Évariste Galois: un tragico genio romantico.

di MASSIMO BENCIVENGA

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«Non piangere!

Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent’anni.»

 

Parole che produssero una forte tristezza in me, quando le lessi a 15 anni, in seconda liceo. Il libro di geometria aveva, in appendice a ogni capitolo, due paginette nelle quali si parlava delle vite dei matematici.

Queste parole, pronunciate dal moribondo al fratello, mi rimasero impresse per almeno due motivi: in primis la giovane età del protagonista, il più giovane tra i matematici di quegli aneddoti bellissimi; e poi, la tragica morte per un duello stupido.

Duello che sapeva di perdere e al quale scelse di non sottrarsi. E men che meno prepararsi, aveva tanto da fare e poco tempo.
La sera prima della singolar tenzone, il giovane francese la passò a flirtare con la sua musa, la matematica, chiedendole disperatamente di dargli più tempo o di velocizzare ancora di più le sue già folgoranti intuizioni. Conscio dell’ineluttabilità di ciò che sarebbe successo, il matematico scelse di passare le ultime ore a organizzare il suo lascito. E ogni tanto spunta qualche nuova pepita da quel testamento.

Ma di chi sto parlando? Di Évariste Galois nato a Bourg-la-Reine il 25 ottobre 1811 da Nicholas Gabriel Galois e Adelaide Marie Demante; sindaco il papà, insegnante di greco, latino e religione la mamma. I genitori erano ben preparati in materie classiche e umanistiche, mentre non c’era alcun parente versato in matematica.

E fino a 15 anni nessuno dei suoi insegnanti avrebbe scommesso qualcosa su Évariste come matematico. A dirla giusta, nessuno avrebbe scommesso qualcosa su di lui in generale.

“Sempre intento a fare quel che non si può fare.”

“Peggiora di giorno in giorno.”

“Pessima condotta, carattere introverso.”

“Un po’ bizzarro nei modi.”

“Gli attribuisco scarsa intelligenza, o almeno così ben nascosta che non sono riuscito a scorgerla.”

Sono alcuni dei giudizi dei suoi insegnanti. Qualcuno invero, qualcosa era riuscito a intravedere.       

“Usa mezzi molto singolari.”

“È posseduto dal demone della matematica.”

“Mira all’originalità.”

“Protesta contro il silenzio.”    

Un adolescente prodigio, più che un enfant prodige.

Fu infatti intorno ai 15 anni, dopo aver divorato in un amen un libro di Geometria di Legendre, mica bau bau micio micio ma uno che aveva avuto ragione anche in qualche disputa con Gauss, che il demone della matematica prese residenza stabile nella mente di Galois.

Da quel momento il giovane cominciò a trascurare tutte le altre materie, anche fisica. Lacune che gli costarono un anno al liceo e la non ammissione, per ben due volte di fila, alla scuola Politecnica, all’epoca la più prestigiosa.

Dovette ripiegare sulla Scuola Normale, dove si laureò in matematica sul finire del 1829.

Il suo esaminatore di letteratura disse:“ Questo è l’unico studente che mi ha risposto miseramente, non sa assolutamente niente. Mi è stato detto che questo studente ha una capacità straordinaria in matematica. Ciò mi stupisce enormemente, poiché, dopo il suo esame, io credo che egli abbia una scarsissima intelligenza.”

Invece quello di matematica scrisse: “ L’allievo è qualche volta in difficoltà nell’esprimere le sue idee, ma è intelligente e dimostra un notevole spirito di ricerca.”

Con queste premesse, non possiamo non rimanere a bocca aperte dinanzi alle vette matematiche raggiunta da Galois in poco più di cinque anni
Ma niente fu semplice: e mentre quasi nulla gli venne riconosciuto, ben poco gli venne risparmiato.

“ Mi riesce penoso dirti addio, mio caro figliolo. Sei il mio primogenito, e sono fiero di te. Un giorno sarai un grand’uomo, un uomo celebre. So che quel giorno verrà, ma so pure che ti attendono la sofferenza, la lotta e la delusione.

Diventerai un matematico. Ma anche la matematica, la più nobile e astratta di tutte le scienze, per quanto eterea sia, affonda ugualmente le sue radici nella profondità della terra sulla quale viviamo. Neppure la matematica ti permetterà di sfuggire alle sofferenze tue e altrui.
Lotta, mio caro, lotta con maggior coraggio di me. Che tu, prima di morire, possa sentire il rintocco della Libertà..”

Sono le ultime parole della lettera che Galois padre scrisse e dedicò al figlio prima di suicidarsi, il 2 luglio del 1829.

Rileggetele perché saranno profetiche e paradigmatiche per il giovane Évariste Galois.

Galois provò per la seconda volta ad entrare alla Scuola Politecnica poche settimane dopo questo profondo lutto, dacché era molto legato al padre.
E fu respinto.
Una grande delusione.
Non l’ultima.

Galois cominciò a tenere lezioni private per mantenersi. La sua platea però scemava in maniera esponenziale con l’andar delle settimane. Un po’ per via delle sue teorie molto ardite, e un po’ per le difficoltà espositive di Galois, frutto non già di una scarsa preparazione, ma dell’incapacità di ordinare in maniera razionale e coerente, le sue folgoranti intuizioni.

Fosse uno scrittore, diremmo che Galois era costantemente nel flusso e ben pochi potevano stargli dietro.
Il quasi cinquantenne matematico Dennis Poisson venne a sapere di queste lezioni e incoraggiò il giovane.

Ci tornerò su Poisson.

Periodicamente l’Institut de France istituiva dei premi matematici. A 18 anni, Évariste Galois presentò un lavoro intitolato Ricerca sulle equazioni algebriche di primo grado per concorrere a un premio dell’Institute. Il lavoro capitò nelle mani di Augustine Cauchy.

Apro un inciso.

Come avrete capito siamo in piena Restaurazione, ma l’eredità di Napoleone era ancora ben presente.

Ed era una eredità tecnica.

Il Generale di Ajaccio premette molto affinché la Francia, diversamente dalla Prussia, formasse e sfornasse non già matematici puri, ma ingegneri-fisici, matematici applicati diremmo oggi.

Scommessa vinta, visto il grande contributo fornito da Fourier, da Sadi Carnot, dal già citato Poisson, dallo stesso Cauchy e da altri.

Piccolo problema: Galois era matematico purissimo.
Piccola soluzione: se c’era uno in Francia in grado di capire lavori teorici di tal fatta, allora quell’uomo era Cauchy.

Altro problema: Cauchy si perdeva tutto.

E infatti  Augustine, pur trovando del buono, anzi dell’ottimo, nell’acerbo e confuso lavoro di Évariste, ineffabilmente, inesorabilmente e ineluttabilmente se lo perse.
Galois non si perse d’animo e, sempre per lo stesso concorso, presentò un altro lavoro, dal titolo: Memoria sulle condizioni di risolvibilità delle equazioni per radicali.

Stavolta la memoria arrivò nelle mani di Jean-Baptiste Fourier, fisico matematico di gran vaglia che, compiendo lavori sulla propagazione del calore, arrivò a stabilire dei metodi matematici usati oggigiorno nelle moderne telecomunicazioni. Fourier rimase colpito, annunciò di voler perorare la causa di Galois, ma…

… Jean-Baptiste Fourier morì prima dell’assegnazione del premio.

Galois non concorse neanche per il premio del 1830.

Tutto questo succedeva prima dell’incontro tra Galois e Poisson.

Da questo inciso sull’aria matematica in Francia potete ben inferire perché la Scuola Politecnica fosse così prestigiosa e ambita.

Poisson incoraggiò Évariste a presentare le sue teorie all’Institute.

“ L’ho già fatto due volte!”, rispose.

Poisson si fece garante: le avrebbe lette e propugnate lui stesso.

Pensiero lodevole, direte.

“Abbiamo fatto ogni sforzo possibile per comprendere la dimostrazione del signor Galois. Le argomentazioni non sono né sufficientemente chiare né sufficientemente elaborate per consentirci di giudicarne il rigore, e non siamo neppure in grado di darne conto nel rapporto… ”.

Parole e musica di Dennis Poisson.

Évariste Galois venne a sapere di questa stroncatura solo in seguito.

Motivo?

Semplicissimo: al momento della stroncatura Évariste Galois era in carcere.

Sinora Évariste Galois sembrava incarnare al meglio lo stereotipo del matematico alienato, con la testa tra le nuvole, privo di passioni, tutto calcolo e raziocinio, ma non è così.

Galois aveva litigato e sfidato a botte gran parte dei suoi insegnanti; aveva, non senza un biasimo da parte mia, provato a boicottare e far casino al funerale di Fourier (colpevole solo d’esser morto); e, uscito dal carcere, era stato avvistato girare con un coltello nei dintorni della casa del non più mentore Poisson.

Dunque, torniamo un attimino indietro. Galois era in carcere quando Poisson vergò la stroncatura.
Ed era in carcere per la seconda volta.

Siamo nel 1831.

Perché era stato arrestato?

Ricordiamo le parole del padre, avevo o no detto che sarebbero state profetiche?

“ Lotta, mio caro, lotta con maggior coraggio di me. Che tu, prima di morire, possa sentire il rintocco della Libertà.”

I Galois, padre e figlio, erano ferventi repubblicani, che mal avevano sopportato il ritorno al potere della casa reale. Anelavano la Liberté, i Galois.

Il luglio 1830 ci fu una rivoluzione e Carlo X scappò dalla Francia. Ci furono rivolte e sommosse nelle strade di Parigi e Galois si unì all’Artiglieria della Guardia Nazionale, il braccio repubblicano delle milizie. La rivolta fu sedata e una ventina di ufficiali dell’Artiglieria della Guardia Nazionale furono arrestati e accusati di cospirazione al fine di rovesciare il governo. Fortunamente furono assolti e il 9 maggio 1831, centinaia di repubblicani si riunirono per festeggiare l’assoluzione.

Forse brillo o forse no, Évariste sollevò il suo bicchiere e, con un pugnale nell’altra mano mano, minacciò di morte il re Luigi-Filippo. Galois fu arrestato. Évariste non negò nulla, ma che ci crediate o meno fu assolto perché il giudice decise di accogliere le istanze degli amici, i quali sostennero che Évariste era solito brindare, per una questione di equilibrio, sempre con calice e pugnale.

Appena uscito dal carcere, Galois brindò alla regina allo stesso modo, ma fu ignorato. Almeno quella volta.

Il 14 luglio Galois fu di nuovo arrestato. Stavolta indossava l’uniforme dell’Artiglieria della Guardia Nazionale che, nel frattempo, essendo stata abolita, era diventata illegale e rappresentava un affronto al re e all’ordine costituito.

Ci sono resoconti di come, dai fatti del 1830 in poi, Galois fosse attenzionato dai poliziotti parigini.

Alla fine di un rapporto della polizia, dopo la constatazione d’aver preso parte a tutti i tumulti, disordini e sommosse contro i reali, si legge:

“Carattere: nei discorsi, a volte calmo e ironico, a volte violento e appassionato. Sarebbe un genio della matematica, benché non sia riconosciuto come tale dai matematici. Nessuna relazione femminile. È uno die repubblicani più accaniti. Molto coraggioso, estremista, fanatico. Forse tra i più pericolosi a causa della sua audacia. Facile da abbordare da parte die nostri uomini perché generalmente si mostra fiducioso nei confronti del prossimo e non sa niente della vita.”

Audacia.
Coraggio.

Le stesse che metteva inseguendo una bellezza che solo sembrava scorgere. Per Galois la matematica, in particolare la geometria, non doveva essere solo vera, ma anche bella. Di più, era bella perché era vera.

Incompreso.
Per tutta la vita, Galois fu un incompreso, per sfortuna o perché troppo avanti.

Ingenuo, si legge.
E sarà l’ingenuità e un certo candore a condurlo alla morte.

Tutto sommato, il rapposto non era male non trovate?

Anche se una imprecisione faceva capolino.

Sia come sia, nel marzo del 1832, una epidemia di colera colpì Parigi e i prigionieri, incluso Galois, furono trasferiti alla pensione Sieur Faultrier. Durante i pochi giorni che trascorse in questa località, Évariste conobbe e si innamorò, non sappiamo quanto ricambiato e incoraggiato, di Stephanie-Felice du Motel, la figlia di un fisico locale. Abbiamo prove indirette in tal senso, vale a dire annotazioni ai margini dei fogli manoscritti da Évariste.

Incompreso, trattato come un paria dalla comunità matematica, uscito di prigione Galois divenne ancora più collerico e pronto a guidare nuove sommosse.

I germi dell’autodistruzione era ben visibili a chi aveva il potere di scrutare nell’impalpabile mondo dei numeri.

Sophie Germain scrisse una lettera all‘amico matematico Libri, nella quale si diceva preoccupato per Galois:

“ …la morte del Sig. Fourier, è stata troppo per questo studente, Galois, che, nonostante la sua impertinenza, dimostra segni di una disposizione notevole. Tutto questo ha influito così tanto che è stato espulso dalla Ecole Normale. Non ha denaro. Dicono che diventerà completamente pazzo. Ho paura che sia vero.”

Sophie Germain ha anche lei una bella storia: per poter studiare matematica si dovette immatricolare come maschio; e come monsier Le Blanc intrattene una fitta corrispondenza con Gauss, lui sì enfant prodige, sicuramente il più grande matematico del tempo, e con buone probabilità il miglior all time e pound for pound, per usare uno slang più sportivo.

Ma sembra che Stephanie-Felice du Motel fosse promessa sposa con tal Perscheux d’Herbinville, che sfidò a duello Évariste Galois.

Évariste Galois  era così sicuro di morire che, come un eroe delle tragedie greche, passò tutta la notte cercando di sistemare i suoi lavori matematici e scrivendo un lascito non solo ai posteri matematici, ma anche al fratello Alfred e ad auguste Chevalier, un suo caro amico. Nella lettera si può leggere: “Più tempo! Mi serve più tempo! O destino crudele! Cinquant’anni basterebbero!”.

Inutile dire, che Galois si sbagliava.

Il mattino del 31 Maggio 1832, dopo aver assestato un colpo col suo cancellino, fu colpito all’addome da una pallottola e si accasciò. Fu soccorso diverse ore dopo da un contadino e morì, tra le braccia del fratello e dell’amico all’ospdale dove era stato condotto in condizioni disperate.

I funerali si svolsero il 2 giugno e non furono affatto normali. I repubblicani sfruttarono l’occasione per radunarsi e per dar luogo a tumulti che durarono per alcuni giorni.

Évariste Galois, che protestava contro il silenzio, come disse un suo professore, di certo avrebbe approvato, magari brindando un calice in una mano e il pugnale nell’altra.

Évariste Galois tra i diciassette e i vent’anni non si limitò a effettuare scoperte degne di menzione in ogni branca matematica, ma innestò addirittura nuove e arditi rami sul tronco della stessa. Fu pioniere della teoria dei gruppi, oggi alla base non solo della scienza dei numeri e delle forme, ma anche delle scienze naturali e applicate. Pose la pietra angolare sulla quale è stata edificata l‘algebra astratta, l’elegante costruzione assiomatica che si occupa di strutture, come gruppi o campi appunto, senza preoccuparsi della natura degli oggetti matematici che le compongono. Un panorama matematico che non smette di stupire, a ben cercare.

Galois se ne rese conto, perché scrisse anche: “ Dopo questo, ci sarà, spero, qualcuno che troverà il suo profitto a decifrare tutto questo guazzabuglio.”

E si raccomandò di far arrivare quegli scritti a Gauss e Jacobi, in tal modo morì da incompreso in patria e sperando che altri, altrove, gli tributassero il giusto.

“Un giorno sarai un grand’uomo, un uomo celebre. So che quel giorno verrà, ma so pure che ti attendono la sofferenza, la lotta e la delusione.

