby migliore, sia per la giornata di scarsa vena di alcuni giocatori sia per l’atteggiamento dell’arbitro, lo scozzese John Deaver Dallas, fortemente penalizzante nei confronti del loro gioco.
Ma nel secondo tempo, dopo varie occasioni mancate da entrambe le squadre, i Neozelandesi hanno la possibilità di pareggiare.
Bob Deans riceve l’ovale. È lì, vicinissimo alla fatidica linea bianca. Si tuffa. Viene bloccato. Con uno scatto di reni riesce a guadagnare quei pochi centimetri che gli permettono di schiacciare l’ovale appena oltre la linea. Esulta. È meta!
Anzi, no. L’arbitro, lontano dall’azione, accorre sul posto e sancisce che il pallone non ha varcato la linea. Bob, disperato, sostiene di essere stato trascinato indietro da un giocatore gallese dopo aver segnato la meta.
Tutto inutile. L’arbitro non cambia decisione. Il punteggio resta 3 a 0 e Galles – Nuova Zelanda del 1905 resta nella storia come la più intensa e controversa partita di rugby mai giocata.
Bob Deans disputa le restanti partite della tournée, poi torna con la squadra in Nuova Zelanda. Ma in mente continua ad avere sempre quella maledetta meta contro il Galles.
Pochi anni dopo, un’operazione di appendicite. Routine, normalità. Ma qualcosa va storto.
La malattia. La consapevolezza che la vita si sta spegnendo. A soli ventiquattro anni.
Sul letto di morte la mente si affolla dei ricordi di una vita breve e intensa. Bob, solo ossa e sudore, raccoglie le poche forze rimaste. Guarda le persone intorno a lui, venute lì per l’estremo saluto. Sorride.
«Io ho segnato quella meta», riesce a dire con un filo di voce. Poi chiude gli occhi.
Li riapre subito dopo. Lentamente. Colpito da una luce non accecante ma strana, non familiare.
I sensi si risvegliano, poco alla volta. Si rende conto di non essere nella posizione supina del letto di morte ma di trovarsi a pancia sotto. Sente sotto di sé qualcosa opprimergli il petto. Comincia a tastare quell’oggetto con le mani. Gli ci vuole davvero poco per capire di che cosa si tratti. Un pallone da rugby.
Sente anche il piacevole tocco dell’erba umida sugli stinchi e sugli avambracci. Un campo da rugby.
Poi, un suono. Il silenzio assoluto squarciato da un suono. Quello, inconfondibile, di un fischietto.
Bob solleva lentamente lo sguardo e vede quell’uomo accanto a sé, con il fischietto in bocca e il braccio alzato.
«Bella meta, Mr. Deans», gli dice l’uomo con un largo sorriso.
Bob si rialza e si guarda intorno. L’area di meta. Ma lì vicino nessun giocatore. Nemmeno spettatori. Solo lui e l’arbitro. Che gli ha appena confermato che lui quella meta, quella famosa meta l’ha segnata.
Capisce che quel campo da rugby sarà la sua nuova, piacevolissima casa.
Stringe la mano all’arbitro. «Grazie del complimento».
Mette il pallone sotto il braccio e comincia una corsa blanda verso il centro del campo, mentre una lacrima di commozione gli scende lungo il viso.
All’epoca in cui arriva Bob Deans non ci sono molti rugbisti in Paradiso. Il gioco è nato solo da poche decine di anni.
Molti giocatori arrivano soprattutto durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Il coraggio e la tenacia mostrati sui campi da rugby diventano valore sui campi di battaglia. Per terra, per mare, per cielo. Soldati francesi, marinai italiani, piloti britannici.
Fra questi addirittura un principe. Russo. Alexander Obolensky il suo nome.
Un principe russo che gioca a rugby? E che poi finisce anche in Paradiso?
La bellezza e l’universalità del rugby contemplano anche questo.
Seconda metà degli Anni Trenta. Gli studi svolti in Inghilterra, la nascita della passione per il rugby. La piacevole scoperta di possedere doti eccezionali come tre quarti ala.
Le belle partite disputate con la selezione dell’Università di Oxford gli fanno guadagnare, a vent’anni non ancora compiuti e da cittadino non britannico, un’inopinata convocazione per la Nazionale Inglese.
L’impegno è proibitivo. Gennaio 1936. Gli All Blacks sono in tournée nelle Isole Britanniche e hanno perso pochi giorni prima di un solo punto contro il Galles. L’esordio di Alexander è proprio contro i Neozelandesi, fino ad allora mai battuti dagli Inglesi.
Succede l’incredibile. Alexander porta a termine nel primo tempo due azioni da manuale. Attraversa indisturbato la metà campo neozelandese, supera gli avversari sconcertati e segna due mete straordinarie, ancora oggi considerate fra le più belle mai realizzate dalla Nazionale Inglese.
Punteggio alla fine del primo tempo: 6 a 0 per gli Inglesi. Nel secondo tempo ci si aspetta una reazione furiosa degli All Blacks. Punteggio finale: 13 a 0. Un trionfo.
