VINCENT

di SARA DEL BARBA

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L’infinito delle stelle nel profumo del mandorlo in fiore – Vincent Van Gogh

Per quanto mi riguarda, sono piuttosto spesso a disagio nella mia mente, perché penso che la mia vita non sia stata abbastanza calma; tutte quelle amare delusioni, avversità, cambiamenti mi impediscono di svilupparmi pienamente e naturalmente nella mia carriera artistica.” (Vincent Van Gog – Lettera W11 16 giugno 1889).

Sono linee vorticose, fluiscono sullo sfondo in un movimento mosso e ondulato, pronte a fondersi al centro del mondo per formare una spirale cosmica. Undici stelle gialle, enormi palle di fuoco immerse nel freddo blu, fluido cielo notturno che volteggia di sfumature cerulee e di ardesia. Una falce di luna si affaccia dall’angolo, irradia una luce ancora più colorata, più calda e più luminosa delle fidate stelle. Il pennello è ambasciatore di colpi pesanti e spessi, dal ritmo insistente e frenetico. Agita quest’illusione di essere costantemente in movimento, un senso di lussazione mentale, l’intensità di un istante. Angoscia e passione. Il cielo sta per cadere. Il cipresso abbagliante nel cielo notturno, con le sue foglie contorte, scure, liquide che si distendono verso l’infinito; sembra di sentirne il fruscio nel vento, mentre si oppone allo stridere dell’involucro gassoso che avvolge la Terra. Le galassie si immergono nel villaggio addormentato, lontano. Le luci umane sono spente, alienate anche dal sonno, inconsapevoli del cielo che esplode di vita e del cespuglio del cipresso che si contorce di resistenza davanti a loro.

“Questo lavorare sodo mi fa sentire bene. Ciò non mi impedisce di avere un terribile bisogno di – dovrei dire la parola – religione. Poi esco di notte per dipingere le stelle.” (Vincent Van Gogh – Lettera a Theo).

Sebbene mostri un onirico paesaggio della notte, fu dipinto da Van Gogh durante il giorno. Durante più giorni. Con la luce diurna. Nel giugno del 1889, dalla sua stanza presso l’ospedale psichiatrico Saint-Paul-de-Mausole a Saint Rémy, in Provenza. Aveva appena avuto un pesante esaurimento nervoso per la seconda volta. Era diventata, a quel tempo, quasi un’ossessione quell’idea di dipingere un paesaggio notturno. Di certo, non si può non notare che la chiesa nella parte inferiore del centro della tela mostri più somiglianze con l’architettura di una chiesa olandese che con una chiesa francese. L’enorme cipresso tagliato nella parte anteriore sinistra sembra elevarsi verso il cielo, pare muoversi, proprio come il turbolento cielo stellato, in cui la luna e le stelle sembrano quasi esplodere e ruotare attorno. Gli ulivi tremuli. Quel motivo ondulato e rotante di pennellate febbrili posizionate in modo meticolosamente ritmico. Incalzanti. Per quanto gli storici dell’arte si siano cimentati in tanti tentativi di spiegare l’incommensurabile contenuto di quel dipinto, basandosi su storie letterarie, o teorie religiose o addirittura astronomiche, in realtà non c’è mai stata una spiegazione unica, chiara. Forse proprio il significato psicologico stesso, intrinseco nella tela, è la sua spiegazione stessa. Lo stato ipersensibile di Van Gogh, quello che sottende la meditazione spirituale dell’artista e dell’uomo sulla vita, sulla morte e sull’infinito dell’universo. Quel costante, ipnotico movimento ripetuto delle onde che è nella forza primordiale vivificante della natura. Una forza che alcune persone chiamano Dio. Van Gogh, in una delle tante lettere indirizzate al fratello Theo disse che le stelle sono l’ultima destinazione dell’individuo. Il fatto che la vista sia quella fuori dalla finestra della sua stanza del sanatorio in un momento notturno, sebbene Van Gogh abbia rivisitato questa scena nel suo lavoro in diverse occasioni diurne, offre una rara, intima visione serale di ciò che l’artista ha visto mentre era isolato. E’ l’unico studio notturno di quella vista, così tanto descritta con le parole nella miriade di lettere a Theo. Un cataclisma da fine del mondo invade la vista, un’apocalisse piena di aeroliti che si sciolgono, di comete alla deriva. Si avverte l’apice dell’espulsione del suo conflitto interiore sulla tela. E’ una fusione cosmica. Fuori e dentro. Così in contrasto al villaggio in primo piano, con i suoi elementi architettonici, con quelle linee ondulate che disegnano dolci e morbide colline in lontananza, contro l’orizzonte. E senza mai mostrare, in tutti quelle ventuno volte di studio del colore e delle linee, i ferri che verticalmente tagliano la finestra rivolta ad est del manicomio.