Diventerai un matematico. Ma anche la matematica, la più nobile e astratta di tutte le scienze, per quanto eterea sia, affonda ugualmente le sue radici nella profondità della terra sulla quale viviamo. Neppure la matematica ti permetterà di sfuggire alle sofferenze tue e altrui.”

Aveva scritto il padre. E cominciò a diventare famoso una decina d’anni dopo la sua morte. Ironicamente non per mano di Gauss e Jacobi, che nulla scrissero di rimando ai fogli inviati a loro, ma di un francese, Liouville che, nel settembre 1843, annunciò all’Accademia che aveva trovato nelle pagine di Galois della matematica davvero sublime.

Liouville fu solo il primo di una lunga serie di matematici che si sono abbeverati e hanno preso spunto dalle idee e dai teoremi di Galois.

Audace nella vita e nella matematica, epico e tragico a un tempo, Évariste Galois è stato parzialmente rivalutato, con libri, opere teatrali e film proprio in questo inizio di Millennio, ma nonostante tutto riesce difficile, troppo difficile, condensare una vita vissuta così intensamente in poche pagine o immagini.

Non era divorato solo dal demone della matematica, Évariste.

No, il suo animo complesso e il suo temperamento, anche la sua stessa ingenuità, si nutrivano del fuoco che viene bruciato, a mo’ d’incenso, sull’altare dell’impazienza.

Sentiva un’urgenza forte dentro di sè, forse perché arrivò a intuire che il tempo, che in matematica e geometria non esiste, sarebbe stato un avversario formidabile. L’incognita impazzita che non si sarebbe lasciata imbrigliare e dominare.

Last but not least, Évariste si sbagliò: Cinquant’anni sarebbero bastati solo a dare una leggera grattatina all’universo matematico che aveva schiuso per gli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FUGA PER LA VITTORIA: La vera storia di un film-culto.

di REMO GANDOLFI

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Siamo nella primavera del 1980. L’Ipswich Town di Bobby Robson è ormai da qualche stagione nell’elite del calcio inglese. Due anni prima c’è stata la vittoria in FA CUP e in questa stagione, anche se il titolo è ormai un testa a testa fra Liverpool e Manchester United, l’Ipswich è a lottare spalla a spalla con Arsenal, Nottingham Forest e Aston Villa per il terzo posto che vorrebbe dire un posto nella prossima Coppa UEFA.

Kevin Beattie e compagni hanno appena terminato la loro quotidiana seduta di allenamento.

Bobby Robson comunica ai propri giocatori che ci sarà un meeting nella sala riunioni del Club. La notizia non è certo una novità. Bobby Robson adora i meeting.

Adora sentire la sua voce mentre racconta ai suoi ragazzi di tattiche, di obiettivi, di avversari ma anche di cose “essenziali” come la nuova divisa sociale, o l’albergo in cui alloggiare nella prossima trasferta a Wolverhampton o s Sunderland.

Quando i calciatori del piccolo club dell’East Anglia si siedono nel salone deputato a questo genere di incontri non ci provano neppure a mascherare il loro scarso entusiasmo.

Entusiasmo che cala ulteriormente quando Bobby Robson si fa da parte e lascia la parola ad un piccolo uomo di mezza età, vestito in modo elegante e compito.

“Mi chiamo Freddie Fields e sono qua per scritturare alcuni di voi per girare un film”.

Queste la prime parole dell’americano.

“Scoppiammo tutti a ridere !” ricorda Kevin Beattie, difensore centrale e capitano di quel talentuoso team.

“Un altro dei giochini motivazionali del Boss” abbiamo pensato tutti quanti.

Una volta terminate le risate Mister Fields riprende la parola.

“Io lavoro per la Paramount e quest’estate gireremo un film dove il calcio sarà protagonista. Per questo abbiamo pensato a qualcuno di voi”.

Silenzio assoluto.

Non c’è nessuno che non sappia cosa sia la Paramount.

… forse la cosa è più seria di quanto appare.

“Le riprese del film inizieranno ai primi di giugno, quando il campionato sarà terminato e voi sarete liberi da impegni. Lo gireremo in Ungheria e ci vorranno al massimo cinque settimane”.

… ma prima ancora che la cosa venga assimilata Mister Freddie Fields, quasi con nonchalance, lascia cadere “la bomba” .

“Ah, dimenticavo. Protagonisti saranno Sylvester Stallone, Michael Caine, Bobby Moore e Pelè”.

Stavolta il silenzio dura meno di un secondo.

Si leva un coro e la frase pronunciata da tutti i diciotto calciatori della rosa presenti è la stessa “PRENDA ME SIGNOR FIELDS !”.

Il casting dura due minuti scarsi.

Mister Fields guarda in faccia i calciatori e sceglie cinque nomi: John Wark, Russell Osman, Kevin O’Callaghan, Robin Turner e Laurie Sivell.

Poi estende l’invito al portiere Paul Cooper che dovrà fare da controfigura a Stallone (che non ha mai visto un pallone da calcio in vita sua) e capitan Beattie che dovrà fare da controfigura a Michael Caine.

L’invidia verso i sette prescelti si trascinerà per parecchio tempo a venire …

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Al loro arrivo al Gellet Hotel a Budapest le sorprese sono tutt’altro che finite.

Nell’albergo dove sarà sistemata tutta la troupe ci sono già il campione del mondo argentino Osvaldo Ardiles, il mito belga Paul Van Himst, l’ex-nazionale inglese Mike Summerbee e il fuoriclasse polacco Kazimierz Deyna.

“Ci fu anche la prima cosa sgradita. Per esigenze di copione dovevamo tutti avere i capelli corti … in un periodo dove in Inghilterra con i capelli corti non c’era praticamente nessuno !” ricorda Beattie.

Ma la sorpresa più grande fu decisamente un’altra.

Tutta la comitiva calcistica era assolutamente convinta che il loro apporto sarebbe stato semplicemente quello di giocare la partita finale su cui era imperniato il film … non che la maggior parte di loro dovesse anche recitare !

… altro piccolo particolare “evitato” da Mister Fields il giorno del reclutamento …

La prima vittima di questa novità è il povero John Wark. Il centrocampista goleador dell’Ipswich (che nella stagione successiva batterà il record di Josè Altafini per record di gol realizzati in una competizione europea) proprio non riesce a dire “I’ll take the top bunk” … la scena viene girata una ventina di volte tra le risate di tutta la troupe e … il fastidio di Sylvester  Stallone …

Al termine della lunga giornata di registrazioni (che diventava ancora più lunga quando era coinvolto il povero Wark) il rompete le righe era celebrato in grande stile.

“Non bevevamo birra. Con il rimborso spese della produzione potevamo permetterci il meglio. Vino di marca, champagne e scotch di primissima qualità” ricorda Mike Summerbee che con Bobby Moore e Michael Caine formava una specie di “trio delle meraviglie” al tavolo del ristorante o al bar dell’albergo.

In breve si viene a creare un cameratismo di altissimo livello.

Pelè non disdegna il cibo e la compagnia, Deyna che gioca in Inghilterra con il Manchester City si è perfettamente adeguato ai “ritmi alcolici” dei suoi compagni di squadra. Ardiles è uno dei più tranquilli del gruppo ma non disdegna neppure lui un paio di bicchieri di champagne e qualche nottata “lunga”.

L’unico che rimane in disparte, corpo estraneo per tutta la durata delle riprese è Sylvester Stallone.

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“Non gliene fregava niente di nessuno. Solo di se stesso. Perfino a pranzo si faceva portare il cibo in camera e non scendeva mai a mangiare con noi” ricorda sempre capitan Beattie.

“Diciamolo pure: era un piccolo fottuto arrogante. Per insegnargli i rudimenti dell’arte del portiere la produzione aveva messo sotto contratto nientemeno che Gordon Banks, il portiere della nazionale inglese campione del mondo del 1966. Dopo due giorni quel presuntuoso piccoletto (tutti racconteranno di quanto si stupirono della scarsa altezza di Stallone) decide di fare a meno di Banks, convinto di cavarsela da solo. Alla fine delle riprese si era rotto un dito (goffa respinta su un tiro di Pelé), incrinato due costole e lussato una spalla !” sono sempre parole di Beattie.

Le pretese di Stallone non hanno limiti.

Ci vuole tutta la pazienza di John Huston per convincere il divo hollywoodiano che i portieri molto raramente segnano i gol decisivi nella partite di calcio … cosa che invece pretendeva di fare Stallone.

Per fortuna pare che su idea di Pelè o di Bobby Moore si riuscì a convincere Stallone che poteva comunque essere determinante in un altro modo durante il match.

Si arriva così ai 4 minuti finali, dove l’epica raggiunge livelli supremi.

Rientra in campo Pelé, che infortunato in un contrasto precedente aveva dovuto lasciare il campo e i suoi compagni in inferiorità numerica. Tiene il braccio appoggiato al petto, un po’ come fece Franz Beckenbauer nella storica semifinale dell’Azteca del 1970, ma la star degli alleati è di nuovo della partita.

Come entra in campo tiene la palla una decina di secondi buoni.

Finte e contro finte per poi fare uno splendido tunnel al suo avversario diretto.

Apertura sulla fascia per Bobby Moore che stoppa di petto e mette in mezzo un cross perfetto, sul dischetto del rigore.

La rovesciata di Pelé è da antologia del calcio. Portiere tedesco battuto e palla in fondo al sacco.

E’ gol del quattro a quattro, che corona una rimonta strepitosa.

Le emozioni non sono finite.

Nel frattempo il pubblico francese (nel film si gioca a Parigi, in realtà le riprese vengono nel campo della MTK Budapest, uno dei pochissimi stadi adatti in quanto ancora privo di un impianto di illuminazione), esaltato dalla prova dei prigionieri, inizia a credere nella vittoria, sostenendo a gran voce gli alleati.

C’è un ultimo sussulto però.

Quando mancano una manciata di secondi alla fine il numero 4 tedesco si lancia in area. E’ un pallone innocuo che sta andando verso la linea di fondo ma Osvaldo Ardiles entra in scivolata e completamente fuori tempo (mai visto Ardiles fare un’entrata così !).

E’ calcio di rigore.

E ‘ lo stesso numero quattro tedesco che si presenta sul dischetto.

Sylvester Stallone gli si avvicina, sfidandolo con quel suo mezzo sorriso sbilenco.

Sarà uno dei rigori più brutti visti in un campo di calcio.

Lento, centrale e a mezza altezza.

Il plastico (?) volo di Stallone e la palla bloccata in presa … e così anche il “divo” è accontentato.

 

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Yabo Yablonski, cittadino americano di origine russa e colui che scrisse la sceneggiatura del film.

… che doveva andare in modo completamente diverso !

La sua idea al momento di costruire la sceneggiatura veniva da un fatto realmente accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale.

In Polonia infatti era davvero accaduto che fu organizzata una partita di calcio tra prigionieri polacchi e soldati tedeschi durante l’occupazione nazista di Varsavia.

I polacchi vinsero l’incontro ma furono in seguito fucilati.

… e questa era l’idea di Yablonski e della sua sceneggiatura.

Lasciar vincere i tedeschi, aiutare la loro propaganda e avere salva la vita.

Oppure giocare la partita per vincerla sapendo che questa scelta sarebbe costata ai prigionieri la vita.

Huston e la Paramount decisero però diversamente … con grande sorpresa di Yablonski che scoprì la cosa solo a riprese ultimate.

 

In tutte le interviste ai giocatori dell’Ipswich in seguito a quell’esperienza sono tutti concordi nel definire il grande Pelé come una persona davvero speciale, anche e soprattutto dal lato umano.

Oltre ad essere di grande compagnia anche nelle serata di baldoria (pare che lo Scotch fosse di notevole gradimento al grande calciatore brasiliano) amava intrattenere con la sua chitarra tutta la “troupe” con le sua amate canzoni brasiliane … anche se, come ricorda Russell Osman “ok la prima e la seconda … ma alla quarta o la quinta in parecchi trovavamo una scusa per defilarci !”

 

Kevin Beattie invece ha ricordi molto più “calcistici”.

“Un giorno durante una pausa nelle registrazioni ci fermammo per fare una piccola merenda. Avevamo addosso tutti quegli enormi scarponi che usavamo come calzature da calcio. Ad un certo punto Pelé prese un’arancia e iniziò a palleggiare. La tenne su per almeno un quarto d’ora. Destro, sinistro, coscia, palleggiandola di testa e facendola scivolare sulla nuca per poi colpirla di tacco e continuare a palleggiare. Mai visto niente di simile in vita mia !” ricorda il capitano dell’Ipswich Town.

 

Dopo che Stallone fece licenziare il suo coach personale Gordon Banks (!) fu il portiere dell’Ipswich Paul Cooper (che agiva da controfigura a Stallone) a tentare di insegnargli i rudimenti base del ruolo di portiere.

“Non c’era nulla da fare. Dopo mezza giornata di lezione pretendeva di saperne più del sottoscritto” ricorda sconsolato Cooper.

 

John Wark, che rimase in contatto con Pelé per diversi anni dopo la realizzazione del film, fu protagonista di uno degli episodi più divertenti.

Vista l’impossibilità per i giocatori dell’Ipswich di presenziare alla prima assoluta per impegni calcistici, i membri dei “Tractor Boys” (questo uno dei soprannomi del Club) si diedero appuntamento alla prima della loro città, al cinema Odeon di Ipswich.

… dove il povero John Wark scoprì che fu l’unico calciatore inglese ad essere “doppiato” in tutto il film in quanto il suo marcato accento scozzese fu considerato “incomprensibile” dal grande pubblico !

 

Infine, la rovesciata di Pelé, entrata ormai nella leggenda e scena di culto del film.

Tutti i presenti di quel giorno confermano che Pelè fece la rovesciata perfetta subito al primissimo ciak.

Anche se, aggiunge Russell Osman “quell’idiota del nostro portiere di riserva Laurie Sivell che giocava in porta con i tedeschi, decise di PARARE la rovesciata di Pelé e così la scena della palla che finisce in fondo alla rete fu necessario aggiungerla in seguito !”

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ALAN TURING: Il genio che correva come il vento.

di MASSIMO BENCIVENGA

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Questa storia ha un primo stop il 7 Giugno del 1954, quando un uomo venne rinvenuto morto, probabilmente suicida.

Unico indizio: una mela morsicata, probabilmente avvelenata.

L’uomo non amava molto Shakespeare, a parte l’Amleto, ma si commuoveva sempre alla favola di Biancaneve.

 

Il film, il nastro di questa Storia ha una sua ripresa nel 2009, quando Gordon Brown, Primo Ministro del Regno Unito, disse alla fine di un discorso: «Così, per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio.»

Il nastro della Storia accelera e la Regina, Elisabetta II, nel 2013, concede una grazia postuma allo stesso Alan citato nel discorso diBrown. Grazia concessa, va detto, che incontrò una certa resistenza, benché tra i primissimi firmatari figurasse Stephen Hawking.

Infine, ma non è ancora finita, almeno credo, dal 2019 la faccia di questo Alan campeggia sulle banconote da 50 sterline emesse dalla Bank of England.

Ma adesso balziamo nei primissimi anni del Secondo Dopoguerra, per andare a leggere, sulle righe del mensile Athletic, il futuro Athletics Weekly, queste parole: «L’atleta del Walton è lo stesso dottor Turing che ha creato la macchina che pensa.»

I compagni e i dirigenti del Walton rimasero di sasso: loro non sapevano cosa facesse né tantomeno che il loro tesserato sarebbe stato in seguito definito da Churchill come l’uomo che diede il più grande contributo soggettivo alla vittoria della Seconda Guerra Mondiale.

Più grande contributo soggettivo alla vittoria della Seconda Guerra Mondiale.
Suona bene, non trovate?
Era forse stato, Alan,  l’uomo che aveva cominciato a rischiare l’ora più buia?
Romantico, nevvero?

