SIGMUND FREUD: Sigmund, Sophie e Heinele – stessa voce del verbo “mancare”.

di SARA DEL BARBA

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La quinta figlia di Sigmund Freud e Martha Freud-Bernays, Sophie Halberstadt-Freud, nacque il 12 aprile 1893, a Vienna, e morì il 25 gennaio 1920, ad Amburgo, nemmeno ventisettenne. I genitori decisero di chiamarla Sophie in onore di Sophie Schwalb, la nipote di Samuel Hammerschlag, insegnante ebreo di Freud. Sophie era molto ammirata dal padre, e divenne subito la preferita della madre Martha. Quella bimba, quasi senza sapere il perché, seppe immediatamente addolcire il carattere alquanto tirannico e patriarcale del padre della psicoanalisi. Sophie era bella, risoluta nelle movenze e più che decisa ad andare oltre quell’ambiente che la circondava per manifestare la propria ferma volontà. In famiglia la chiamavano “la bambina della domenica”. Nel 1912, a 19 anni, l’imprevedibile Sophie annunciò l’improvviso fidanzamento. Il 20 luglio dello stesso anno, Sigmund, affidò i suoi pensieri sul futuro sposo della figlia ad una lettera indirizzata alla sorella Mitzi, nella quale descriveva Max Halberstadt come una persona molto seria, affidabile, dal comportamento appropriato e borghese, nell’accezione positiva del termine. Max era più vecchio di trent’anni dell’acerba Sophie, parente alla lontana della famiglia Freud, del ramo proveniente da Amburgo. “..entrambi sembrano essere innamorati l’uno dell’altra”, scrisse Freud senior, con buona approvazione, nonostante quel fotografo trentenne non fosse né ricco né particolarmente distinto da eventuali alte possibilità di carriera. Per questo Freud fu cosciente del fatto che la figlia avrebbe potuto trovarsi in condizioni di necessità, ma nonostante ciò, non si oppose a quel legame e fece promettere a Sophie di mantenerlo informato regolarmente sui suoi problemi e le sue preoccupazioni. Il matrimonio fu celebrato il 14 gennaio 1913, ad Amburgo.

E’ noto, come, in quel periodo, Freud stesse analizzando la figlia Anna, futura madre della psicoanalisi infantile. Anna, era l’ultima e indesiderata figlia di Sigmund; a detta sua non sarebbe mai nata se i genitori avessero avuto a disposizione metodi contraccettivi efficaci e, per di più, il padre fu deluso dalla fine di quella gravidanza dalla quale si aspettava la nascita di un maschio. Anna, a differenza di Sophie, non era né bella né alta, aveva una postura adunca e poco elegante, “consapevole di non essere sufficientemente femminile o attraente come donna“, sentiva il grande peso, su quelle spalle ricurve, del senso di trascuratezza dei genitori: l’allattamento artificiale dovuto al rifiuto della madre di nutrirla dal proprio seno, l’abitudine a lasciarla a casa durante le ferie e le scampagnate della famiglia Freud, i gesti mai palesati di preferenza verso le altre sorelle da parte dei genitori. Il matrimonio di Sophie e Max fu per Anna la tribolazione dovuta a sentimenti contrastanti dentro se stessa; se da una parte sentiva la voglia di partecipazione alle emozioni gioiose di quell’evento, dall’altra avvertiva un senso fortissimo di blocco interiore, di estraneazione e fastidio. Freud padre aveva ricondotto i disturbi di Anna ai sentimenti di gelosia che la stessa provava verso la sorella Sophie, relativamente al suo ruolo di figlia prediletta ed accentuati dal matrimonio festoso e tanto celebrato dai membri della famiglia.