Non so nulla con certezza, ma vedere le stelle mi fa sognare.”

L’emblema delle associazioni con il fuoco, la nebbia e il mare e il potere elementare della scena naturale si combina con l’intangibile dramma cosmico delle stelle. L’universo naturale ed eterno culla l’idilliaco insediamento umano, ma lo circonda anche in modo minaccioso. Il villaggio potrebbe essere ovunque. La scena notturna è qualcosa che ha appena scoperto artisticamente, che è d’improvviso divenuta importante. E offre all’immaginazione visiva il suo campo di attività più distintivo e unico, poiché la mancanza di luce richiede l’uso compensativo della memoria visiva.  La sua scoperta del potere luminoso dell’oscurità è una rivelazione estetica personale; non ha più bisogno, dopo la tragica rottura, di Gauguin come catalizzatore. Ed anzi, Van Gogh stava tornando ad attingere al suo modello di Delacroix, che da tempo era perduto, e al principio del contrasto, insistendo ed accentuando  quelle tecniche coloriste che lui stesso aveva sviluppato fino a quel momento. E’ talmente intenso e ricercato che sembra l’espressione matematica della turbolenza attraverso eventi naturali come vortici e flussi d’aria. Forse proprio perché è riuscito a creare particolari opere d’arte come la Notte Stellata durante i periodi di estrema agitazione mentale, che Van Gogh è stato in grado di comunicare in modo così preciso, così empatico quel tumulto, quella frenia attraverso  precise gradazioni di luminescenza, increspate in linee contorte e a spirale. Che sia un rimando all’aurora boreale o un accostamento ai meccanismi della Via Lattea, che sia l’espressione di un Getsemani personale, l’allegoria biblica è presente spesso in Van Gogh. Ma Van Gogh si spinge oltre, nel tentativo di esprimere uno stato di shock di un cipresso che prova ad opporsi, tra gli ulivi fruscianti, contro le colline che si innalzano ripide e brusche, minacciando di trascinare l’anima solitaria in profondità vertiginose.

Vincent Van Gogh nacque a Groot Zundert, in Olanda, il 30 marzo 1853, un anno dopo il giorno in cui sua madre diede alla luce un primo figlio nato morto, anche lui di nome Vincent. Il maggiore di sei figli, nati dal felice matrimonio tra Teodoro Van Gogh, pastore della Chiesa riformata olandese, e Anna Cornelia Carbentus, prima di Anna, Theo, Elizabeth, Wilhelmien e Cornelius. Con Theo e Wilhelmien il rapporto sarà sempre di profondo affetto e attaccamento. Frequenta un collegio a Zevenbergen per due anni e poi la scuola secondaria King Willem II a Tilburg per altri due. Nel 1868, Van Gogh lascia gli studi, all’età di 15 anni.

Nel 1869 iniziò a lavorare per la Goupil & Cie., una ditta di commercianti d’arte alla quale lo zio, anche lui di nome Vincent, cedette la propria attività di mercante d’arte presso la sede de L’Aia per motivi di salute. La famiglia Van Gogh era da tempo legata al mondo dell’arte: gli zii di Vincent appunto, Cornelius e Vincent, erano o erano stati prestigiosi commercianti d’arte. L’attività della casa d’arte Goupil consisteva nella vendita di riproduzioni di opere d’arte, Vincent fu molto preso da questa occupazione, che lo obbligava ad un approfondimento delle tematiche artistiche e lo stimolava a leggere e a frequentare musei e collezioni d’arte. Mantenne i contatti con la famiglia, che dal gennaio del 1871 si era trasferita a Helvoirt, dove il padre Theodorus svolgeva la sua attività pastorale. Anche l’adorato fratello minore, Theo, trascorse la sua vita lavorando come commerciante d’arte e, di conseguenza, ebbe un’enorme influenza sulla successiva carriera di Vincent come artista, che rimase con Goupil per sette anni. Nel 1873 venne trasferito nella filiale londinese dell’azienda, dove si innamorò subito del clima culturale dell’Inghilterra. Ed anche delle sue donne. Durante quel periodo visitò le numerose gallerie d’arte e musei e divenne un grande ammiratore di scrittori britannici come George Eliot e Charles Dickens.