Adesso caliamo la maschera e diciamo che stiamo parlando di Alan Turing che, con i suoi collaboratori, nella magione di Bletchey Park, partecipò come punta di diamante dell’Impero alla più grande impresa di spionaggio della storia: la decifrazione dei messaggi navali usati dagli U-Boot tedeschi durante il secondo conflitto. Messaggi codificati con la macchina Enigma. Una sua geniale intuizione permise la creazione, intorno al 1943, del dispositivo elettromeccanico chiamato Colossus, decisivo per dare una svolta al conflitto con il tracciamento e lo snidamento dei branchi di lupi, com’erano etichettati i sottomarini nazisti.

 

Terminata la Guerra, il nostro Alan ottenne, in gran segreto naturalmente, l’Ordine dell’Impero Britannico, per i servigi resi.

Tutto ciò, i servigi resi alla Corona, sarebbero stati resi noti molto dopo, e questa segretezza fu parte decisiva del suo dramma.
Ma torniamo all’articolo del Athletic; cos’è questa storia di un runner che ha creato la macchina che pensa?

 

Nato nel 1912, Alan Turing nacque essenzialmente matematico, talmente e così matematico da fallire l’accesso ai corsi di matematica del King’s College della Cambridge University. Falli quell’ammissione perché aveva usato una notazione formale di sua invenzione: in soldoni, era stato escluso perché non l’avevano capito. L’anno dopo, usando la notazione standard, fu ammesso tranquillamente. Durante gli anni al King’s, Turing si dedicò alla corsa e anche al canottaggio. Non abbiamo prove che portò al college anche il gioco che faceva da adolescente, e che consisteva nel giocare e scacchi e correre. Funzionava così: un giocatore muoveva un pezzo degli scacchi e poi partiva di corsa per fare il giro della casa; se al suo arrivo l’avversario non aveva ancora eseguito la propria mossa, ciò gli dava diritto di muovere nuovamente. Amava gli scacchi Turing, ma a Bletchey Park c’era un crittografo che giocava contro di lui e lo batteva regolarmente: due volte a partita. Questo tizio, una volta messo alle corde Alan, ruotava la scacchiera e continuava a giocare con i pezzi di Alan. Rimontando e vincendo.

Pur essendo un matematico di prim’ordine, al punto che dimostrò in maniera indipendente il teorema del limite centrale, che non porta il suo nome perché già dimostrato da Lindeberg, Alan amava le macchine (in senso lato non le auto), i marchingegni e le cose pratiche.

Ed ebbe intuizioni fulminanti e sempiterne.

A 24 anni, nel tentativo di dimostrare o confutare l’Entscheidungsproblem, il problema della decisione di Hilbert, ossia se fosse o meno possibile costruire un algoritmo, cioè una serie di istruzioni, che permetta di stabilire se una certa affermazione segue da altre? Turing, con un colpo d’ala notevole, arrivò a pensare e dimostrare l’infondatezza dell’assunto usando non già i numeri, ma una macchina astratta, un esperimento mentale: la Macchina di Turing, attuale e insuperato  modello teorico alla base dell’informatica moderna.

Questo prima del conflitto.

Dopo il conflitto, correva con il Walton Athletic Club e pensava a una macchina che potesse imitare il pensiero umano. Da qui il titolone di qualche riga sopra.

“Più che vederlo arrivare, lo sentivamo”, disse JF Harding del Walton. “Faceva un rumore terribile, una specie di grugnito, quando correva, ma prima ancora che potessimo rivolgergli la parola ci aveva raggiunto e superato come un proiettile. Così una sera gli chiedemmo per chi corresse, e quando sapemmo che non era tesserato lo invitammo ad unirsi a noi. Lo fece e divenne il nostro miglior runner”.

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Già, divenne il migliore di quel team. E sul rumore? Beh, anche Zatopek non era bellissimo da vedere e sentire.
Questa Storia è raccontata in un blog di sport perché il signor Alan Mathison Turing per poco non entrò, e forse solo per un infortunio, nella squadra olimpica per le Olimpiadi di Londra 1948. Si mise in luce nell’agosto del 1946, quando vinse la gara sociale del Walton sulle tre miglia. E poco dopo Turing arrivò terzo in un’altra gara, arrivando appena sei secondo dopo Alec Olney, al quale regalava dieci anni di età. Beh, Alec Olney corse i 5000 metri alle Olimpiadi di Londra.

Pian pianino, Turing cominciò ad allungare la distanza e il 25 agosto del 1947 ottenne il suo personale sulla maratona con il tempo di 2h46’03”. Un risultato notevole per un trentacinquenne che lavorava con teste d’uovo e si allena nei ritagli di tempo. Il risultato assume una valenza ancora più strabiliante se confrontato con il tempo del vincitore della Maratona dei Giochi del 1948. Il vincitore di quella maratona, il carneade Delfio Cabrera, corse in un tempo inferiore di soli undici minuti rispetto a quello di Alan, battendo il gallese Tommy Richards, a sua volta battuto da Turing in una corsa campestre disputatasi pochi mesi prima. Su una distanza più corta, va detto.

Ci piace pensare che l’altra idea fulminante di Turing possa essersi fatta strada, abbia trovato insperate connessioni e configurazioni neurali, durante una corsa oppure durante un allenamento. Durante i suoi anni da runner, Turing cominciò a spostare la sua attenzione dalle capacità e potenzialità di calcolo di una macchina ( la sua Macchina di Turing) verso nuovi orizzonti, vale a dire verso l’analisi dei processi logici che la macchina poteva sviluppare. Non si trattava più di programmare macchine efficienti, ma macchine intelligenti. Turing si ritrovò a mappare un nuovo territorio, cercando le analogie tra i processi che il cervello può creare, tipo la mente pensante, il dialogo interno e la coscienza, con i processi che una macchina può eseguire e ingegnerizzare. Per dirla brutalmente, Turing fu anche pioniere dell’A.I. Ricordatevelo la prossima volta che ricorrerete a un assistente virtuale.
E anche in questo caso, la sua forte capacità di astrazione trovò perimetro e ragione all’interno di un modello teorico: Il Test di Turing, attuale e insuperato modello usato per determinare se una macchina sia o meno grado di pensare.

Alla fine del 1947, il nome di Alan Turing si trovava al nono posto nella rosa dei possibili runner che avrebbero difeso i colori britannici alle prime olimpiadi del Secondo Dopoguerra. Purtroppo un infortunio alla gamba gli precluse la possibilità di poter partecipare alle Olimpiadi.

Poco male, direte, e poi perché …
Perché proporre una storia del genere in un blog di Storie Sportive e Maledette?
Matematico geniale, tecnologo insuperato, eroe di guerra, quasi atleta olimpico, cosa c’è di maledetto in tutto ciò?

Riavvolgiamo un po’ l’ultimo nastro, del resto la Macchina di Turing ha tra i suoi componenti un nastro, anche infinito se si vuole.

Dunque: Matematico geniale, tecnologo insuperato, eroe di guerra, quasi atleta olimpico e autore di gross indecency: gravi atti osceni.

Quali atti osceni? Ricordate che quasi all’inizio abbiamo scritto di grazia postuma nel 2013?

Bene, Alan Mahison Turing, l’uomo che contribuì a salvare la stessa Regina, era omosessuale.

Un crimine ai tempi.

Il matematico aveva una relazione con un poco di buono che lo derubava continuamente. Alan andò dalla polizia e nel corso dell’interrogatorio venne fuori anche il tipo di rapporto che intratteneva con il lestofante. Turing venne arrestato e trascinato davanti al giudice per rispondere al reato di omosessualità. Lui non si difese, non negò nulla. Dal suo punto di vista non aveva fatto nulla di male. Max Newman, grande matematico, amico e mentore di Alan si mosse in sua difesa.

E con lui altri, solo che…
Vincolati dal segreto militare, né Alan né i suoi amici poterono riferire alla corte di giustizia i grandi meriti di Alan, i servigi resi al Paese e la risorsa che lo stesso rappresentava per la Corona Unita. La pena alternativa al carcere era la castrazione chimica, che Alan accettò, forse ignaro degli effetti collaterali.

Correva il 1952.
La cura lo fece ingrassare, gli fece aumentare il seno, non ci son prove che abbia avuto effetto anche sulla sua mente, ma ad Alan Turing la vita cominciò a pesare.

La sera del 7 Giugno del 1954, nella solitudine della sua camera a Wilmslow, Alan diede un morso a una mela e si addormentò.

Per sempre.

Ecco, adesso la cosa vi sembra abbastanza maledetta?

In molti hanno fantasticato che Jobs abbia pensato a Turing quando decise il logo della Apple. Steve non ha mai confermato la cosa. Pare però che una volta sia arrivato a dire:“Non è vero, ma Dio, come vorrei che lo fosse!”.

Turing ha plasmato non solo il nostro presente, permettendoci di tenerci in contatto e di trovare amici lontani con passioni simili, ma ha aperto anche una finestra sul nostro futuro, perché, se ben usata, l’A.I. apre scenari incredibili.

A voi amici e al padrone di casa del blog sta il compito di giudicare se questa storia merita il posto nel blog.

Non l’ho sentito, ma pare che Buffa in alcuni monologhi citi von Braun.

Wernher von Braun.

Ecco, von Braun ha una bella storia, ma difficilmente ne scriverei.

E sicuramente non sempre in termini apologetici.

Né sono l’unico.

Sono in molti a vedere in von Braun uno che plasmato il nostro presente, come ho detto di Turing. E come potrei dire di Shannon, di Wiener, ma…
Ma mentre qualcuno comincia ad avanzare dubbi non solo morali (quelli son figli dei tempi), ma anche accademici su Werner von Braun, nessuno, nessuno!, ha mai messo in dubbio la paternità delle intuizioni di Turing che anzi, in qualche caso, ha avuto meno di quanto effettivamente meritasse.

Anche in ambito accademico e non solo nel discorso di Gordon Brown. Se è giusto cantare con post, film e documentari personaggi come von Braun e Nash (bocca taci!), allora credo che si debba dare il giusto anche ad Alan Mathison Turing.

Anche perché nessuno dei cervelloni correva come lui.

A tal proposito, non ci sono prove univoche (e credo mai ci saranno) sul Pitagora campione olimpico di boxe. Io sono scettico, ma di tanto in tanto, anche in blog e saggi di valore la questione vien fuori.

Infine, Alan si tolse la vita pochi giorni prima di compiere 42 anni.
42, come i km della maratona che non corse mai.

“VIDELA ASESINO” (Argentina – Olanda 1979)

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Siamo a Berna. E’ il 22 maggio del 1979.

Al Wankdorf Stadium si sta giocando Argentina – Olanda.

Secondo il battage pubblicitario della FIFA viene raccontata come “la grande rivincita” della finale del Mondiale argentino di meno di un anno prima.

In realtà si tratta di una delle prime grandi occasioni per questo organo che dovrebbe gestire il calcio a livello mondiale per monetizzare in grande stile un evento.

Si festeggia infatti il 75mo anniversario di fondazione della FIFA, la Federazione che gestisce, organizza e spreme già come limoni tutto quello che può per riuscire a soddisfare la propria “mission”: fare soldi.

Farne il più possibile per vendere il “prodotto calcio” a consumatori sempre più numerosi e affamati.

E possibilmente per averne a disposizione una fetta sempre più ampia da spartire tra i vertici dell’organizzazione.

Non sono parole di chi scrive.

Furono esattamente le parole pronunciate dal brasiliano Joâo Havelange il giorno del suo insediamento alla Presidenza quattro anni prima.

“Sono un venditore di un prodotto chiamato CALCIO”.

Parole quanto mai significative e più che sufficienti per tracciare la strada che poi percorrerà con grande disinvoltura il Sig. Sepp Blatter che di Havelange prenderà il posto quasi un quarto di secolo dopo e al cui confronto nel rapporto con il denaro Havelange sembrava San Francesco d’Assisi.

Corruzione endemica, alimentata da speculatori di vario genere, da politici con necessità di ripulirsi entrate e anima e dirigenti con scrupoli più o meno identici a quelli di Walter White in Breaking Bad.

Quel giorno però qualcosa va storto.

La diretta tv venduta a tutte le principali televisioni del mondo e che aveva riempito le casse della FIFA (e di sicuro i corposi conti offshore) si stava trascinando in maniera abulica e assai poco spettacolare.

Perfino il giovane Diego Maradona, la grande attrazione della serata tra i 22 giocatori in campo, nonostante gli sforzi e l’indubbia grande qualità, stenta ad incidere.

Il potere della FIFA non si limitato ad organizzare la partita, a gestire incassi, pubblicità e contratti con le televisioni.

Hanno anche pensato che per farla sembrare una rivincita ancora più credibile le due squadre avrebbero dovuto presentarsi in campo con i giocatori utilizzati nella finale del campionato del mondo di un anno prima al Monumental di Buenos Aires.

Cesar Menotti, il grande selezionatore argentino, è tutt’altro che contento della cosa.

“Ho ragazzi giovani emergenti che sono già migliori dei miei titolari di un anno fa. Non capisco perché non posso utilizzare loro. Maradona però DEVE giocare, lui è la grande stella del match”.

E così al momento delle convocazioni si scopre che Mario Kempes, il “matador” del Mondiale di un anno prima, deve dare forfait per un non troppo specificato “infortunio ad una gamba” rimanendo così nella sua Valencia.

L’unica altra novità per gli argentini è rappresentata dal difensore centrale  Hugo Villaverde, inserito al posto di Galvan.

Gli altri ci sono tutti.

Da Ubaldo Fillol, a capitan Daniel Passarella, da Osvaldo Ardiles a Tarantini e al baffuto centravanti Luque.

Nove su undici.

Quello che però vale per l’Argentina pare che non valga affatto per l’Olanda.

Solo quattro sono i “sopravvissuti” del match perso l’anno precedente.

Ruud Krol, Jan Portvliet, Johnny Rep a Joan Neeskens.

Il resto è formato da tanti giovani su cui l’Olanda deve ormai fare affidamento per il ricambio generazionale ormai avviato dopo una decade abbondante di eccellenti risultati a livello di nazionale e soprattutto di club.

Nella partita manca ovviamente la tensione e l’adrenalina dell’incontro di un anno prima.

In realtà non si fanno certo sconti dal punto di vista fisico.

Ci sono ancora questioni che si trascinano da quella storica finale del Monumental.

Uno dei momenti più intensi del match è lo scambio di cortesie fra Daniel Passarella e Joan Neeskens che si erano “spiegati” in maniera vigorosa già un anno prima.

Per il resto il match si trascina tra qualche sussulto e molta noia.

Ma anche agli occhi del telespettatore più distratto e annoiato non può sfuggire, dopo neppure tre minuti di partita, un cartellone esposto dietro la porta del numero uno olandese Doesburg.

C’è un errore in disimpegno degli olandesi.

Maradona conquista palla e apre sulla destra a Bertoni che controlla e lascia partire un destro forte ma centrale che si spegne tra le braccia del portiere olandese.

Ma dietro la porta, a metà circa tra la stessa e la bandierina del corner appare un striscione bianco, con un grande scritta in nero.

Non è di dimensioni particolari ma contiene solo due parole che si leggono in maniera nitida ed inequivocabile: VIDELA ASESINO.

La regia svizzera è evidentemente spiazzata e il disagio è palpabile.

D’altronde ogni volta che l’Argentina si avvicina all’area di rigore degli “Orange” il cartellone appare in bella evidenza.

Pare che i più preoccupati siano i dirigenti della delegazione argentina che ne chiedono la rimozione alle forze dell’ordine svizzere.

In realtà il cartellone scompare per qualche secondo per poi riapparire in maniera evidente e con un fermo immagine nitidissimo su un calcio d’angolo in favore degli argentini.