L’11 marzo 1914 nacque il primo figlio di Sophie e Max, Ernst Wolfgang; Sigmund si sentì profondamente felice e legato da subito a quel piccolo essere umano.  Il 22 settembre 1914, Freud scrisse di Ernst in una delle tante lettere a  Karl Abraham, psicoanalista delle teorie legate alla sessualità, allo sviluppo, al simbolismo e ai disturbi maniaco-depressivi, che dal 1907 aveva stretto un legame di stretta amicizia con Sigmund, interrotto solo dalla morte di Karl nel 1925. Il nipote fu descritto come “un ometto piccolo e grazioso, che riesce a ridere simpaticamente ogni volta che gli si presta attenzione”; un essere “dignitoso, civile, doppiamente prezioso in questi tempi di bestialità scatenata” . Secondo Freud, l’educazione rigorosa da parte di una madre tanto intelligente quale era Sophie, illuminata anche dalle teorie di Hug-Hellmuth, noto psicoanalista austriaco, era il motivo di una crescita tanto sana quanto corretta per quel bambino.

In seguito, il cresciuto “piccolo Ernst”, quando i tratti della sua vivacità cominciarono ad intrecciarsi con i caratteri propri dei disturbi infantili, sarebbe stato psicoanalizzato ed aiutato proprio da quella zia che verso sua madre aveva avuto sempre sentimenti altalenanti e divergenti, Anna Freud, che ne fece, poi, suo legittimo erede, aiutandolo a mutare il proprio cognome in Freud e facendogli anche scoprire la propria inclinazione alla pratica della psicoanalisi, contribuendo alla nascita del professionista che divenne: col nome di Ernst W. Freud, seppure in età un po’ più matura rispetto alla prassi, esercitò da praticante in Germania ed in Gran Bretagna.

L’8 dicembre 1918 nacque, poi, il secondo figlio di Sophie, Heinz Rudolf, chiamato in famiglia “Heinele,”. Venne adottato dalla zia Mathilde dopo la prematura morte di Sophie; Freud lo descrisse come “fisicamente molto fragile, un vero e proprio figlio della guerra, ma soprattutto intelligente e simpatico”. Heinele, a soli 4 anni e mezzo, il 19 giugno 1923 morì di tubercolosi miliare, grave forma di infezione polmonare particolarmente insidiosa.

Già con l’arrivo del secondo figlio, nei rapporti epistolari tra Sigmund e Sophie è rinvenibile la preoccupazione nella figlia adorata, ben più che circoscritta al pensiero astratto, relativa alle difficoltà  economiche; timore che Freud padre aveva sviluppato e previsto già ai tempi di quell’improvviso fidanzamento con Max. Sigmund non ebbe mai esitazione nell’offrire il suo appoggio, morale nel pensiero e concreto nella spedizione costante di denaro alla figlia. Nemmeno quando, appena un anno dopo dalla nascita di Heinele, Sophie rimase incinta di un terzo figlio, pur avendo Sigmund sempre offerto moderni e ragionati consigli alla ragazza sui metodi anticoncezionali dell’epoca, egli fu ancora più comprensivo, amorevole e così vicino nonostante la lontananza materiale “Se pensi che la notizia mi renda arrabbiato o costernato ti sbagli.  Accetta questo bimbo senza disillusioni. Tra qualche giorno ti arriverà il compenso delle mie nuove pubblicazioni”.