Il rapporto tra Vincent e la ditta Goupil divenne teso con il passare degli anni e nel maggio del 1875 venne trasferito nella filiale parigina dell’azienda. Vincent lasciò definitivamente la Goupil alla fine di marzo del 1876 e decise di tornare in Inghilterra dove i suoi due anni erano stati, per la maggior parte, molto frizzanti socialmente e, in piccola parte, gratificanti.

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In aprile Vincent iniziò ad insegnare. Poi, la decisione di intraprendere gli studi in teologia, ad Amsterdam, che abbandonò dopo quindici mesi, trovando insuperabili le richieste accademiche. Tornato a casa, continuava ad avere quel cruccio di dover mettere in pratica qualcosa che aveva a che fare con la religione, con la diffusione della parola di Dio. Così, su decisione della famiglia, si iscrisse ad un corso a Bruxelles, presso la Chiesa Protestante, per essere istruito come pastore. Di lì a poco, intraprese l’attività di predicatore, cercando la propria strada attraverso un percorso basato sull’evangelizzazione. E’ questa esperienza, in particolare vissuta tra le miniere di carbone nel Borinage, in Belgio, tra le “sclôneuses”, le operaie che trasportano i residui ancora utilizzabili del carbone estratto, i minatori, costretti ad enormi e penose fatiche, e i cavalli da tiro, obbligati a trascinare carrelli di carbone – immerso, tra l’altro, in un contesto di “lingua francese dall’accento particolarmente duro”, come scriverà anche nelle sue lettere – che segna il suo debutto nella pratica artistica. E’ allora che Vincent inizia a sperimentare sulla tela, tra schizzi a matita e tecniche di acquerelli, le raffigurazioni dei minatori e delle loro famiglie, raccontando le loro dure condizioni, la loro vita soffocata dalle tenebre a 700 metri di profondità, un ambiente tetro. Questo periodo è talmente cruciale per van Gogh che inizia a delinearsi concretamente la sua carriera successiva e finale, quella di artista, abbandonando al contempo i panni da predicatore, incarico, peraltro, che dopo soli sei mesi non gli venne rinnovato a causa della sua scarsa abilità nei sermoni, spesso lunghi e carichi di retorica biblica.

Nell’autunno del 1880 Vincent partì per Bruxelles per iniziare i suoi studi d’arte, grazie all’aiuto finanziario del fratello Theo.  Una corrispondenza, quella con Theo, che per circa un anno si era interrotta; sappiamo di questo periodo buio attraverso le lettere che Theo scambiava con i genitori, preoccupati di ciò che Vincent stava facendo o non facendo della sua vita, timorosi del suo stato di debolezza, di depressione.

Sono proprio le lettere, in totale più di 700 esistenti, che formano la maggior parte della nostra conoscenza delle percezioni di Van Gogh sulla sua vita e le sue opere. Una ricca corrispondenza, scritta da Vincent in olandese, in francese o addirittura in inglese a seconda del destinatario. Memorie che fanno di lui, ancora prima di un pittore senza precedenti, uno scrittore profondo, un poeta delle emozioni contrastanti che combattono dentro le viscere dell’uomo, che alternano guizzi di eccitazione a momenti di perdizione, di nevrosi. Nell’altalenante leit motiv del voler affermarsi come artista ma con la convinzione innata di non esserne all’altezza, rotta solo da brevi intervalli di picchi umorali favorevoli caratteristici della malattia.