Solo nel secondo tempo arriva un primo escamotage.

Nella zona dove era posizionato il cartello appare una scritta, difficilmente leggibile e con caratteri diversi, che si scopre dopo essere “HOY 22 H. LES LUTHIERS” che non è altro che la pubblicità di una popolare trasmissione argentina che avrebbe dovuto servire a nascondere al mondo la dichiarazione di quel cartello.

Tutto inutile.

Il messaggio è arrivato.

Ed è stato visto in tutto il mondo.

In Argentina, dove la partita fu ovviamente trasmessa in diretta e i commentatori della televisione argentina si guardarono bene da citare il cartello o fare commenti sullo stesso.

Evidentemente nessuno di loro intendeva farsi un giretto su aereo militare sopra il Rio de la Plata.

Pochi minuti dopo però, di scritta ne appare un’altra, ancora più evidente e definitiva: LOS MILITARES SON MISERIA Y REPRESION.

La vittoria dei tifosi argentini che dalla Svizzera e da diverse nazioni limitrofe sono arrivati in più di un migliaio, e a questo punto netta, senza appello.

L’Argentina vincerà quella partita ai calci di rigore dopo lo zero a zero dei novanta minuti di gioco.

… vincendo così due volte.

In campo, dimostrando comunque che aldilà di tutte le polemiche di un anno prima, gli argentini sanno giocare a calcio.

E sugli spalti, dove un gruppo di impavidi emigrati argentini, ha avuto il coraggio di denunciare al mondo intero i soprusi e la violenza di una delle dittature più nefaste del Ventesimo secolo.

Anche se dovranno passare ancora tre lunghi anni prima di vedere spodestati dai loro troni inzuppati di sangue Videla, Viola, Galtieri e la loro congrega di assassini.

Postilla

Quel giorno a Berna tra il pubblico argentino c’era anche Angel Cappa.

Angel Cappa si era ritirato dal calcio l’anno precedente, dopo una carriera tutta trascorsa nell’Olimpo.

Da fervente oppositore del regime di Videla fu costretto a riparare in Spagna da dove quella sera raggiunse Berna per la partita raccontata nel pezzo.

Per molti fu uno degli organizzatori della cosa. Lui non se prese mai il merito, dicendo semplicemente che “ero uno dei tanti che volevano fare qualcosa per far sapere al mondo cosa stava accadendo nel nostro paese”. Angel Cappa diventerà uno dei migliori allenatori d’Argentina.

Per chi fosse interessato il suo tributo è qua https://wp.me/p5c7YM-3L

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JIM THORPE: Gloria e caduta del più grande atleta del Novecento.

di MASSIMO BENCIVENGA 

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Esiste qualche appassionato di sport che non si è mai cimentato nel tentativo di fare delle

classificazioni?

Dopotutto, cosa sono i record se non classificazioni di ricordi di imprese da provare a superare?

Se tali esercizi mentali sono difficili all’interno di una stessa sport, figuriamoci quali dispute e quali battaglie di eventi ed immagini si scatenerebbero dentro di noi se volessimo scegliere

l’atleta del secolo scorso pound for pound, come dicono i pugili, ossia senza distinzione di peso, ergo senza distinzione di sport.

Sono relativamente sicuro che verrebbero fuori nomi come: Michael Jordan, Wilt Chamberlain,

Bjorn Borg, Mark Spitz, Pelè, Diego Maradona, Eddie Merckx, Muhammad Alì, Rod Laver,

Wilma Rudolph, Juan Manuel Fangio, Tazio Nuvolari, Carl Lewis e così via. Forse anche il

nostro Lorenzo Bernardi.

Eppure, per Re Gustav V di Svezia e per Dwight Eisenhower, eroe della WWII (ossia della

Seconda Guerra Mondiale) e Presidente Usa prima di J.F. Kennedy, il problema del più grande atleta del ‘900 quasi non si poneva.

Per il Re e per il Presidente Usa, l’atleta del secolo si chiamava Jim Thorpe, nato Franciscus Jacobus Thorpe, e prima ancora Wa-to-Huk, ossia “sentiero lucente” in lingua algonchina, la nazione nativa cui apparteneva perlomeno per tre quarti di sangue. Venne chiamato così perché si racconta che un raggio di sole illuminò la capanna dove nacque il povero nativo

indiano che venticinque anni dopo avrebbe stretto la mano a Re Gustavo V di Svezia.

In tutta onestà, non so dire con esattezza il momento esatto in cui sentii parlare per la prima volta di Jim Thorpe, né tantomeno ricordo chi fu a farlo. Gli indizi mi porterebbero verso uno tra Dan Peterson e Rino Tommasi, ma davvero non ricordo chi devo ringraziare.

Fatto sta quel nome mi ronzava in testa continuamente: un pellerossa che era stato anche un atleta straordinario. Capite bene che la cosa stuzzicava la fantasia del ragazzino appassionato di sport che ero.

E che forse son rimasto.

Chi è stato e cosa abbia rappresentato Jim Thorpe è qualcosa avvolto nebbia del tempo;

abbiamo, nella migliore delle ipotesi, resoconti di seconda mano. E forse è meglio così, forse è giusto che l’alone di leggenda che circondò Jim Thorpe in vita resista all’attacco dei bit capaci di immagazzinare e memorizzare per sempre ogni informazione.

A dirla giusta, non si conosce con esattezza la data ed il luogo di nascita di Jacobus “Jim”

Franciscus Thorpe. La data ipotizzata è Maggio 1887 ed il luogo Prague, cittadina

dell’Oklahoma.

Se la nascita fu sfolgorante, perlomento simbolicamente, e i nativi davano molta importanza a simili segni, la sua infanzia fu tutt’altro che dorata.

Ebbe una infanzia difficile, a otto anni perse il suo fratello gemello e poco dopo anche la madre.

Lutti difficili da elaborare per chiunque, e Jim non fece eccezioni. A questi traumi seguì una adolescenza travagliata, ma da questi problemi Jim se ne tirò via a forza viva attraverso lo sport.

Perché Jim Thorpe non era un uomo qualunque, non era un atleta qualsiasi.

Era un superman.

Da ragazzino e da adolescente fece mille lavoretti e si racconta che, mentre faceva il

mandriano, si ritrovò a gareggiare, quasi per scherzo, in una competizione studentesca.

Jim Thorpe sbaragliò tutti saltando 1,75 m nel salto in alto, con addosso i pantaloni normali perché non aveva i calzoncini.

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Era il 1907, e la Leggenda di Thorpe iniziò così.

Sia come sia, il padre trovò i soldi per mandarlo all’Università di Carlyle in Pennsylvania, che all’epoca aveva anche un programma per educare i nativi ai modi, ai codici etici e morali degli Stati Uniti.

Facciamo un passo indietro. Cosa c’entra Dwight Eisenhower citato sopra?

All’università Thorpe gareggiò un po’ in tutti gli sport. Un coach lo vide e gli propose di provare a giocare a football come running back.

Thorpe rispose portando di peso la sua scuola alle finali nazionali di football. Ed è a una partita di football che facciamo risalire la sua conoscenza con il futuro eroe militare e Presidente. In un dato momento, in realtà una partita che ha una sua storicità, l’Università di Thorpe, la Carlyle, si ritrovò ad affrontare su un campo di football la squadra di West Point, fucina dei futuri ufficiali dell’esercito a stelle e strisce, e dove per l’appunto giocava anche il cadetto Eisenhower.

In quella partita Thorpe marcò il territorio tra i grandi giocatori e gli esseri dominanti. La partita finì 27-8 per Carlyle. 22 dei 27 punti di Carlyle furono palle e terra messe dal nativo, che si prese l’uggiola di fare un touchdown da 97 yard. All’università Thorpe si disimpegnava alla grande anche nell’atletica e nel baseball, mentre fuori dall’ateneo mostrò anche buone doti dicavallerizzo, di domatore di tori e cavalli e persino qualità da ballerino.

E così si arrivò alle selezioni per le Olimpiadi svedesi. I trials, anche se dubito che ai tempi la selezione si chiamasse così. In ogni caso, denominazione a parte, son sempre state competizioni dure, a volte vere con un valor medio maggior delle rassegne a cinque cerchi.

Jim Thorpe, localmente abbastanza famoso, ma non ancora una star nazionale, si presentò concorrendo per le del pentathon. Il Pentathlon moderno corrisponde alle cose che dovrebbe saper fare un ufficiale militare, quindi: corsa, equitazione, scherma, nuoto e tiro a segno. Quello del 1912 comprendeva invece: salto in lungo, lancio del giavellotto, 200 m piani, lancio del disco e 1500 m. Ovviamente fu scelto.

Ma c’era anche un’altra specialità che stuzzicava il nativo, una sorta di decathlon ante litteram che all’epoca chiamavano All Around. Va detto che anche in questo caso il programma olimpico cambiò alcune prove dell’All Around cercando di adattare queste prove in modo che richiamassero in maniera più marcata la tradizione europea. E il sistema di misurazione europeo.

Vennero, solo per dare qualche esempio, soppresse le prove di salto triplo e della marcia e siconvertirono yarde e libbre in metri e chilogrammi.

Sì, ma tutto ciò… quanto poteva essere diverso per un Superman?

Jim Thorpe a Stoccolma 1912 partecipò anche alle gare di salto in alto, dove si classificò

quarto, e di salto in lungo, laddove invece finì settimo.

Ma nelle gare multiple, nel pentathon e nel decatlon, non ce ne fu per nessuno.

Nessuno.

Sentiero Lucente stravinse i concorsi con largo margine. Nel pentathon vinse tutte le gare tranne il lancio del giavellotto, dove arrivò solo terzo. Nel decathlon vinse quattro concorsi su dieci.

Alla premiazione, Re Gustav V disse: “Signore, Lei è il più grande atleta del mondo”. Al che Jim, candidamente e laconicamente, rispose: “Grazie, Re”.

Nel pentathlon moderno (non quello in cui vinse l’oro Thorpe) di Stoccolma gareggiò anche un altro importante generale americano: il futuro generale Patton. Abbastanza ironicamente, non riuscì a conquistare una medaglia perché andò male male nella gara di tiro. In ogni caso, Jim oscurò tutti, anche il nume tutelare hawaiano Duke Kahanamoku.

 

Il ritorno di Thorpe fu degno d’una star, al punto che fu festeggiato con una grande parata a Broadway.

Ma le stelle cadono, si spengono. E quella di Thorpe fu spenta a forza. E forse artatamente.

All’epoca vigeva la regola olimpica che considerava professionisti gli atleti che ricevevano premi in denaro, che facevano gli istruttori o che avevano in precedenza gareggiato contro professionisti. I professionisti non potevano partecipare alle Olimpiadi. In alcuni casi, come nella scherma, c’erano due concorsi: uno per i dilettanti, diciamo così, e uno per i maestri di scherma.

E sull’equivoco dilettante/professionista incapparono alcuni nostri connazionali agli albori delle moderne olimpiadi.

Ma che c’entra Thorpe? Nel gennaio del 1913, i giornali americani riportarono la notizia che Thorpe aveva giocato a baseball da professionista. Il CIO chiese indietro le medaglie. Thorpe fu mal difeso, forse fu anche mal consigliato, perché aveva sì giocato a livello semi-professionistico in Carolina del Nord nel 1909 e nel 1910, per un piccolo compenso in denaro, ma era altrettanto vero che il regolamento delle Olimpiadi del 1912 prevedeva che qualsiasi protesta dovesse essere fatta entro 30 giorni dalla cerimonia di chiusura dei Giochi. E non quasi sei mesi dopo.

Fatto sta che Thorpe restituì le medaglie e cominciò a giocare a Baseball e a Football

americano, favorito anche dal fatto che gli sport si giocavano in stagioni diverse. Nel baseball in particolare spuntò contratti davvero faraonici per i tempi, mentre fu anche capo della Lega di Football.

Dopo la parentesi sportiva, e non avendo mai del tutto digerito lo scippo olimpico, non fu più lo stesso, cominciò a bere, un vizio che sembra endemico per i nativi, e si ridusse a fare le comparse nei film western. Si sposò e separò più d’una volta, infine, povero in canna, vendette per poche lire le royalties per un film sulla sua vita. La pellicola uscì nelle sale nel 1951 con il titolo Pelle di Rame, con Jim Thorpe impersonato da Burt Lancaster, mica uno qualsiasi.

Povero e solo, morì d’infarto in una roulotte a Lomita, California, nel 1953

I figli portarono avanti la causa del padre, al fine di far riammettere il nome del padre nelle classifiche olimpiche e riabilitarne il nome e la memoria.

Il 18 gennaio 1983, a Los Angeles, il presidente del CIO Juan Antonio Samaranch riabilitò Jim Thorpe e riconsegnò le medaglie alla famiglia; e il 30 Gennaio 1998, gli Usa emisero un francobollo commemorativo da 32 cents nel quale Jim Thorpe viene ricordato come la Stella di Stoccolma.

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PAULO FUTRE: Tra Eusebio e Cristiano Ronaldo.

di REMO GANDOLFI

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A Reggio Emilia siamo matti per il calcio.

Lo so, la cosa può sorprendere molti visto che non abbiamo certo una tradizione di cui vantarci troppo.

Tanta serie C, diversi campionati nella serie cadetta e qualche presenza nella massima serie all’inizio della nostra storia.

Qualche campionato in Serie A lo abbiamo giocato … ma negli anni ’20 quando il calcio era un’altra cosa.

Ma la passione di una città non si misura certo in base ai risultati.

Anzi.

Amare la Reggiana come sappiamo fare noi con tutto quello che abbiamo passato vuol dire proprio che a Reggio il calcio ce l’abbiamo nel sangue.

C’era un cartello anni fa che veniva regolarmente esposto nel nostro Mirabello, il vecchio stadio in centro città.

Ovviamente dedicato alla nostra amata “Regia” e recitava “TI AMEREI ANCHE SE VINCESSI”.

Ecco. In quel cartello ci siamo noi tifosi reggiani.

Per un illecito sportivo mai dimostrato denunciato dal Parma e ratificato da un membro della Lega Calcio sempre proveniente dalla “città aldilà del fiume Enza” ci mandarono addirittura in Quarta serie.

Ci mettemmo tre anni per tornare almeno in Serie C, dopo aver girovagato per i campi di provincia di tutto il Nord Italia.

… e ancora oggi ci chiedono perché non amiamo i parmigiani …

Di andare in Serie A non c’era proprio verso.

Ci andammo vicini tante di quelle volte che credevamo ci fosse una maledizione nei nostri confronti.  Negli anni in cui salivano due squadre dalla B arrivavamo terzi e quando invece ne salivano tre arrivavamo quarti !

Poi nell’estate del 1988 arrivò il nostro profeta. Era un milanese con una lunga e dignitosa carriera alle spalle. Si chiamava Pippo Marchioro.

In realtà era tutto meno che un “profeta”, ma una persona umile, concreta ed estremamente intelligente.

Tornammo subito in Serie B dove rimanemmo tre stagioni sempre piazzandoci nella parte alta della classifica.

Poi arrivò un miracolo.

Ormai non ci speravamo più. Eravamo sicuri che anche in quella stagione sarebbe successo qualcosa che ci avrebbe impedito di conquistare la massima categoria.

Qualunque cosa.

Un infortunio ai nostri migliori calciatori, la malasorte che avrebbe trasformato gol fatti in pali e traverse, arbitraggi “guidati” che avrebbero favorite club più grandi e importanti di noi …

Invece vincemmo il campionato e dopo 64 anni tornavamo in Serie A.

Reggio Emilia era letteralmente impazzita.

Non sono mai stato a Rio de Janeiro per il carnevale ma so per certo che quella sera di primavera dopo la consacrazione matematica a Cesena ce la saremmo giocata almeno alla pari !