Il 25 gennaio 1920 Sophie Halberstadt-Freud morì, lasciando un figlio di 6 anni e uno di poco più di un anno e, con loro, l’amato e caro marito Max. Il sicario, tanto rapido quanto doloroso ed estenuante, fu la terribile polmonite Spagnola, la malattia influenzale che, fece ancora più morti della Grande Guerra. Freud scrisse al pastore Pfister in quel gennaio: “Questo pomeriggio abbiamo ricevuto la notizia che la nostra dolce Sophie di Amburgo è stata strappata via dalla polmonite influenzale, rapita malgrado una salute raggiante e una vita piena e attiva di brava madre e moglie amorevole, il tutto in quattro o cinque giorni, come se non fosse mai esistita. Siamo stati preoccupati per un paio di giorni, comunque eravamo speranzosi, ma è così difficile giudicare a distanza. E questa distanza doveva rimanere distanza, non siamo stati in grado di partire immediatamente, come avevamo previsto, dopo le prime notizie allarmanti, non c’era nessun treno, neanche per una situazione di emergenza. La brutalità evidente del nostro tempo grava su di noi. Domani sarà cremata, la nostra povera bambina della domenica  . . . Sophie lascia due figli, uno dei sei, l’altro di tredici mesi, e un marito inconsolabile, che dovrà pagare a caro prezzo la felicità di questi sette anni. La felicità esisteva solo dentro di loro; fuori c’era la guerra, l’arruolamento, le ferite, l’esaurimento delle loro risorse, ma erano rimasti coraggiosi e felici. Io lavoro quanto posso, e sono grato per l’opportunità di questo diversivo. La perdita di un figlio sembra essere una grave ferita narcisistica; ciò che chiamiamo lutto probabilmente seguirà solo più tardi”.

Nel 1920 l’Europa, già teatro tragico e drammatico della prima guerra mondiale, si trovò anche vittima della cosiddetta influenza spagnola. La grande crescita della popolazione mondiale e lo sviluppo dei mezzi di trasporto moderni, in primis, agirono da catalizzatori per la diffusione dei virus, favoriti, pertanto, dalla possibilità di uno spostamento sempre più rapido da una parte all’altra del pianeta. Non sfuggì a questa legge non scritta nemmeno l’influenza spagnola, che arrivò dall’estremo Est sul suolo europeo o americano. Fu una pandemia di portata enorme e devastante negli effetti, più tragica anche della peste del Trecento, ancora più grave perché sviluppatasi contestualmente alla Grande Guerra ed anzi, probabilmente rafforzata nella diffusione anche dai fatti di guerra: le condizioni umane e igieniche in cui dovettero combattere i soldati sui vari fronti, all’interno delle trincee, furono certamente un fattore di contributo non trascurabile alla curva di andamento del contagio. Spagnola fu detta, perché le prime notizie furono riportate dai giornali della Spagna che, non essendo coinvolta nel primo conflitto mondiale, non era soggetta alla censura di guerra. La stampa degli altri Paesi, che era invece sottoposta alla severa censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia, sostenendo che il problema fosse confinato solamente alla Penisola Iberica. Il virus contagiò mezzo miliardo di persone uccidendone almeno 25 milioni, anche se alcune stime parlano di oltre 50 milioni di morti. Fu identificata per la prima volta in Kansas nel 1918; alcuni studi ne rilevano la causa in un ceppo virale H1N1. Quell’impressionante suo tasso di mortalità fu insolitamente alto anche tra le persone sane, in particolar modo tra i giovani tra i 15 e i 34 anni.

Come Sophie. Già debole per lo stato della terza gravidanza. Che portò via con lei anche il piccolo che aveva in grembo.

Sigmund non era riuscito a trovare nessun dannato mezzo di trasporto per raggiungere il suo capezzale, nemmeno negli ultimi strazianti giorni. Per poterla abbracciare. Salutare. Riuscì solamente a presenziare alla sepoltura. Col peso gravoso di quella perdita di cui non incontrava il senso né la spiegazione. La lontananza materiale, la mancanza di Sophie a causa della distanza fisica tra Vienna ed Amburgo, dovettero sembrare, d’improvviso, uno schiocco di dita.

Quando anche il piccolo Ernst Wolfgang morì, tanto simile nell’intelligenza e nella fragilità a mamma Sophie, Sigmund, che nel frattempo aveva appena avuto le prime avvisaglie del carcinoma alla bocca, confessò ad un amico per la prima volta di soffrire di depressione; Ernst-Heinele aveva occupato il posto di tutti i suoi figli e di tutti i suoi nipoti. Dopo la sua scomparsa non gli era stato più possibile amare gli altri e gioire della vita.