Pochi mesi dopo Alexander diventa cittadino britannico. Disputa altre tre partite ufficiali con l’Inghilterra. Poi nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si arruola nella Royal Air Force, l’Aeronautica Militare Britannica. Immagina di poter schivare gli attacchi degli aerei nemici con la stessa facilità con cui evita i placcaggi degli avversari.
Marzo 1940, ventiquattro anni appena compiuti, un volo di esercitazione. L’atterraggio al campo di volo di Martlesham Heath, vicino Ipswich. Le ruote dell’aeroplano si incastrano in una buca sulla pista.
Le cinture si sganciano per il contraccolpo, Alexander è sbalzato fuori dall’abitacolo.
Un volo di alcuni metri, l’impatto violentissimo con il suolo, una mano che lo afferra.
Spalanca gli occhi. Davanti a lui John Mulligan, compagno di squadra e di studi ai tempi di Oxford.
«Tutto bene, Alexander? Un po’ irruente il placcaggio di quel pilone scozzese. Ce la fai a stare in piedi?».
«Sì, credo di sì», balbetta Alexander.
È scosso, disorientato. Si guarda intorno. È in piedi su un prato verde, ma non è quello di Martlesham Heath. È su un campo da rugby. Lo capisce dalle linee, lo capisce dalla porta a forma di acca dei cui pali, stranamente, non riesce a vedere la fine.
Ai bordi del campo non ci sono né spalti né spettatori. Ci sono allineati alcuni aerei da combattimento. Tra questi riconosce il suo Hawker Hurricane. È intatto. Nessun graffio, nessuna ammaccatura. Come se non fosse mai decollato. Come se la guerra non ci fosse mai stata. Né quella né tutte le altre prima di quella.
Anche il suo corpo è miracolosamente intatto. Ha indosso un completino bianco, quello della Nazionale Inglese.
Ad alcuni metri di distanza, all’interno del campo, una mischia aperta, giocatori che si contendono l’ovale. Sorride e corre verso di loro. Il mediano di mischia sta per far uscire il pallone.
Alexander va a schierarsi nella propria posizione, quella di ala destra.
«Forza, signori», grida, «facciamo uscire quel pallone e giochiamolo fino in fondo!».
In Paradiso c’è molto interesse per le vicende terrene. Il rugby giocato sui campi della Terra viene seguito con passione anche dall’alto.
Particolare fermento nel periodo in cui si disputano i Mondiali e il Sei Nazioni. Fra gli appassionati addirittura qualche Santo. San Patrizio, ad esempio, il Patrono d’Irlanda.
È il 12 marzo 2011, sta per iniziare una partita. San Patrizio si rivolge a un giovane ragazzo italiano.
«Oggi giocate nel Sei Nazioni contro la Francia».
«Sì, proprio così», gli risponde il ragazzo imbarazzato. È timido e non gli capita certo tutti i giorni di dialogare con un Santo.
«È da molto tempo che non battete la Francia, vero?», chiede San Patrizio.
Un velo di malinconia sembra posarsi sul volto del ragazzo. «In tanti anni di sfide li abbiamo battuti una volta sola, quattordici anni fa a Grenoble», risponde. «Quel giorno io c’ero», prosegue orgoglioso, «e ho segnato anche una meta».
«Mio caro Ivan Francescato, ricordo bene quella partita e ricordo anche che pochi mesi prima avevate battuto la mia Irlanda a Dublino».
Il ragazzo ha imparato che in Paradiso non ci si deve meravigliare di nulla, soprattutto quando a parlare con te è un Santo. Quindi decide di non chiedere al Santo come faccia a conoscere il suo nome e come mai sia così preparato sul rugby.
San Patrizio prosegue. «So che voi Italiani tenete molto a questa partita. Che ne pensi di seguirla insieme? Magari oggi succederà qualcosa di buono», conclude strizzando l’occhio.
«Con vero piacere», risponde Ivan.
Si sistemano su una delle poche nuvole presenti sul cielo azzurro dello Stadio Flaminio.
La partita è appena iniziata. Mirco Bergamasco sta per battere un calcio piazzato.
Se il pallone centra i pali sono i primi tre punti per l’Italia. Il pallone finisce in mezzo ai pali. Ma è la Francia a dominare la partita, concludendo il primo tempo in vantaggio 18 a 6. Vittoria sfumata? Ennesima sconfitta onorevole? Gli Azzurri soffrono, combattono, rimontano, grazie anche alla precisione del piede di Mirco Bergamasco che a pochi minuti dalla fine piazza tra i pali il pallone dell’incredibile 22 a 21 finale.
«Ma il cielo è sempre più blu!» cantano a squarciagola i tifosi sugli spalti del Flaminio.
E in quel cielo blu San Patrizio si complimenta con Ivan, commosso fino alle lacrime.
A Lorenzo Sebastiani, bravo e generoso. Come tutti i piloni.