E diciamolo pure.

Quello che ci stuzzicava più di tutto era poter affrontare di nuovo i nostri “odiati cugini” che nel frattempo erano diventati una delle formazioni più forti di tutta la Serie A.

Fu un’estate interminabile.

A Reggio non c’era nessuno che non vedesse l’ora che arrivasse la fine di agosto e l’inizio del campionato. E poco importava se voleva dire tornare a scuola, negli uffici o nelle fabbriche.

Voleva dire tornare nel nostro Mirabello a vedere la nostra “Regia” giocare in Serie A.

La squadra era tosta.

Avevamo calciatori di esperienza come Gigi De Agostini, Sgarbossa e Scienza e alcuni giovani davvero bravi come Torrisi e il centravanti Padovano. Tra i pali addirittura il portiere della Nazionale brasiliana Taffarel scambiato proprio con i “cugini” che al suo posto scelsero Luca Bucci, con noi nella stagione precedente, quella della promozione.

Poi arrivò “la notizia”.

Quella a cui inizialmente non voleva credere nessuno.

Paulo Futre aveva firmato per la Reggiana.

Uno che 6 anni prima aveva alzato al cielo la Coppa dei Campioni con il Porto.

Uno che aveva fatto innamorare i tifosi dell’Atletico Madrid regalando loro due Coppe di Spagna.

Uno che era arrivato secondo nella classifica del Pallone d’oro dietro Ruud Gullit.

Uno che quando lo guardavi partire in dribbling ti faceva venire in mente Diego Armando Maradona.

Era tutto vero.

Paulo Futre giocherà nella Reggiana.

E iniziò un altro carnevale.

 

E’ il 21 novembre del 1993.

Reggio Emilia è paralizzata.

Oggi Paulo Futre farà l’esordio con i nostri colori, quel granata che i nostri fondatori vollero identico a quello del Torino.

Finora è stata durissima.

Non abbiamo ancora vinto una sola delle undici partite giocate finora.

Ma è anche vero che fino adesso nessuno in casa è riuscito a batterci, anche se abbiamo raccolto solo pareggi.

Il nostro Mirabello è una fortezza. Deve esserlo.

E’ l’unica chance che abbiamo per evitare di tornare subito in B.

Mi correggo. Non è l’unica.

Da oggi ne avremo un’altra.

Si chiama Jorge Paulo Dos Santos Futre.

Tutta Reggio Emilia sembra che oggi sia allo stadio.

Il nostro Mirabello ora ha spazio per 15.500 persone.

Se qualcuno mi viene a dire che oggi ce ne sono meno di 20 mila gli do del matto.

Bandiere della “Regia” in tutto lo stadio. Ma anche del Portogallo, del Brasile e qualcuna pure della Romania, in onore dell’altro nuovo acquisto, l’attaccante Mateut.

Ci mettiamo 10 minuti scarsi per capire che uno così, a Reggio Emilia, non lo avevamo mai visto.

Nell’uno contro uno è imprendibile, vede il gioco e sa sempre quando è ora di saltare l’uomo o di servire un compagno.

Il primo tempo lo passiamo a cercare un varco nella difesa della Cremonese.

Padovano e Morello si dannano l’anima. Lottano su ogni pallone ma qualche volta si capisce che non sono sulla stessa lunghezza d’onda del portoghese.

Non c’è problema.

Ci sarà tempo per affinare l’intesa.

Nel secondo tempo si attacca nella porta sotto la curva sud, quella della tifoseria più calda di tutto il Mirabello.

E’ passato poco più di un quarto d’ora quando Mateut appoggia un pallone verso Morello. L’attaccante granata sembra in ritardo sul pallone ma con un notevole gesto atletico si allunga in scivolata e riesce a toccare il pallone sul vertice destro dell’area di rigore della Cremonese.

E’ qui che si trova Paulo Futre.

Riceve palla, accelera lasciando sul posto il suo avversario diretto.

Entra in area, finge il tiro mandando “al bar” un altro difensore grigiorosso per poi rientrare sul sinistro.

A quel punto un altro difensore dei lombardi si avventa su di lui per impedirgli la conclusione.

Non fa in tempo. Paulo Futre scarica un sinistro all’angolo basso del portiere della Cremonese Turci.

Non ricordo un momento d’estasi superiore a quello.

Sicuramente non per una partita di calcio.

Avete presente la sensazione di quando il destino, le stelle o Dio si sono improvvisamente ricordati di te e ti fanno il regalo più grande che puoi desiderare in quel preciso momento ?

Ecco, la sensazione era quella.

Paulo Futre a Reggio Emilia.

Esordio e gol.

Mi stavo ancora crogiolando con quei pensieri, con quel “godimento puro” che vedo Paulo ricevere palla sul settore di destra, quello da cui praticamente sono partite tutte le sue azioni e le sue iniziative.

Se la porta avanti con il sinistro, rubando il tempo per l’ennesima volta al suo controllore diretto Pedroni.

Non si sa se è per l’umiliazione dell’ennesimo dribbling subito, se è per gli evidenti limiti calcistici o semplicemente perché pensa che Futre vada fermato, comunque e in ogni modo.

Fatto sta che la sua entrata è brutale, fuori tempo completamente e degna non della serie A ma di un campetto di amatori della domenica mattina.

Per lui arriva il cartellino rosso diretto ma in quel preciso momento ne a me ne agli altri 20 mila presenti importa più di tanto.

Paulo Futre è sul terreno di gioco e sta urlando dal dolore.

Non riesce ad alzarsi e non riesce neppure a sollevare da terra la sua gamba destra.

Si trascina fuori dal campo, strisciando sull’erba del Mirabello.

Non ci vuole un genio per capire che NON E’ un infortunio normale.

La partita riprende. Mateut segna il gol del due a zero che ci regala la prima vittoria in campionato.

Ma non c’è nessuno che riesce a gustarla fino in fondo.

A dieci minuti dal termine si è spenta la luce.

Ora non ci resta che aspettare … sperando che il buio non sia per sempre.

 

Per Paulo Futre c’è la rottura del tendine rotuleo.

Un anno intero lontano dai campi di calcio.

Quando torna non è più lo stesso giocatore.

Se ne accorgono tutti. Lui per primo.

Quel passo felpato, quel cambio di ritmo o di direzione non ci sono più.

Tecnica, visione di gioco e quel suo magico sinistro sono rimasti quelli di prima.

Ma prima era un fenomeno, ora è “solo” un eccellente giocatore.

Con la Reggiana nella stagione successiva riesce a mettere insieme 12 presenze e 4 gol.

Non sufficienti per evitare la retrocessione dei granata al termine di quella seconda stagione in Serie A.

Al Milan, campione d’Europa in carica, Futre piace parecchio.

Decidono di aggregarlo in una tournèe di fine stagione nell’est asiatico.

Probabilmente aiutato dai ritmi blandi e da partite contro avversari più che abbordabili, Paulo Futre incanta tutti. Il Milan gli offre un contratto.

Bastano però poche settimane per capire che il suo ginocchio, ai ritmi serrati del campionato più bello e difficile del pianeta, non può reggere.

Davanti ha giocatori come Weah, Baggio, Savicevic e Simone.

Giocherà una sola partita, l’ultima di campionato contro la Cremonese, prima di lasciare, ad una manciata di minuti dalla fine, il posto a Roberto Baggio.

In Inghilterra al West Ham, poi il romantico ritorno all’Atletico Madrid e infine una stagione in Giappone.

Niente da fare.

Futre non ce la fa più e a 32 anni è costretto a dire basta.

In Italia non ha lasciato il segno e fuori da Reggio Emilia se lo ricordano in pochi.

Ma provate a chiedere di lui ad un tifoso di calcio portoghese o ad uno dei “Colchoneros” dell’Atletico Madrid … penserete che stiano parlando di Diego Armando Maradona.

Invece parlano di lui, di Paulo Futre.

… quello che forse, al genio di Villa Fiorito, ha assomigliato più di tutti.

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ANEDDOTI E CURIOSITA’

All fine della sfortunata esperienza milanista Paulo Futre va in Inghilterra a giocare nel West Ham.

Dopo un buon precampionato arriva la partita d’esordio in campionato contro l’Arsenal.

Le squadre sono negli spogliatoi per prepararsi al match.

Paulo Futre è ovviamente tra i titolari ma si accorge che la maglia con il numero 10 è stato assegnata a John Moncur.

Per lui c’è quella con il numero 16.

“Non se ne parla neppure !” grida inferocito Futre. “O mi date il mio numero 10 o io non scendo in campo” minaccia il fantasista portoghese.

Harry Redknapp, manager degli Hammers, non sa più che pesci pigliare.

“Ok Paulo, oggi giochi con il 16 e dalla prossima partita vediamo di risolvere la cosa” prova a convincerlo il manager inglese.

Niente da fare. Futre si riveste e se ne va.

Due giorni dopo si presenta in sede addirittura con i suoi legali disposto a sborsare 100.000 sterline per avere la “sua” maglia.

“Eusebio aveva il 10, Pelé il 10, Maradona il 10, Zico il 10 e Paulo Futre ha SEMPRE giocato con il 10 !” dirà in quell’incontro il portoghese.

Alla fine le parti riescono a trovare una soluzione.

E’ lo stesso Futre a raccontare che “Moncur era un accanito giocatore di golf. Io avevo una villa ad Algarve nei pressi del più bel campo di golf di tutto il Portogallo. Gli dissi che gliela avrei messa a disposizione ogni volta che voleva … purché mi consegnasse la maglia numero 10”.

Alla fine Moncur accetta … anche se non utilizzerà mai la villa visto che Futre rimase agli Hammers solo per pochi mesi …

 

Il soggiorno inglese non fu certo fortunato per Futre, costantemente alle prese con infortuni di varia natura, ma il portoghese ha sempre parlato benissimo del suo periodo con gli Hammers.

“Intanto al West Ham non esistevano i ritiri e i ritrovi in Hotel il giorno prima del match. E poi gli allenamenti erano quanto di più divertente mi era capitato in carriera. Harry Redknapp dopo un po’ di stretching e di riscaldamento ci divideva in due squadre: gli inglesi contro gli “stranieri. Erano partite tiratissime e la miglior preparazione possibile alle partite ufficiali”.

 

Lo stesso Harry Redknapp ammette che “Paulo Futre è tra i 10 forti calciatori che io abbia mai visto in azione. In allenamento a volte ci fermavamo increduli ad ammirare le giocate che era in grado di fare”.

 

Arrivato allo Sporting Lisbona nel 1984 a soli 11 anni (e con un tragitto quotidiano di due ore dal suo paese natio di Montijo) quando Paulo ha solo diciotto anni, arriva una importante offerta del Porto.

“Allo Sporting mi davano 800 escudos all’anno. Il Porto me ne offriva 9000. Andai dal Presidente e gli dissi che per 6000 escudos sarei rimasto con loro. Mi disse che ero matto a pretendere una cifra del genere. Non mi restava altra scelta che andarmene. Lo feci molto a malincuore perché allo Sporting trascorsi sette anni meravigliosi”.

 

Al suo arrivo all’Atletico Madrid, nell’estate del 1987, Futre trova sulla panchina dei “Colchoneros” l’argentino Cesar Menotti, l’uomo che meno di dieci anni prima guidò la nazionale biancoceleste al suo primo titolo mondiale.

Dopo un ottimo inizio (“Futre sembra una miniatura del Subbuteo. Non fa a tempo a cadere in terra che si rialza immediatamente. E’ un portento”  dirà di lui il carismatico Mister argentino) la situazione tra i due però non tarda a degenerare.

Futre accusa Menotti di manie di protagonismo e di scarsa onestà nei suoi confronti (“adesso mi mette in panchina, poche settimane fa diceva che più forte del sottoscritto c’era solo Maradona. Un ipocrita ecco cos’è !”) dirà del manager argentino in più di un’intervista.

Altrettanto tagliente la risposta di Menotti. “Futre ? il piede destro di Maradona è meglio dei due di Futre”.

L’ultima parola però la ebbe Futre che nell’Atletico giocò altre cinque stagioni mentre “El Flaco” se ne andò prima della fine di quella Liga.

 

Al termine della vittoriosa finale con il Porto in Coppa dei Campioni Futre è uno dei calciatori più ambiti di tutto il panorama mondiale.

E mentre il Milan di Berlusconi ha acquistato il giocatore che in quella stagione vincerà il pallone d’oro (Ruud Gullit) il Presidente dell’Inter Pellegrini punta proprio su Paulo Futre (che in quella classifica arriverà secondo per un solo voto) per contrastare i cugini rossoneri.

L’Inter ha raggiunto l’accordo economico con il Porto.

L’affare sembra concluso. Futre s’incontra a Milano con Pellegrini e i suoi procuratori e inizia già a circolare la notizia che il contratto sia stato stipulato.

Quando tutto sembra ormai definito entra in scena il controverso Presidente dell’Atletico Madrid Jesu Gil y Gil.

“Preparate voi il contratto” dirà Gil ai procuratori di Futre. “Io lo firmerò senza cambiare neppure una virgola”.

E così accadde. Nel contratto c’è anche una Porsche fiammante espressamente richiesta dal calciatore portoghese.

Alla mattina Paulo Futre era un calciatore dell’Inter … la sera stessa fu presentato come nuovo acquisto dell’Atletico in un locale di Madrid davanti a cinquemila persone …

 

Ps: ancora oggi Paulo Futre racconta divertito di quel contratto stipulato con il Presidente Jesus Gil. “Sono stato uno scemo … perché una Porsche ? Avrei dovuto chiedere una Ferrari !!!”

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JOAQUIM AGOSTINHO: La bici è il mio aratro.

di REMO GANDOLFI

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E’ la quinta tappa della “Volta a Algarve”, breve corsa a tappe che si corre in Portogallo nella regione che da il nome alla corsa.

Non è una gara di primissimo piano del calendario internazionale e non c’è un parterre eccezionale.

Ma c’è lui, l’idolo da quasi un ventennio di tutti i portoghesi innamorati di ciclismo: Joaquim Agostinho.

Agostinho trionfa nella prima tappa e veste i panni di leader della classifica quando si disputa la 5a tappa.

E’ una tappa interlocutoria con l’arrivo in volata a Loulè.

I ciclisti stanno per disputarsi la vittoria lanciati ad oltre 60 km/ora.

Agostinho non è certo uno sprinter e si disinteressa alla lotta per le posizioni d’avanguardia.

E’ a circa 300 metri dall’arrivo quando nel rettilineo d’arrivo entrano due cani, probabilmente randagi, che si sono infilati tra il numeroso pubblico.

Qualcuno riesce ad evitarli, altri non ce la fanno e sono in diversi i ciclisti a finire a terra.

Uno di questi è Agostinho.

Investe in pieno uno dei due cani e cade sull’asfalto pesantemente.

C’è la solita concitazione nel capire chi tra i tanti corridori a terra ha avuto la peggio.

Joaquim Agostinho è il più grande ciclista portoghese ed è amatissimo dai suoi connazionali.

Quando ci si accorge che anche lui è tra i ciclisti coinvolti nella caduta è su di lui che si concentrano istintivamente gli sguardi di tutti gli spettatori.

Agostinho è coperto di abrasioni.

Riesce però a rialzarsi, anche se evidentemente intontito dalla caduta.

Fa un segno ai tifosi come per dire che è tutto ok.

I suoi compagni lo aiutano a risalire in sella e con loro percorrerà le poche centinaia di metri che lo dividono dalla linea di arrivo.

Da questo momento in poi si aprirà una delle pagine più assurde, vergognose e imbarazzanti della storia di questo sport

e di questo peraltro meraviglioso paese che però, in seguito a quello che andremo a raccontarvi, un giornalista portoghese dell’epoca non esitò a definire “arretrato e incompetente”.

