di SARA DEL BARBA
“Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo o nei discorsi o nella scrittura, sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore.” (1938 -“Il mestiere di vivere” C. Pavese – Diario 1935/1950).
L’indissolubile e simbiotico legame fatto a nodo che più tiri e più si stringe tra arte e vita, quello che si compone del vissuto, a volte tenero e confortante, molte altre straziante e tormentoso, è una matassa aggrovigliata di domande, emozioni, scoperte, esperienze e ancora domande. Ci prova la scrittura a sciogliere quel nodo. Ma è un mordace palliativo. La mia esistenza è l’emblema massimo dell’arte che, in tutte le sue forme, che sia scrittura, cinematografia, sperimentazione del colore, finisce sempre per confondersi con la “vita vera”, fino al punto da rendere i confini tra le due troppo indefiniti per procedere sicuri, come la fitta nebbia delle mie Langhe. Così, mentre il dolore corrode e consuma ogni guizzo illusorio di pace, solo la letteratura sa essere madre affettuosa, che con il suo caldo abbraccio dà un senso definito alla perpetua sofferenza, ponendola in una dimensione superiore, dissipando, seppur per poco tempo, la cruenta consapevolezza dello stato di fatto di un’esistenza di profonda solitudine. Universalizzare ciò che si vive non è superbia, è solo l’umano tentativo di lenire il senso opprimente dell’angoscia, di sopravvivere alla propria tristezza congenita, alla propria percezione di fallimento, di costante insoddisfazione. Di infelicità affettiva che non ha la speranza della dolcezza consolatoria. E’ un modo di illudersi che a quel senso di abbandono vi possano essere soluzioni diverse dal “vizio assurdo”. Ma prima o poi arriva la resa dei conti, il momento che ti ossessiona da una vita intera, quello in cui comprendi fino in fondo che nemmeno la tanto amata scrittura può dissipare questo disagio. Un’abitudine insita, fatta di un bisogno morboso. Nel mio caso non è bisogno di fumare, né di bere. E’ un vizio del pensiero. Che ha bisogno di concretizzarsi nella sua inevitabile, obbligatoria forma. La conclusione che hai sempre saputo di dover raggiungere. Guardo fuori dalla finestra di questa camera, fatta di pareti che avrà visto così tanti tipi di passanti da non sorprendersi di quello che sto per fare. Brusio di gente accaldata in strada. La pipa è quasi spenta. Appoggio gli occhiali un’ultima volta.
“Il maggior torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo”. (C. Pavese, 1937)
Chi sta dall’altra parte si chiede, inevitabilmente, come sia possibile. Un uomo di grande spessore culturale, un artista della penna, che ha saputo sperimentare stili di scrittura tanto variegati, dettati da una sorta di percezione di incomodità nel campo non solo politico dell’Italia di quegli anni, ma anche letterario. La poesia era da tempo taciturna e la prosa era fin troppo adoperata. La disgregazione sociale, civile, morale e politica era avvertita da Cesare Pavese proprio nell’urgenza di abbandonare quegli atteggiamenti stilistici anacronistici così forzatamente richiamati dal rondismo. La linfa vitale per la sua scrittura Cesare la trova, oltre che nei propri ricordi e nel proprio vissuto trasponendoli nei suoi libri così autobiografici, nel linguaggio realistico, attuale, energico, oggettivo proprio della letteratura d’oltreoceano. Pur non essendo mai andato in America, impara a conoscere perfino lo slang più duro della lingua americana, grazie alla sua inarrivabile intelligenza e alle conoscenze che aveva nel Nuovo Mondo. Diventa famoso oltre i confini, compone la sua tesi di laurea da avanguardista sulla poesia di Walt Whitman che fu tanto contrastata e criticata nel ventennio fascista dal conservatorismo accademico. E allora, può essere lecito domandarsi come un siffatto artista possa arrivare ad avere un rifiuto tale della propria esistenza da sentirsi obbligato a mettervi fine. La costante metamorfosi di un’anima che diviene sempre più antro, come la grotta di una roccia carbonatica in cui persino il calcare diviene troppo facilmente aggredibile, scioglievole, in balia dell’acqua che scorre senza mai fermarsi e scava dentro, ancora ed ancora. E l’anima, a poco a poco, si disgrega, si separa, si disperde. Svanisce.
Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Balbo, tra le colline nebbiose delle Langhe, il 9 settembre 1908, l’anno d’uscita de “La riconquista di Mompracem” di Salgari, che tre anni dopo anticiperà, seppure in modo ben più atroce, quel vizio assurdo messo in scena anche da Pavese proprio a Torino. Cesare non è mai stato felice. Solitudine, mancanze, angoscia. Quando è ancora bambino la famiglia si trasferisce a Torino: questo mutamento rappresenta senza dubbi la sua prima lacerazione esistenziale. Qui, poco dopo, il padre muore a causa di una malattia incurabile. Cesare è un bambino timido e introverso, ama leggere e interrogarsi sulla natura, sempre solo. Il rapporto con la madre è tutt’altro che affettuoso: ella soffre a tal punto per la perdita del marito da divenire asettica col figlio, severa e rigida, di una freddezza insostenibile. La malinconia data dalla mancanza dei luoghi e dei paesaggi del suo paese natio, simbolo di serenità e spensieratezza, sarà sempre il leit motiv della sua anima. E’ una concezione condizionata dal primo vedere, dalle scoperte fanciullesche. Ma non è una memoria alla Proust, né una brama di ritorno al bambinesco leopardiano o pascoliano. E’, piuttosto, il veicolo per ritrovare se stessi e ciò che sarà di noi, che è già segnato nella tenera età, quando, per la prima volta, abbiamo conosciuto e scoperto la realtà che ci circonda. “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità – si vorrebbe morire.” (1937). Il Pavese adolescente è già capace di scrivere componimenti struggenti sull’amore mai appagato, la delusione dei rapporti amorosi, tematica che lo accompagnerà fino all’ultimo respiro, bloccato per sempre dai barbiturici. “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” è la traduzione in versi di quella corrispondenza tra amore e morte, in cui compare per la prima volta quell’espressione che suona tragicomica – “vizio assurdo” – che sta a significare la sua inclinazione al suicidio. Tra la nostalgia delle origini e l’incapacità di avere rapporti amorosi come gli altri coetanei, Cesare si chiude sempre più in se stesso. Il vizio s’insinua nelle sue viscere, diviene tormento e malattia. Nel diario che ha lasciato, tenuto per quindici anni della sua vita, fino al 1950, anno del concretizzarsi del “vizio assurdo”, non può non trovarsi l’idea del suicido in ogni riga, anche quando vuole essere celata con la maestria che contraddistingue la sua scrittura. La parola ossessione non esprime a sufficienza quel tarlo mentale, continuo, incessante, senza tregua alcuna.
Le sue opere, tante opere, sono stracolme di personaggi che tornano, che vivono di solitudine, di esclusione e delusione: il trovatello che va in America e poi torna senza ritrovare ciò che aveva salutato; la guerra, la Resistenza, quelli che muoiono e quelli che, non morendo, non si sentono eroi; gli innamorati non corrisposti, l’infedeltà delle donne; il fallito che non si uccide e quello che invece ha il coraggio di farlo. Tanti, tantissimi personaggi che sono, nella sua mente, uno solo: se stesso.
Ancor prima che un artista, Pavese è un uomo, con gli occhiali sempre allentati sul naso, perennemente intento a scrivere, appuntare, leggere, imparare. Col pensiero fisso delle sue Langhe e delle donne che lo fanno soffrire. E’ un uomo che vorrebbe tanto vivere, condividere le esperienze con i ragazzi e poi uomini come lui, mantenere delle amicizie senza sentirsi schivo o disadattato. Vorrebbe una donna e formare una famiglia. Ma qualcosa di troppo forte lo costringe ad evitare il contatto umano, a passeggiare solo, a sentirsi inadeguato rispetto agli altri uomini.
La sensazione di non appagamento è stata fedele compagna della breve vita di Cesare. Quanti hanno tentato di trovare delle risposte plausibili tra le righe di tutti suoi scritti, degli indizi nei suoi pensieri profondi, non sono stati capaci di cogliere le motivazioni di quel tremendo e soffocante disagio umano che, nonostante le grandi aspirazioni, gli innumerevoli sforzi, l’ha condannato alla perpetua insoddisfazione interiore.
Nemmeno la consapevolezza del proprio indiscutibile valore artistico riesce nell’impresa di trovare la pace a quel conflitto interiore. Anzi, a tratti è quasi come se i suoi successi letterari gli dessero fastidio. Questo è “un difetto per cui vale la pena uccidersi”, come scrive. E l’immagine stessa del suicidio, pur essendo necessaria per Pavese, è al medesimo tempo annosa, perché è scandalo, peccato, follia per la società e la religione.
Troppo piccolo di fronte alla vita ed inerme di fronte al destino. Troppo rumore nella mente, la malattia nell’anima sputa la sua sentenza definitiva: incurabile. Nonostante il premio Strega, i riconoscimenti per le sue opere, i continui progressi di quello stile vivo e genuino. Troppo cuore.
Eppure, non è stato mai un mistero per nessuno il suo pensiero di morte, la sua inclinazione fortemente depressiva. Forse, anche chi gli è stato vicino non ha mai creduto fino in fondo al fatto che Pavese avrebbe davvero realizzato questo disegno di non vita.
Il 27 agosto 1950 il corpo di Cesare Pavese viene trovato senza vita sul letto di un albergo, a Torino. Abbondanti sonniferi fermano il suo respiro, spegnendo quella mente così brillante e bloccando le palpitazioni di quel cuore tanto profondo. Esalando, forse, nella tragedia di quel gesto, un primo ed ultimo, flebile sospiro di sollievo.
Le sue ultime righe di lascito su un piccolo biglietto suonano quasi come le note di accompagnamento al fermo immagine di una persona che prova a guardare oltre la morte e ad immedesimarsi in coloro che non sanno darsi risposta ad eventi del genere perchè incapaci di odiare la vita: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Qualche giorno prima, il 17 Agosto 1950, ha fine il suo diario iniziato nel 1935: “I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo. Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere – di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare. È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito. Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita. Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò. Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”
Mi piace ricordarlo con uno dei suoi pensieri, scritto nel dicembre 1938, dove trovo la pace del mio di pensiero, perché nella pratica della lettura e della scrittura, che sia propria o altrui, è dannatamente emozionante ritrovare le sensazioni del proprio pensato e vissuto, anche quelle che vanno a nascondersi negli angoli più remoti dell’io, che, spaventato a volte dalla realtà, ha anche bisogno di sentirsi nudo:“Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.”