Nonostante le battute d’arresto emotive con le donne, l’abitudine alle prostitute, le tensioni personali col padre, la povertà, le relazioni personali burrascose, la propria volatile personalità, Vincent inizia a produrre molte opere. Proprio il 1880 può essere definito l’inizio materiale del suo mestiere di pittore, su e giù per i Paesi Bassi, nel “periodo olandese”, affidandosi a lezioni presso artisti affermati e apprendistato e alla pratica e allo studio da autodidatta. Superando, ad esempio, il proprio problema con la prospettiva utilizzando uno strumento in parte sviluppato da se stesso ed in parte visto sui libri, la “cornice prospettica”.

Il 1883 fu un altro anno di transizione, sia nella sua vita personale che nel suo ruolo di artista. Vincent iniziò a sperimentare le pitture ad olio già nel 1882, ma fu solo dall’anno successivo che questa tecnica divenne sempre più frequente. Man mano che le sue capacità di disegno e pittura progredivano però,, si avvicendavano i fallimenti personali, stavolta con la prostituta Sien.

Dai Paesi Bassi, ancora una volta, Vincent torna a casa dei suoi genitori, ora a Nuenen, alla fine del 1883. Per tutto l’anno seguente continuò a perfezionare il suo mestiere: tessitori, filatori e altri ritratti. I contadini locali si dimostrarono i suoi soggetti preferiti – in parte perché Van Gogh provava una forte affinità con i poveri lavoratori e in parte perché era grande ammiratore del pittore Millet, noto per i dipinti sensibili e compassionevoli degli operai nei campi. E’ la volta della scuola di Barbizon, che rompe la regola del disegno in studio e afferma la pittura “en plein air”, a contatto con la natura. Durante tutto il 1885 Vincent lavora senza sosta alla sua tecnica di pittura in continuo divenire, facendo sì che quel tratto grezzo e audace diventasse non un limite, ma un marchio. Il simbolo di un’espressività sgorgante dal gesso, dalla matita e sottolineato dal pelo dei larghi pennelli, colanti di generosa tempera sulle ghiere.  La raffigurazione di The Potato Eaters lo occupa per tutto l’aprile del 1885. Aveva prodotto varie bozze in preparazione della versione finale, grande olio su tela che gli diede l’impressione di aver raggiunto un certo traguardo in termini di tecnica pittorica. Ma le critiche di Van Rappard, pittore mentore di Vincent, e il giudizio poco entusiasta di Theo lo fecero infuriare. Intristire.

Così l’irrequietezza, il bisogno di nuove stimolazioni tornò anche allora, come spesso accadde nella breve vita di Vincent. Ad intervalli regolari, come le stagioni. All’inizio del 1886 si iscrive all’Accademia di Anversa, per poi lasciarla circa quattro settimane dopo, soffocato dall’approccio stretto e rigido degli istruttori, che non rimangono impressionati dal suo approccio decisamente radicale.

Il periodo parigino di Van Gogh inizia nel marzo del 1886. L’importanza del tempo di Vincent a Parigi è chiara. Theo, come commerciante d’arte, aveva molti contatti e Vincent sarebbe diventato d’habitude con gli artisti rivoluzionari di Parigi, studioso delle prime mostre degli impressionisti, opere di Degas, Monet, Renoir, Pissarro, Seurat e Sisley. La sistemazione a Montmartre, l’arte moderna, le lezioni presso pittori affermati. I bar colorati, le strade chiassose, brulicanti di odori, di sapori edonistici. L’ispirazione. La sua tavolozza iniziò ad allontanarsi dai colori più scuri e tradizionali della sua terra d’origine, quella olandese, incorporando le tonalità più vibranti degli impressionisti. Raffigurazioni di ogni tipo, dalle scene del quotidiano di strada del quartiere, alla vista dalla sua finestra, ma anche nature morte prodotte nel suo studio quando non poteva uscire, oltre agli innumerevoli e famosi autoritratti. La tecnica continua ad progredire, a trasformarsi, attraverso soggetti ancora più moderni ed utilizzando un approccio non più solo impressionista, ma anche proprio del puntinismo ed allo stesso tempo ancora più libero dei puntinisti stessi. In questo conteso di innovazione, ad esempio, si inserisce perfettamente il “Giardino con coppie di fidanzati”, dai colori complementari per ottenere contrasti forti.