Agostinho non viene soccorso, messo su un’ambulanza e portato in ospedale per accertamenti.

Non c’è nessun medico di corsa a visitarlo.

Viene medicato sommariamente e poi viene accompagnato in albergo.

Gli viene data una borsa del ghiaccio e gli viene consigliato di … riposare.

Dopo due ore però i dolori alla testa diventano lancinanti, insopportabili.

E’ solo a quel punto che finalmente nello staff dello Sporting, la sua squadra ciclistica, ci si decide ad accompagnarlo all’ospedale di Faro, il capoluogo della Regione.

Gli vengono fatti i raggi x e la risposta è devastante.

C’è una frattura dell’osso parietale del cranio.

Solo che lì, nella città più importante della più importante zona turistica del Paese non esiste un reparto di neurochirurgia.

Viene caricato su un ambulanza e portato a Lisbona, che dista qualcosa come 300 km.

Durante il tragitto arriva una emorragia cerebrale.

Quando arriverà all’ospedale da CUF a Lisbona Agostinho sarà già in coma.

Sono ore frenetiche dove si cerca disperatamente di porre rimedio ad una situazione ormai irrimediabilmente compromessa.

Agostinho viene operato.

La notizia delle sue condizioni di salute è ormai di dominio pubblico.

Gli attestati, le telefonate e i telegrammi che arrivano per lui sono migliaia.

Il popolo portoghese si stringe intorno al suo amato campione così come tutto il mondo del ciclismo. Luis Ocana, il grande campione spagnolo e suo rivale in tanti Tour de France sarà tra i più assidui nel far sentire la sua vicinanza e il suo appoggio.

Agostinho è un uomo amabile, ben voluto da tutti nell’ambiente.

Anzi, forse il suo limite è stato proprio questo.

Una gentilezza d’animo, una correttezza e una sportività esemplari, anche se talvolta non accompagnate da quella rabbia agonistica che spesso può fare la differenza.

Tutti i tentativi sono vani. Si parla di 3 forse 4 operazioni ravvicinate ma senza risultato.

A 48 ore da quella rovinosa caduta Joaquim Agostinho verrà dichiarato clinicamente morto.

La sua tempra però è incredibile.

Un uomo che da sempre ha lavorato la terra, che a 18 anni è stato mandato dal suo paese a combattere in Mozambico una assurda guerra coloniale che gli ha rubato due anni e mezzo della sua vita e che ha fatto della fatica in bicicletta la sua professione non si arrende tanto facilmente.

Questa incredibile forza farà si che Agostinho lotti contro la morte per più di 8 giorni da quella maledetta caduta, con il suo cuore che proprio non vuole saperne di fermarsi.

Giorni nei quali la moglie Ana Maria insieme ai due figli e a tutti gli appassionati di ciclismo continuano a sperare in un miracolo.

Miracolo che non si compie.

Anche se di “miracoli” non ce ne sarebbe stato bisogno se una serie incredibile e imperdonabile di errori non avessero condannato Joaquim alla sua sorte.

C’è anche un precedente che non fa che aggiungere rabbia e costernazione.

Nel 1972, esattamente il 5 di maggio, Joaquim Agostinho stava correndo l’ottava tappa della Vuelta, il Giro di Spagna.

Agostinho in quella tappa cadde rovinosamente e fu vittima anche in quella occasione di una frattura alla base del cranio, molto simile a quella accadutagli 12 anni dopo alla Volta Algarve.

In quella circostanza però il ricovero immediato all’ospedale di Terragona e il tempestivo intervento dei medici scongiurò qualsiasi pericolo.

A tal punto che poco più di due mesi dopo Joaquim Agostinho fu in grado di prendere regolarmente il via al Tour de France, la corsa che più di ogni altra amava correre.

 

Joaquim Agostinho nasce il 7 aprile del 1943, in un piccolo villaggio rurale nei pressi di Torres Vedras.

E’ una famiglia di contadini, dove le braccia sono l’unica risorsa.

Ben presto inizia a lavorare nei campi con la famiglia e nel tempo libero gioca a calcio con gli amici del suo villaggio. E’ un tifoso accanito dello Sporting Lisbona e sogna un giorno di giocare per la famosa squadra a righe bianco-verdi orizzontali.

Tutti i suoi sogni di adolescente paiono infrangersi quando al diciottesimo anno di età viene arruolato nell’esercito del suo Paese e spedito in Mozambico, a combattere una inutile e sanguinosa guerra coloniale.

Vedrà la morte in faccia più volte.

In una di queste occasioni al passaggio della camionetta militare sulla quale si trova insieme ad altri commilitoni esplode una mina che uccide diversi suoi compagni e ne ferisce gravemente altri.

Joaquim rimane praticamente illeso, ricordando poi negli anni che “dopo quel giorno ho pensato che comunque sarei  sempre stato  a credito con la fortuna” …

Proprio nell’esercito scopre una predisposizione fino ad allora sconosciuta: quella per la bicicletta.

Lui una bicicletta non l’aveva mai avuta e impara a starci sopra proprio durante la sua permanenza in Mozambico.

Vengono organizzate delle gare fra i commilitoni e Joaquim primeggia regolarmente.

E’ sgraziato in bici, e fa una fatica incredibile a rimanere in equilibrio e a guidarla (cosa che lo contraddistinguerà per tutta la carriera) ma ha una potenza incredibile e in pianura e in salita è superiore a tutti di una spanna.

Quando, dopo quasi tre anni regalati alla Patria e a quella stupida guerra, ritorna in Portogallo, è più che mai convinto che dalla vita vuole qualcosa di più che dei campi da arare o delle mucche da mungere.

Si butta anima e corpo nel ciclismo.

Ma le ristrettezze economiche sono sempre le stesse di quando era partito per il fronte.

Soldi non ce ne sono e alla sua primissima gara corsa dalle sue parti riuscirà ad iscriversi all’ultimo momento … correndo su una bicicletta da donna prestatale da una  amica della sorella !

Agostinho vince quella gara praticamente “doppiando” tutti gli altri partecipanti.

Ben presto questo strapotere nelle corse locali desta l’attenzione degli “addetti ai lavori”.

Tra questi c’è Joao Roque, ex-cicilista portoghese capace in passato di vincere anche il Giro del Portogallo e che lo mette sotto contratto nel suo team, lo “Sporting Clube de Portugal”.

L’impatto di Agostinho è impressionante: vince il campionato portoghese in linea e arriva secondo al Giro del Portogallo.

I suoi risultati convincono Roque a portare Joaquim anche fuori dai confini ed è proprio durante il Giro della provincia di San Paolo in Brasile che Joaquim viene contatto dal patron della squadra professionistica francese Frimatic, il famoso Jean de Gribaldy.

Firma sul posto il suo primo contratto professionistico.

Solo un anno prima era in Mozambico a fare il soldato.

I suoi risultati sono subito eccellenti.

Ha delle lacune importanti dovute in gran parte alla sua tardiva entrata nel mondo professionistico.

E’ terrorizzato di stare nella pancia del gruppo, ha difficoltà a condurre la bici nelle curve e nelle discese e il suo stile potente ma goffo gli fanno prendere il soprannome di “Hulk” fra i colleghi ciclisti.

Però va forte, va molto forte.

Ha un fisico compatto e molto muscoloso.

A vederlo ha tutte le caratteristiche dello sprinter … solo che è tutto meno che veloce, mentre sul “passo” e in salita è un’autentica forza della natura.

In una squadra professionistica francese è in Francia, in Belgio e in Olanda che bisogna correre e per Agostinho allontanarsi dal Portogallo, dove ormai non ha più rivali, è una scelta difficile.

Sarà il grande Rapheal Geminiani che gli darà la scossa decisiva. “Vuoi essere un grande campione in Portogallo o vuoi essere un grande campione a livello Mondiale ? La scelta è tua figliolo”

A questo punto la carriera di Agostinho decolla.

Nel 1969 partecipa al suo primo Tour de France, la corsa più importante del calendario internazionale.

I risultati che ottiene sorprendono anche i suoi più convinti estimatori.

Agostinho vince due tappe e si classifica all’8° posto nella classifica generale.

Uno degli esordi più straordinari nella storia della “Grande Boucle”.

Il Tour rimarrà sempre la “sua” corsa, quella per la quale Agostinho si prepara meticolosamente e dove mette tutto se stesso. Nel resto della stagione corre il meno possibile e spesso non con la determinazione che un professionista del suo livello e valore dovrebbe avere.

Ma lui è fatto così.

Correrà per ben 13 volte il Tour riuscendo in due occasioni, nel 1978 e nel 1979 a salire sul podio.

Proprio nel 1979 arriverà il trionfo più importante, acclamato e prestigioso della sua carriera.

E’ il 15 luglio..

Il Tour arriva sulla già mitica vetta dell’Alpe d’Huez, inserita nel percorso per la prima volta nel 1952 ma che dal 1976 farà “tappa fissa” per i ciclisti della Grande Boucle.

Prima di arrivare lassù due gustosi “antipastini” come il Col de la Medeleine e il Galibier.

AI piedi della salita conclusiva c’è un gruppetto di comprimari in fuga fin dalle prime battute.

Sembra che possano essere proprio Laurent, Wellens, Nillson e Alban a contendersi la vittoria finale.

Ma fin dalla prime rampe della mitica ascesa “dei 21 tornanti” Agostinho attacca. Sa che se vuole la vittoria di tappa deve muoversi subito.

Il francese Bernard Hinault e Joop Zoetemelk, il forte scalatore olandese che duellano per la vittoria finale, decidono di non rispondere immediatamente agli attacchi di Agostinho.

Lo fa però Bernardeau, il luogotenente di Hinault, che si accoda a Joaquim.

Agostinho però non ne vuole sapere di trascinarsi dietro il francese braccio destro di Hinault.

Continua a salire di potenza finché la resistenza di Bernardeau è vinta.

Quando mancano ancora diversi chilometri di salita Agostinho raggiunge i quattro fuggitivi di giornata e li supera con estrema facilità.

Arriverà solo al traguardo dell’Alpe d’Huez, con oltre tre minuti di vantaggio su Hinault, Zoetemelk, Kuiper e gli altri uomini di classifica.

A Joaquim Agostinho è intitolato il 17mo tornante dell’Alpe d’Huez.

In carriera sfiorerà una vittoria in una grande corsa a tappe.

Accadrà al Giro di Spagna del 1974 dove chiuderà la corsa al secondo posto, a soli 11 secondi dal vincitore, il fenomenale scalatore spagnolo Josè Manuel Fuente, “El Tarangu” per tutti.

Agostinho non accetterà mai questo verdetto.

Dopo una combattutissima Vuelta che vede come protagonisti lo stesso Fuente, Agostinho e l’altro grande campione spagnolo Luis Ocana, si arriva all’ultima tappa, una cronometro individuale di 35 km che si corre a San Sebastian, nei Paesi Baschi.

Agostinho ha nei confronti di Fuente un ritardo di 2 minuti e 35 secondi.

Sembrano un abisso incolmabile ma Agostinho a cronometro è un autentico fenomeno mentre per Fuente è il suo tallone d’Achille.

Agostinho corre la crono della vita stracciando tutti gli avversari.

L’unico che in qualche modo riesce ad avvicinarsi è Ocana, secondo a poco più di un minuto.

Inizialmente ad Agostinho viene comunicata la vittoria finale, avendo recuperato per intero lo svantaggio che aveva in partenza … salvo poi ritrattare il tutto pochi minuti dopo e festeggiare Fuente come vincitore della Vuelta con soli 11 secondi di vantaggio … addirittura un secondo in meno di quelli che saranno necessari a Eddy Merckx per sconfiggere Giovan Battista Baronchelli al Giro d’Italia che si correrà il mese successivo !

Si arriva così al 1984 che Agostinho aveva già indicato come il suo ultimo anno da professionista, nonostante ci fossero per lui ancora richieste di squadre importanti.

Correre il suo 14mo Tour de France e poi chiudere la carriera dedicandosi a scoprire nuovi talenti.

Non sarà così purtroppo.

Per colpa di un cane randagio si, ma anche e soprattutto per colpa di una gestione vergognosa e inconcepibile di quanto accaduto il 30 di aprile in quella corsa alla Volta a Algarve.

Infine, una delle frasi più belle di Agostinho, nella quale racchiude il suo amore per la bici e il suo personale concetto di fatica e sacrificio.

“Quando penso agli anni di guerra in Mozambico mi viene da ridere quando mi dicono che è una fatica sovrumana scalare il Mont Ventoux”.

 

Questo pezzo è tratto da:

http://www.urbone.eu/obchod/ruote-maledette-storie-tragiche-sul-ciclismo

STAN COLLYMORE: Storia di un talento fragile.

di REMO GANDOLFI

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“Era il 20 gennaio del 1999.

Ricordo quel giorno benissimo.

Perché quel giorno fu l’inizio della fine.

Ero nella vasca da bagno della casa che avevo appena comprato a Birmingham.

Una vasca da bagno rosa. Non è colpa mia, lo giuro !

C’era già quando acquistai la casa e non avevo ancora avuto il tempo di cambiarla.

Ero completamente a pezzi, svuotato, privo di energie.

Me ne stavo lì dentro, immobile continuando a far scendere acqua calda.

Non sarei più voluto uscire da lì.

Era già un po’ di tempo che appena finiti gli allenamenti me ne tornavo a casa.

Niente golf o visite al pub con i compagni di squadra.

Arrivavo a casa, accendevo la tv e poi dormivo o sonnecchiavo sul divano anche fino alla mattina successiva.

Fino a quando mi alzavo, controvoglia, per andare all’allenamento.

Chiamai il fisioterapista della squadra.

Mi consigliò di farmi vedere da un medico.

Ci andai e l’unica cosa che mi disse fu “Figliolo, sabato fai due gol contro il Fulham e tutto il tuo disagio passerà”.

Fu tutto quello che seppe dirmi.

Mentre io ero all’inizio di uno stato depressivo che mi condizionerà per tutto il resto della mia carriera … e forse per il resto della mia vita”.

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Stan Collymore nasce nel gennaio del 1971. Il padre è originario delle Barbados la mamma è inglese.

A 18 anni è nel settore giovanile del Wolverhampton.

Sembra pronto a spiccare il volo ma i “Wolvers” decidono di non offrirgli un contratto professionistico.

L’unica alternativa per Stan è lo Stafford Rangers.

Un team di Conference, una lega semi-professionistica inglese.

Qui però Stan inizia a far vedere a tutti il suo valore.

Segna tanti gol, ma soprattutto segna gol “belli”. E difficili.

Sarà la sua peculiarità negli anni a venire.

Per lui c’è una pletora di squadre pronte ad offrirgli un contratto professionistico.

La spunta il Crystal Palace, team di Premier dove Stan fa tutto il suo apprendistato.

Le chance però sono scarse. La coppia d’attacco è formata da Mark Bright e da Ian Wright, due eccellenti attaccanti con una intesa quasi telepatica.

Collymore viene mandato in prestito al Southen United nel novembre del 1992.

Il Southend è nella serie cadetta ma con un piede e mezzo nella Terza divisione inglese, allora chiamata “Second Division”.

18 reti in 31 partite di Collymore trasformano la squadra che raggiunge una spettacolare quanto sorprendente salvezza.

AL termine di quella stagione arriva un’offerta del Nottingham Forest.

Due milioni di sterline per fare di Collymore l’uomo con il difficile compito di riportare il Forest in Premier dopo la retrocessione della stagione appena conclusa, l’ultima con Brian Clough sulla panchina dei “rossi” due volte Campioni d’Europa.

E’ la grande scommessa di Frank Clark, il nuovo manager del Nottingham.

Stan Collymore non delude le attese.

Segna 19 reti in campionato e il Nottingham Forest ritorno immediatamente in Premier.