E’ una “ferita narcisistica irreparabile”. Accusata in due rounds. E se nel lutto, nella sua elaborazione, quel “” ridiventa libero, nella tristezza, nella “malinconia” s’insinua il disinteresse.

Quel dolore acuto, sempre vivo, come la scheggia in quel dito che hai dentro da anni, che se procedi a tagliare in quel punto farebbe ancora più male, l’infezione sarebbe letale. Insopportabile. Freud, dopo quelle perdite incalcolabili, riformulò le proprie teorie sul lutto. Arrivò alla conclusione che, nel momento dello squarcio, si possono provare sentimenti di grande tristezza, disperazione, paura, male fisico e mentale. Ma, al tempo stesso, questo stato di dolore indescrivibile diviene compatibile con l’esistenza, la quale prende un po’ i connotati della sopravvivenza. Diviene un modo di restare aggrappati all’amore di quella persona. Consapevoli che quel senso di vuoto non potrà mai né essere colmato né scomparire. Il percorso del dolore fa il suo corso, può certo attenuarsi col tempo, ma rimane perpetuamente inconsolabile. Perché è così che deve essere. E’ il modo più umano di far durare quell’amore che non possiamo abbandonare.

Mancare. Questo accade. Più o meno improvvisamente o inaspettatamente, tutto assume lo stato di insufficienza. E’ qualcosa, è qualcuno che dovrebbe esserci, eppure non c’è più. La condizione di mancanza diventa ordinaria, si trova ad essere parte integrante di chi resta.

Non ci sono rifugi, la sofferenza per la mancanza di una persona non si può dimenticare. La mancanza di un figlio, ancor di più poi, è qualcosa di inconcepibile. Poco importa ciò che verrà dopo, anche se quel posto sarà occupato da qualcos’altro “perché sarà comunque qualcosa di diverso”. Anche quando diviene indifferenza, questa è solo un altro vestito di cui si traveste il dolore. Perché a quel mancare non c’è rimedio.

 

Marzo 2020

“… il tutto in quattro o cinque giorni, come se non fosse mai esistita.  Siamo stati preoccupati per un paio di giorni, comunque eravamo speranzosi, ma è così difficile giudicare a distanza. E questa distanza doveva rimanere distanza, non siamo stati in grado di partire immediatamente, come avevamo previsto, dopo le prime notizie allarmanti, non c’era nessun treno, neanche per una situazione di emergenza. La brutalità evidente del nostro tempo grava su di noi.”

Fuori non c’è la guerra propria di arruolamenti, trincee, ferite da colpi di arme da fuoco e cannoni. Fuori c’è una battaglia della quale si può davvero avere conoscenza e coscienza solo se ci si trova ad essere sdraiati su una base tra due binari laterali, collegata all’uscita di tubi di ogni genere, tra spie di pulsanti credute utili solo in rarissime e sfortunatissime evenienze. O di cui si può sapere tutto solo se ci si trova ad essere vestiti da strani alieni supereroi e se ci si sente alieni supereroi, perché la vittoria, così come la sconfitta, avviene e passa dalle viscere, dalla nausea, dalle ore interminabili di servizio alla patria del nuovo millennio di coloro che stanno dentro a quelle tute e dietro a quelle maschere da segni lasciati sul viso che non sono niente se paragonati ai solchi come chiavi sulla carrozzeria dell’anima, del cuore e della mente. Fuori c’è una lotta che lascia il sapore salato che scorre dagli occhi, che provoca rabbia e disperazione inconsolabile in chi resta perché l’ultimo ricordo sarà la sofferenza di qualcuno che si è amato e l’ultimo rimpianto rimarrà l’incancellabile, pesante, pericolosa ossessione di non aver potuto sentire quell’ultimo respiro tribolato né di avergli fatto avvertire con un’ultima carezza che non era solo.

La morte è insuperabile. Resta la speranza che a quel mancare possano prevalere le azioni nel tempo che c’era quando sembrava di non averne.

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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