Per aggiungere ulteriori sfumature al complesso arazzo dello stile di Van Gogh, è a questo punto, nel clima effervescente parigino, che Vincent si interessa all’arte giapponese. Il Giappone aveva aperto di recente i suoi porti dopo secoli di blocco culturale e, a seguito di questo isolazionismo di lunga data, il mondo occidentale era affascinato da tutto ciò che era nipponico.

Ma c’è anche il regolare, doloroso impatto, fisico e mentale.  La personalità instabile di Vincent mette a dura prova anche la sua relazione con Theo. Il tentativo di vivere con il fratello causa una grande tensione tra i due. E la cattiva alimentazione, conseguenza anche di quelle lunghe sedute di pittura all’aperto, l’ eccessivo consumo di alcolici e fumo non sono d’aiuto a quell’equilibrio sempre cercato e mai raggiunto. Il continuo ripetersi di strazi anche amorosi. I tentativi tutt’altro che di successo di farsi conoscere attraverso qualche mostra.

Vincent decide di lasciare Parigi e seguire la luce potente del sole e il suo destino verso il sud. E’ il 1888. Trasferitosi ad Arles, stanco della frenetica energia di Parigi e dei lunghi mesi invernali, si affida al calore della Provenza, ai suoi lussureggianti paesaggi di vigneti e ulivi, di boschi di pini, di inebrianti ed intensi verticelli di lavanda come pennellate che oltrepassano l’orizzonte. L’altra motivazione del trasferimento è il suo sogno, mai realizzato, di stabilire una sorta di comune di artisti ad Arles, dove i suoi compagni di Parigi avrebbero cercato rifugio e dove avrebbero lavorato insieme e si sarebbero sostenuti l’un l’altro verso un obiettivo condiviso: la “Casa Gialla”.

Dopo l’inaspettato inizio insolitamente freddo, rigido per la stagione, si mostrano i primissimi germogli primaverili sugli alberi. Un momento di grande produzione artistica. Nell’illusione del rinnovo, anche mentale. Come nei dipinti dei primi frutteti in fiore.

Gauguin arriva ad Arles in treno all’inizio di ottobre. Mesi  cruciali e disastrosi, fino a dicembre. Le loro accese discussioni divennero sempre più frequenti. Lo stato di salute mentale di Vincent del tutto instabile. L’orecchio e la mutilazione tanto storiografata. Brusco impasse mentale. L’interruzione della sinapsi, ancora una volta. Dopo una prima, illusoria cicatrizzazione psichica, all’inizio del 1889, Vincent prosegue nella sua produzione artistica, nella sua rassicurante Casa Gialla. “I Girasoli” ne sono una magnifica testimonianza.

Poi il ritorno in ospedale. Le discussioni con Theo sono la definitiva spinta alla spontanea volontà  di provare a riordinare se stesso mediante il ricovero all’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, a Saint-Rémy-de-Provence. Per alleggerire, per lo meno, il peso di quel macigno che toglie il respiro al pensiero, che fa da disregolatore dell’umore. Van Gogh lascia Arles l’8 maggio 1889. Con il passare delle settimane, dopo tanti attacchi di violenta depressione ed epilessia che, al tempo, era considerata pazzia, il paziente Vincent sente che quel macigno sta allentando la pressione, che gli è data la flebile forza di poter emettere respiri un po’ più regolari. E nel momento in cui, dopo i primi progressi mentali, gli viene concesso di riprendere ad armeggiare col fidato cavalletto e con i pennelli asciugati dal forzato periodo di astinenza dal colore, nel mese di giugno 1889, consegna all’umanità molteplici lavori, primo fra tutti la “Notte stellata”. Inconscio del valore immenso di ciò che ha prodotto e timoroso, come sempre nella sua vita, di aver creato qualcosa che nessuno potrà considerare di valore.

Alla fine del 1889 l’estrema precarietà del suo stato mentale non è capace di contenere l’ennesimo squarcio. Il 16 maggio 1890 Vincent van Gogh lascia il manicomio e prende un treno notturno per Parigi. “La tristezza durerà per sempre …” Trascorsi tre giorni con Theo, la moglie di Theo, Johanna, e il loro figlio neonato, Vincent Willem, riparte alla volta di Auvers-sur-Oise.