Fino a quel momento Collymore ha dimostrato che nella serie cadetta è un’autentica iradiddio. E’ potente, tira con entrambi i piedi e nonostante i suoi 188 centimetri è agile e molto bravo con la palla fra i piedi.

Ora resta da vedere come queste sue qualità impatteranno nella massima serie inglese, che sta rapidamente diventando uno dei campionati più ricchi e competitivi del pianeta.

La risposta è che Stan Collymore segnerà ancora più reti (22) contribuendo in maniera decisiva a portare il Nottingham ad un terzo posto finale che sa di miracolo e che vale il ritorno in Europa per i “rossi” della foresta di Sherwood.

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“Stan the man” è l’uomo più desiderato dai grandi club inglesi e anche in Europa ci sono diversi grandi club interessati al suo cartellino.

A metà di quella stagione sembra che il suo passaggio al Manchester United sia cosa fatta. Alex Ferguson è un grande ammiratore di Collymore e con Mark Hughes ormai al crepuscolo di una brillante carriera occorre rinforzare l’attacco.

A fine campionato però sarà il Liverpool a vincere l’asta.

Per farlo i Reds di Anfield dovranno sborsare la cifra di 8.5 milioni di sterline, record assoluto per un trasferimento nel Regno Unito.

Al Liverpool nella stagione appena conclusa è esploso un giovane ragazzo locale, Robbie Fowler. Con un Ian Rush ormai al capolinea, Stan Collymore potrebbe essere il partner ideale per riportare i Reds sul tetto d’Inghilterra.

L’inizio della stagione vede il Liverpool protagonista salvo poi cedere il passo a Newcastle e Manchester United che si contenderanno il titolo fino alle ultimissime giornate.

Per i Reds arriva un terzo posto di prestigio e la coppia Fowler-Collymore sarà la più letale di tutta la Premier (42 reti).

Anche la stagione successiva sarà di buon livello. Un quarto posto finale e una discreta stagione da un punto di vista realizzativo.

Per Collymore però iniziano i primi problemi.

La relazione con Roy Evans, il manager dei Reds, non è delle migliori.

Collymore non è esattamente uno che ama allenarsi duramente.

Sa di avere talento, tanto talento.

Ed è sempre più convinto che questo sia più che sufficiente per ottenere quello che vuole.

Ama sempre di più la vita notturna e con questa gli eccessi.

Inizia a perdersi. E arrivano i primi segnali di qualcosa difficile da capire e interpretare.

Al Liverpool se ne accorgono e paiono disposti a dargli aiuto.

Ma nella primavera di quella stagione, persi tutti gli obiettivi, compresa una semifinale di Champions League contro il Paris Saint Germain, il Liverpool decide che può prescindere da Collymore.

Bravo per carità, ma sempre più difficile da gestire, in campo e fuori.

E poi dalla giovanili sta emergendo un ragazzino con un talento fuori dal comune.

Si chiama Michael Owen.

Non servirà spendere milioni di sterline per rimpiazzare Collymore.

Il suo successore viene da Melwood, che non è ne in Francia, ne in Italia ne in Sud America.

E’ dove il settore giovanile del Liverpool gioca e si allena.

A questo punto arriva il trasferimento dai Reds all’Aston Villa.

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Stan Collymore è un uomo felice.

L’Aston Villa è la sua squadra del cuore, quella che è stata di Gary Shaw e Peter Withe, i suoi idoli incontrastati dell’infanzia.

I “Villans” investono sette milioni di sterline per lui.

L’obiettivo del manager Brian Little e quello della società è di tornare ai vertici del calcio inglese.

Le cose non vanno per niente come sperato.

La squadra fa una gran fatica ad esprimersi a livelli accettabili nonostante la presenza in squadra di giocatore del valore di Gareth Southgate, Steve Staunton, Savo Milosevic, Dwight Yorke e di un giovanissimo Gareth Barry.

Collymore è la grande delusione.  Segna con il contagocce e alcune delle sue prestazioni sono addirittura abuliche. Sembra un corpo estraneo alla squadra.

A febbraio, con la squadra pericolosamente vicina alla zona retrocessione, Little rassegna le dimissioni e al suo posto arriva John Gregory.

Un classico sergente di ferro.

Collymore sembra risvegliarsi dalla sua apatia.

Nel primo match con il nuovo manager sulla panchina dei Villans Stan Collymore segna una doppietta nel vittorioso match interno contro il Liverpool.

Sembra l’inizio di un nuovo, felice periodo nella vita di Collymore.

Ha solo 27 anni, l’età della piena maturazione psico-fisica.

Non segnerà più un solo gol in campionato fino al termine della stagione.

Si guasta anche il rapporto con John Gregory.

E’ un manager vecchia scuola, un duro, e dei problemi personali di Stan il cui stato depressivo è ormai conclamato non gliene può interessare di meno.

Nel novembre del 1998, dopo l’eliminazione in Coppa UEFA contro il Celta di Vigo, Gregory porta al Villa Park un nuovo centravanti: è Dion Dublin, reduce da una strepitosa stagione con il Coventry chiusa come capocannoniere del campionato insieme a Chris Sutton e Michael Owen.

Collymore a questo punto diventa una riserva e le sue apparizioni in prima squadra sempre più limitate.

E a questo punto sprofonda sempre di più nel suo buco nero.

“Ero un disastro totale. Non riuscivo ad alzarmi dal letto. Non riuscivo a programmare le mie giornate. Fare una doccia o vestirmi erano imprese autentiche. Sapevo che non potevo andare avanti così” ricorda lo stesso Collymore di quel periodo.

Viene ricoverato per diverse settimane in una clinica specializzata in malattie mentali, il Priory Hospital a Roehampton.

Quando rientra l’Aston Villa lo cede al Fulham in prestito ma Stan è ormai l’ombra del giocatore per il quale solo poche stagioni prima si era scatenata un’asta a suon di milioni di sterline.

L’Aston Villa lo lascia libero.

A farsi avanti è il Leicester di Martin O’Neill.

Collymore sembra finalmente rinato.

Nel Leicester viene schierato nel ruolo che ama di più: quello di seconda punta a fianco di un “target man” come Emile Heskey e con la possibilità di muoversi su tutto il fronte d’attacco.

L’impatto è strepitoso.

https://youtu.be/zofTxLijiHs

La vittoria contro il Sunderland per 5 reti a 2 sarà descritta da Martin O’Neill come “la partita perfetta”.

Stan segna una tripletta.

Sembra rinato.

… per l’ennesima volta !

Ma è la solita effimera illusione.

Stavolta non solo per colpa sua.

Martin O’Neill a fine stagione lascerà il Leicester per approdare al Celtic di Glasgow dove scriverà alcune pagine memorabili nella storia di questo glorioso club.

Stan rifarà le valigie, approdando tra le altre destinazioni anche al Real Oviedo in Spagna.

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Ci saranno quasi 2 mila tifosi ad accoglierlo al suo arrivo nelle Asturie.

Cinque settimane e tre sole partite dopo Stan Collymore, a 30 anni, deciderà di lasciare definitivamente il calcio.

 

ANEDDOTTI E CURIOSITA’

 

Uno dei pochi allenatori che sia riuscito ad ottenere continuità da Collymore è stato il vulcanico Barry Fry, suo manager al Southend.

“Un giorno dissi che Stan avrebbe giocato in Nazionale. La partita dopo se ne andava in giro per il campo con lo stesso entusiasmo con il quale di solito andiamo dal dentista !” ricorda Fry.

“Però vi garantisco che gli ho visto fare cose che non ho mai visto fare a nessun altro” garantisce lo stesso Fry.

 

Al Nottingham Forest è dove Stan Collymore ha giocato gli anni migliori della sua carriera. Ma anche qui è sempre stato al centro di parecchie controversie.

Il suo atteggiamento egocentrico e sempre un tantino arrogante dopo pochi mesi lo aveva già alienato dalle simpatie di quasi tutti i suoi compagni.

Furono in molti, specie durante la sua ultima stagione al Forest, a notare che dopo un gol segnato da Collymore era difficile vedere più di un compagno o due andarlo a festeggiare.

 

Molto bello un cartello esposto davanti alla St. Saviour ‘s Church di Nottingham dopo la cessione di Collymore da parte del Forest al Liverpool.

“Collymore vi ha abbandonato ma ricordate che Dio non lo farà mai”.

 

Robbie Fowler è invece il primo a riconoscere le grandi doti di Collymore. “In assoluto il mio partner ideale. Eravamo perfettamente complementari. A me piaceva rimanere nei pressi dell’area di rigore mentre Stan amava muoversi su tutti il fronte d’attacco. Nelle due stagioni insieme segnammo quasi 90 gol e credo che questo dica molto più di tante parole” ricorda il grande attaccante dei Reds.

 

Una delle partite più belle giocate da Collymore al Liverpool fu sicuramente quella del famoso 4 a 3 sul Newcastle di Kevin Keegan che diede una spallata importante alle ambizioni di titolo dei Magpies.

In quel match Collymore fu semplicemente inavvicinabile … e la dimostrazione più lampante di un potenziale enorme gettato alle ortiche.

https://youtu.be/WuREx61zlto

 

Lo stesso John Gregory, il manager di Collymore per quasi tutto il suo periodo all’Aston Villa e con il quale ebbe continui screzi è il primo a riconoscere che “Collymore è uno dei più forti attaccanti espressi dal calcio inglese negli ultimi 40 anni. Aveva tutto per giocare a calcio ai più alti livelli. Potenzialmente un altro Thierry Henry”.

 

Fuori dal campo le “imprese” di Collymore sono state sempre più eclatanti di quelle nel rettangolo di gioco.

Durante una vacanza con il Leicester a La Manga, in Spagna, Collymore decise di divertirsi utilizzando un estintore con il quale mise a soqquadro l’intero locale … finendo un’altra volta sulle prime pagine dei tabloid britannici !

… era arrivato al Leicester da una settimana.

 

Una delle tante “fiamme” di Stan Collymore è stata la modella e star della tv Ulrika Jonsson. La loro “liason” terminò in un locale a Parigi dove Stan Collymore stese con un pugno la fidanzata.

 

Nel 2004 Stan Collymore finirà sulle pagine dei tabloid inglesi per la sua partecipazione ad un “dogging” a Cannock Chase. I “dogging” sono in pratica orge in posti pubblici dove ci si dà appuntamento … chi per partecipare attivamente chi semplicemente per assistere (come nel caso di Collymore). Questo ennesimo scandalo farà perdere a Collymore l’impiego presso la Bbc come commentatore sportivo.

 

Durante un’intervista su un quotidiano inglese insieme all’ex-gemello Robbie Fowler ai due viene stato chiesto se ci fosse stato un posto per loro nell’attuale attacco del Liverpool di Jurgen Klopp.

Fowler: ” non avrei una sola chance al mondo”

Collymore: ”beh, lo Stan Collymore dei primi anni di carriera sarebbe un titolare indiscutibile !”

 

Nella sua autobiografia “Stan: Tackling with my demons” Collymore ammette che in passato gli fu diagnosticato un “disturbo borderline della personalità”.

 

… si era capito vero ?

ENRICO BOVONE: Sulle soglie della notte

di SIMONE GALEOTTI

BOVONE 2

Siena era cambiata da quel giorno del 1973 quando già da campione affermato si era infilato la canotta verde della Mens Sana con il numero 12. Se l’aspettava. Tutto era cambiato. Il mondo intero. Perfino lui. Certo, era invecchiato abbastanza bene, si era tenuto in forma con un minimo di attività fisica, solo in viso mostrava più anni di quanti in realtà ne avesse veramente. Colpa di una piega infelice che gli distorceva la bocca. L’aveva continuamente nascosta sotto quella barba da rivoluzionario errante, così alto, così magro, eppure, andando avanti, si cominciava a notare fin troppo bene.

 

 

 

Era depresso Enrico, piegato da una malinconia strana che gli impediva di valutare obiettivamente la piega degli eventi e pensare alle conseguenze di un gesto che lo mise di fronte a un nugolo di spettri, abili nel girare feroci intorno a lui, e lui nel vederli avrebbe voluto mostrare ai giovani che il tempo lavora troppo duro i fianchi degli uomini, laggiù, solo, dentro la sua Fiat 600 solcata da deboli rivoli di pioggia, parcheggiata alle pendici di un bosco, dentro i rumori smorzati di animali lontani, fra lo stormire delle foglie e il cigolio dei rami scossi da un vento maleducato di primavera. Un bosco fatto apposta per pregare, puntellato di antichi conventi, laddove si poteva percepire l’eco di esortazioni al bisbiglio di Laudes sillabate. Sul sedile del passeggero c’era un foglio di quaderno su cui Enrico aveva scritto le sue ultime volontà, e, accanto al foglio, sopra un plaid ripiegato in quattro, una Beretta calibro 3.75.

 

Enrico Bovone ormai viveva a Siena, alla periferia sud della città, di questa città spesso diffidente e refrattaria ma evidentemente, quella luna che affoga ogni sera dietro il profilo gotico del Duomo lo aveva rapito al punto tale da restarci per sempre.

 

Enrico Bovone è il ritratto di un giocatore fuori dalle righe, non fosse altro perché mandava a quel paese un bel po’ di luoghi comuni sui campioni – o presunti tali – dello sport. Uno di quei tipi che tutti frequentano per anni ma che in realtà nessuno conosce veramente a fondo. E pare strano a dirsi per un uomo di due metri e dieci, tuttavia l’impressione era quella di trovarsi davanti a una sorta di gigante invisibile, nonostante sia stato protagonista nel basket italiano per oltre quindici anni. La sua è una storia senza lieto fine partita da Novi Ligure, in Piemonte, dove nacque nel 1946. Un ragazzo e un atleta problematico, di difficile collocazione. Difficile piazzarlo, quel lungagnone strampalato, che sorrideva di rado, affatto portato ai teatrini, ai proclami, chiuso in quella bolla d’aria perennemente annoiata.

 

Eppure, Enrico Bovone ha marcato un’epoca. Non fosse altro per il fatto di essere stato il primo pivot moderno del nostro basket che Aldo Giordani definì il “Gigantissimo”. Bovone un tranquillo studente quattordicenne che tale Nico Messina, insegnante di educazione fisica, scoprì indirizzandolo al basket, destinazione Tortona, in cui restò al centro di una singolare sfida automobilistica tra i dirigenti di Simmenthal Milano e Ignis Varese, accorsi per accaparrarsi la giovane promessa. Le narrazioni riferiscono che Cesare Rubini rimase bloccato in un ingorgo autostradale e così Bovone finì a Varese dove vinse una Coppa delle Coppe nel 1967.

 

Bovone pareva l’uomo destinato a diventare il giocatore faro anche della nazionale, il leader, l’uomo simbolo di un movimento sportivo ormai esploso al pari dei Beatles e dei Rolling Stones. Invece Bovone si limitò al compitino senza mai assurgere a quel fenomeno che molti auspicavano, nonostante dal punto di vista tecnico migliorò notevolmente con il passare delle stagioni, costruendosi, tra l’altro, un gancio sotto canestro di singolare bellezza.

 

Dopo Varese, il passaggio a Milano, sponda All’Onestà, poi Udine dove nella stagione 1971-72 risulterà il miglior marcatore e rimbalzista del campionato. E nel 1973 l’approdo a Siena nella “Sapori” Mens Sana guidata in panchina dal totem Ezio Cardaioli, per formare con l’americano Carl Johnson una coppia di lunghi fenomenale. Una volta chiusa la carriera da giocatore, nel 1979, vestirà per qualche mese il ruolo di direttore sportivo della società senese, quanto bastò per rendersi conto che di pallacanestro ne aveva ormai abbastanza.

 

Il fatto è, che a lui, per sua stessa ammissione, di fare sfracelli non importava un bel niente. Anzi, a dirla tutta, senza quei duecentodieci centimetri che si portava appresso, Enrico Bovone non avrebbe mai messo piede in un palazzetto, né da giocatore, né tantomeno da spettatore.

 

Dinoccolato, introverso, vagamente assente, dava l’idea di trovarsi in mezzo a un campo di basket più per caso che per volontà. Era accaduto, non voluto, un po’ come quei figli concepiti senza desiderio di procreare. Che segnasse un canestro o che gli venisse fischiato un fallo, contro o a favore, mostrava la solita faccia languorosa e impenetrabile. Oppure, quando durante i time out se ne stava impalato ad ascoltare l’allenatore, le mani sui fianchi, una gamba leggermente piegata, con l’espressione di chi è terribilmente stufo e avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.

 

Dove? a fare un lungo giro da solo in macchina, mentre fuori piove. Proprio così, visibilmente seccato, rispose a una domanda di un giornalista su cosa gli piacesse fare una volta uscito dal campo.

 

Si sposerà e resterà a Siena, dove aprirà un’edicola in un paesino del circondario, dopodiché poco a poco l’oblio, il divorzio, le liti, l’allontanamento alla sua maniera, silente, senza farsi notare dagli amici, dal canto della Verbena, dal palazzetto.

 

Qualcuno ricorda di averlo visto negli ultimi giorni rispondere al saluto dei conoscenti con aria distratta, la mente già rivolta all’ultimo atto di un’esistenza recalcitrante.

 

La mattina di martedì 2 maggio 2001 un automobilista di passaggio notò un auto con lo sportello aperto e a terra un uomo sdraiato su un telo al limitare del bosco. Enrico Bovone si era suicidato sparandosi un colpo alla testa, nei pressi di un monastero dove le candele friggono la cera della devozione ma dove, fuori, negli anfratti di querce secolari, spregiudicati spiriti isterici ti fanno rimpiangere di essere ancora vivo, di rincorrere Bacco e Venere, invitandoti a sottrarti al presente e al futuro.

BOVONE

 

 

PAULO CESAR LIMA “CAJU”: Talento e ribellione.

di REMO GANDOLFI

CAJURIVELINO

Quando ho iniziato la mia battaglia contro la discriminazione razziale che da sempre subisce la gente di colore qui in Brasile tutti hanno iniziato a guardarmi come si guarda un matto.

“Ma chi te lo fa fare ? Sei uno dei calciatori più forti del Brasile intero, hai appartamenti in proprietà e tanti soldi sul conto corrente … lascia combattere questa guerra a chi ha davvero bisogno di farlo”.

Questo, più o meno, e quello che mi dicevano tutti quanti.

Compresi i miei compagni di squadra e quelli della Nazionale brasiliana.

Ma proprio qui sta il punto.

Proprio perché sono “CAJU”, perché gioco nel Brasile e perché sono conosciuto in tutto il Paese che ho nolte più possibilità di essere ascoltato di un povero padre di famiglia disoccupato e magari con 4 o 5 figli da mantenere.

Questa è la mia battaglia.

La stessa che qualche anno fa hanno combattuto Martin Luther King, Malcolm X e i ragazzi delle “Black Panthers” negli Stati Uniti d’America.

La stessa battaglia che sta combattendo con le sue canzoni il mio amico Bob Marley.

Quando poco tempo fa raccontai ad una testata giornalistica che Bob sarebbe venuto qua in Brasile a portare il suo personale contributo nella lotta di rivendicazione di tutti quei diritti di cui vengono quotidianamente privati i neri del Brasile ho ricevuto in cambio un sorrisino di compatimento.

Del tipo “Seee … Bob Marley … uno dei più famosi musicisti del pianeta che viene in Brasile per sostenere la lotta di quell’esaltato di Paulo Cesar Lima …”

Peccato invece che esattamente fra due giorni Bob Marley ed un paio dei suoi amici Wailers arriveranno qua a Rio per una serie di incontri, scuole comprese, dove parleremo alla gente di colore e ai ragazzi di questo Paese di quello che occorre fare, e al più presto, qui in Brasile.

Bob mi ha chiesto solo una cosa in cambio: di organizzare una partita di calcio dove poter giocare fianco a fianco.

Ama il calcio visceralmente e mi hanno detto che non è neanche malaccio !

La partita si farà e sarà un piacere enorme giocare insieme ad un uomo che ha fatto della lotta per la sua gente una ragione di vita.

CAJUMARLEY

 

Questa partita verrà effettivamente giocata e il team di “Caju” e del compianto Bob Marley vincerà per tre reti ad una e il terzo gol lo segnerà proprio il grande artista giamaicano … ovviamente su assist “al bacio” di Paulo Cesar Lima !

Paulo Cesar Lima, per tutti in Brasile “Caju”, nasce a Rio de Janeiro nella favela di Cachoeira nel quartiere di Botafogo nel giugno del 1949.

La sua infanzia non si discosta da quelle di quasi tutti i più grandi calciatori brasiliani.

Estrema povertà di una famiglia che comprende la madre Esmeralda che mantiene la figlia Celia Maria e il piccolo Paulo Cesar andando a servizio presso qualche famiglia.. Paulo Cesar è infatti orfano di padre, morto un mese dopo la sua nascita.

Paulo da bambino è già una piccola star nel quartiere. Lo chiamano addirittura “Pelezinho”.

Ma prima che lo stesso Botafogo o un’altra delle tante squadre di Rio de Janeiro riescano a inserire nel proprio settore giovanile il piccolo Caju, accade qualcosa che cambierà radicalmente e per sempre la sua vita.

Il suo migliore amico si chiama Fred.

Sono coetanei, amano giocare a calcio e sono entrambi molto bravi.

Il padre di Fred fa l’allenatore dopo essere stato un calciatore professionista di buon livello con Botafogo e Flamengo ora fa l’allenatore.

Si chiama Marinho Rodrigues de Oliveira.

Allena il Botafogo, con il quale ha appena vinto due campionati “Carioca” (della provincia di Rio de Janeiro) ed è una delle poche famiglie benestanti del quartiere, con una casa di proprietà e cibo in tavola tutti i giorni.

Fred e Caju sono inseparabili e il padre di Fred offre alla madre di Paulo Cesar la possibilità di prendersi lui cura del piccolo Caju portandolo nella sua casa e di fatto a vivere con la moglie e il figlio Fred.

La madre non si oppone capendo perfettamente che quella per il figlio è l’unica possibilità di una vita migliore.

Neppure il tempo di sistemarsi nella sua nuova casa che a Marinho viene offerto il posto sulla panchina della nazionale dell’Honduras.

La famiglia Rodrigues prepara armi e bagagli e parte per la nuova opportunità lavorativa del capo famiglia.

Caju compreso ovviamente.

La nazionale Honduregna è all’epoca decisamente poca cosa.

Talmente scarsa che durante un’intervista radiofonica, in tono assolutamente ironico, Marinho dichiara che “i più forti calciatori negli allenamenti della Nazionale sono i miei due figli !” … all’epoca tredicenni !!!

Come spesso capita una semplice battuta si trasforma in qualcos’altro.

L’impatto mediatico di quella dichiarazione è devastante e dopo nemmeno due anni in Honduras Marinho viene gentilmente invitato ad andarsene.

Passano un paio di anni trascorsi in Brasile come allenatore del Cruzeiro per Marinho Rodrigues arriva la chiamata del Junior de Barranquilla, squadra colombiana.

Ovviamente si riparte con tutta la famiglia solo che … stavolta Caju e Fred a 16 anni diventeranno realmente la star del team.

Nel 1966 il Junior de Barranquilla un torneo giovanile e sono proprio i due ragazzini gli autentici protagonisti della vittoria.

Fred confeziona assist “a nastro” e Caju diventa la bocca da fuoco princiapale del team nonostante giochi già in quello che diventerà il suo ruolo per praticamente tutta la sua carriera, quello di ala sinistra.

Nel 1967 la famiglia fa ritorno in Brasile e nella bagarre che si scatena per il cartellino di Paulo Cesar Lima a spuntarla è … il cuore.

Caju firma per il Botafogo.

Ma il diciottenne ragazzo cresciuto nelle favelas della zona non immagina di certo di entrare a far parte di un periodo magico nella storia della “estrela solitaria” uno dei soprannomi del Club derivante dallo storico logo con una stella bianca su sfondo nero.

Tra il 1967 e il 1972 arrivano 6 titoli tra cui il campionato nazionale brasiliano (ai tempi denominato Taça Brasil).

Le sue prestazioni sono di un livello tale che Paulo Cesar Lima finirà nell’elenco dei 22 giocatori con cui il Brasile andrà ai Mondiali di Messico 1970 a conquistare il suo terzo titolo, incantando il mondo con fenomeni come Rivelino, Gerson, Tostao, Jairzinho, Carlos Alberto e ovviamente Pelé.

Paulo Cesar, a soli 21 anni appena compiuti, sarà in pratica il 12mo uomo di quella fantastica formazione, giocando in tutti i primi 4 incontri, due da titolare e due entrando nella ripresa dimostrandosi in ogni occasione all’altezza dei suoi più affermati e navigati compagni di squadra grazie al suo dribbling ubriacante e al suo spunto in velocità.

Nel 1972 lascerà il Botafogo per trasferirsi al Flamengo dove continuerà a fare incetta di trofei.

Dopo il Mondiale di Germania del 1974 in cui Caju sarà una lontana controfigura del giocatore ammirato quattro anni prima in Messico, arriverà per lui una importante offerta dai francesi dell’Olympique Marsiglia dove insieme al connazionale Jairzinho e al fortissimo difensore Marius Tresor formeranno un team di tutto rispetto capace di lottare per il titolo fino all’ultimo contro il fortissimo St. Etienne di Bathenay, di Piazza e del talentuoso Dominique Rocheteau conquistando però la Coppa di Francia.

Al rientro in Brasile dopo l’esperienza francese ad attenderlo c’è il Fluminense dove Paulo Cesar contribuisce a portare alla vittoria il “Flu” nei due successivi campionati “Carioca”.

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Proprio in quel periodo inizia l’impegno politico di Paulo Cesar che si estenderà non solo al potere politico costituito ma anche in ambito sportivo.

Sarà proprio lui alla vigilia dei mondiali di Argentina del 1978 a fare da portavoce nella lunga “querelle” sui premi da riconoscere ai calciatori brasiliani per gli imminenti mondiali.

… con il risultato che Paulo Cesar Lima sarà estromesso dalla lista dei convocati per quel Mondiale, dovendo così rinunciare al suo terzo mondiale consecutivo.

Terminerà la sua carriera calcistica nel 1983 nelle file del Gremio.

E sarà proprio in quel periodo che per il talentuoso esterno inizierà la battaglia più lunga, difficile e disperata della sua esistenza: quella contro la dipendenza dalla cocaina.

Dopo il primo “incontro” con questa sostanza avvenuto nel suo breve ritorno in Francia nel 1982 con il piccolo team AC AIX e il ritorno in Brasile per la sua ultima stagione con il Gremio, la dipendenza dalla cocaina diventerà immediatamente fuori controllo nel momento in cui nel 1983 lascerà il calcio.

Nel giro di pochi anni Paulo Cesar riuscirà a dilapidare tutti i suoi averi finendo praticamente in miseria.

Prima prosciugando completamente il suo cospicuo conto corrente, vendendo in seguito i suoi tre appartamenti nella zona residenziale di Rio e finendo addirittura per vendere per un pugno di cruzeiros la sua medaglia di campione del Mondo ricevuta in Messico nel 1970.

Quella con la cocaina sarà una guerra che durerà per quasi 20 anni.

Solo nei primi anni di questo secolo Paulo Cesar riuscirà a riemergere da quell’inferno.

Oggi è un signore di 70 anni, senza più uno solo dei suoi capelli “rasta” ma con gli occhi sereni di chi ha attraversato tante tempeste nella vita fino ad approdare al porto tranquillo della terza età.

La sua storia l’ha raccontata qualche anno fa in una toccante e onesta biografia, dal titolo quanto mai esaustivo: “Ritorno alla vita”.

Buona vecchiaia Caju !

 

ANEDDOTI E CURIOSITA’

L’esordio di Paulo Cesar nel calcio colombiano non avvenne però con lo Junior de Barranquilla del “padre” Marinho bensì con l’Union Magdalena de Santa Marta.

L’allenatore di quel team era l’iconico Gaudencio Thiago de Mello, compositore, poeta e in quel momento allenatore di calcio presso la Union.

Come gesto di amicizia verso il compatriota Marinho manda i Caju e Fred ad allenarsi con l’Union.

Gaudencio rimane così impressionato dalle qualità del non ancora sedicenne Caju che lo fa esordire in una partita di campionato.

L’impatto del ragazzino è tale che dopo sole due partite con l’Union i dirigenti dello Junior de Barranquilla reclamano immediatamente il rientro al club di Paulo Cesar … non dopo aver ripreso duramente Marinho per questa incauta decisione.

 

Nella sua strenua lotta contro i soprusi subiti dalla gente di colore nella sua terra Paulo Cesar Lima provò in diverse occasioni a convincere Pelé a schierarsi con lui e a prendere posizione.

“Avrebbe ottenuto di più una sola parola di Pelé che 100 comizi o passaggi televisivi miei o dei miei amici … O’Rey però non ha mai voluto saperne.

Rimasi molto, molto deluso da questo suo atteggiamento”.

 

Uno dei momenti peggiori della carriera di Paulo Cesar Lima accade durante la sua permanenza al Flamengo. In quella stagione il Flamengo sta giocando un campionato nazionale decisamente al di sotto delle attese e Paulo Cesar è considerato dalla torcida uno dei maggiori responsabili delle scialbe prestazioni dei “rubro-negro”. E’ il 28 ottobre del 1973. Al Maracanà un non trascendentale Gremio sconfigge il “Fla” per 2 reti ad 1. Al termine della partita esplode la rabbia dei più esagitati della torcida.

Paulo Cesar viene rincorso fuori dallo stadio e riesce a salvarsi per miracolo dalla furia dei tifosi del Flamengo che se la prendono però con la sua auto, una fiammante Mercedes che viene completamente distrutta.

Dopo poche settimane firmerà per i francesi dell’Olympique Marsiglia per la stagione successiva.

Abbiamo accennato al discorso relativo ai premi per la Nazionale brasiliana.

Pare che accadde tutto al termine della partita vinta dal Brasile contro il Perù nel luglio del 1977 che di fatto sancì la qualificazione del Brasile per i Mondiali di Argentina dell’anno seguente.

Al termine dell’incontro scende negli spogliatoi il Presidente della Federazione brasiliana, l’ammiraglio Heleno Nunes. Paulo Cesar si rivolge a lui rivendicando per lui e i compagni di squadra un premio superiore rispetto a quello stabilito.

Ignorato completamente dall’ammiraglio Nunes Paulo Cesar decide allora di affrontarlo “vis-à-vis”.

“E poi lei farebbe meglio a guidare le sue navi visto che di calcio non ne capisce nulla”.

… Superfluo aggiungere che quella con il Perù sarà l’ultima partita di Caju con la sua Nazionale …

E di pochi anni fa una dolorosa quanto sincera intervista ad una tv brasiliana dove Caju affronta il tema della sua dipendenza dalla droga.

“Non so neppure perché ho cominciato. Per praticamente tutta la mia carriera sono stato  lontano da droghe e alcol. Ho iniziato così, senza un vero motivo per pura stupidità.

E nel giro di pochi anni ho rovinato tutto quello che potevo rovinare: amicizie, affetti e tutti i risparmi di 15 anni di carriera al vertice.”

Le ultime parole di quella intervista Caju le dice guardando dritto nella telecamera e sono quasi un appello.

“Se siete padri di famiglia, se non avete mai provato la droga io vi dico solo NON FATELO MAI. Perché iniziare è facilissimo ma smettere è dura, è davvero dura”.

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