Sebbene i dettagli narrati all’interno dei vari rapporti siano in conflitto, i fatti di base del 27 luglio 1890 rimangono chiari. Quella domenica sera Vincent van Gogh si incamminò, con il suo cavalletto e i materiali per la pittura nei campi. Lì tirò fuori una pistola e si sparò al petto. Vincent riuscì a barcollare fino all’osteria Ravoux dove crollò a letto. Fu chiamato il dottor Mazery, il praticante locale, così come il dottor Gachet. Fu deciso di non tentare di rimuovere il proiettile nel petto di Vincent e Gachet scrisse una lettera urgente a Theo, che arrivò il pomeriggio successivo. Rimasero insieme per le ultime ore della vita di Vincent, ancora abbastanza lucido da fumare la sua pipa.

Sì,  “La tristesse durera toujours..

Il 29 luglio 1890 Vincent è morto. Suicida. La chiesa cattolica di Auvers si rifiuta di consentirne la sepoltura. Il vicino comune di Méry, tuttavia, acconsente alla sepoltura e il 30 luglio si svolge il funerale, sotto un sole ardente. Con i fiori gialli sulla bara, fuori dalla “Camera da letto”, accanto al cavalletto, lo sgabello e le spazzole ormai secche.

Theo Van Gogh muore sei mesi dopo Vincent. Viene sepolto a Utrecht, ma nel 1914 la moglie di Theo, Johanna, sostenitrice devota e instancabile delle opere di Vincent, fa trasferire il corpo di Theo nel cimitero di Auvers, vicino a Vincent. Cresce ancora l’edera, tra le pietre tombali.

Grande rivoluzionario post impressionista dalla marcata tendenza espressionista, quasi futuristica, delicatamente ma decisamente arricchita dallo stile nipponico. La dimensione temporale delle opere di Vincet è eterna, la struttura al disegno è estremamente fedele, a differenza dell’attimo transitorio delle linee non concise degli impressionisti; non fa macchie, ma un tratteggio compiuto col pennello. Anche grazie all’amore per l’arte giapponese, le barre minute, accostate, orientate, flesse, che producono una parallela di blocchi, assecondano e potenziano la forma dell’oggetto-soggetto. Ricorda la scrittura. Ricorda il suo pensiero nelle sue innumerevoli lettere, traduce il suo tumulto interiore e la sua voglia di far vincere la vita nonostante il macigno sulle cervella. Poi il pennello si muove come fosse matita. Colori violenti e puri. La realtà è potenziata e trasfigurata con vortici a tratteggio direzionale. La tecnica sempre più appassionata nella pennellata, nel colore simbolico e intenso, nella tensione superficiale, nel movimento e nella vibrazione di forma e linea. L’inimitabile fusione di forma e contenuto di Van Gogh è potenza. Drammatico, lirico, ritmico, fantasioso ed emotivo, è un uomo intenso, travagliato, tragico, ma allo stesso tempo stimolato e stimolante. Un maledetto che non è maledetto. Che scambia tutto se stesso con i suoi contemporanei.

L’enorme massa di tristezza lo rende reale ed umano nel tentativo di trascinarsi fuori dalla sua stessa oscurità isolante. Nel legame di lunga data tra malattia mentale e genio creativo, l’avaria mentale ha la meglio. Si spengono quegli occhi ingannati dall’avvelenamento da vernici e dai farmaci. La malinconia ha rosicchiato ogni nervo. Non funziona nemmeno più la deviazione del pensiero a mezzo dell’assenzio. Un colpo al petto. La febbre di follia libera le membrane del rachide cervicale, come un processo di evaporazione. L’odore carico di tabacco e gli abiti ammuffiti lasciano spazio solo ai colori, abbagliante giallo dei campi di grano, verde brillante dei prati, scuro squamiforme del cipresso, pigmenti quasi elettrici dei girasoli recisi.

La voglia di vita, la stabilità, l’equilibrio hanno la durata di quel mandorlo in fiore. Ma seppure così breve e labile, il profumo è talmente inebriante, forte, aiutato dal vento, che sa essere perpetuo. Come il movimento concentrico dell’indice intorno a quelle stelle vorticose, a tentare di trovare un arrivo. Quando la destinazione è, invece, l’eterno movimento, che a volte inganna, stordisce, smarrisce. Ma altre volte, lungo l’incerto cammino, sa essere guida placida e compassionevole verso l’infinito illuminato dagli astri.

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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