IL DESTINO DI Sir ALEX FERGUSON.

… ovvero il match che cambiò la STORIA di Sir Alex e del Manchester United …

di REMO GANDOLFI

robins gol

E’ una storia che stupirà e non poco i nostri lettori più giovani.

Questa storia racconta infatti di uno dei più grandi allenatori di tutti i tempi della storia del calcio.

Quando inizia questa storia però il “manager” in questione è già da più di tre anni alla guida di una delle squadre più prestigiose non solo del suo Paese ma di tutta l’Europa e in questi tre anni ha vinto la bellezza di … niente.

Nessun titolo in bacheca.

Nonostante acquisti importanti e costosi.

Nonostante si portasse dietro la fama di “Miglior giovane allenatore” del Paese.

Nonostante il fatto che quando scelse il suo attuale team praticamente tutti i club più importanti lo avevano strenuamente corteggiato.

In fondo pochi anni prima non solo era riuscito a vincere ben tre campionati con nel suo paese d’origine con una squadra considerata al massimo una “outsider” … ma con la stessa squadra è riuscito perfino a trionfare in una competizione europea !

Ora però le cose sono assai diverse.

Nelle ultime 8 partite disputate questo è stato lo score: 4 sconfitte 4 pareggi 0 vittorie.

La squadra sta scivolando verso le zone pericolose della classifica.

Per questo glorioso club è notte fonda.

Ma di chi stiamo parlando ?

La squadra in questione è il Manchester United e il suo manager è Alex Ferguson.

Quando Alex Ferguson arrivò nel novembre del 1986 i tifosi dei Red Devils lo festeggiarono come l’arrivo del Messia, dell’uomo cioè finalmente capace di riportare il Club ai livelli di ormai due decadi prima.

Di quel team che sotto la sapiente guida di Sir Matt Busby arrivò in una serata di maggio del 1968 sul tetto d’Europa.

Quello che sembrava l’inizio di un regno solido e duraturo fu invece l’ultimo fuoco di un team che si spense con la velocità con cui il suo giocatore più rappresentativo, George Best, iniziava la sua folle corsa autodistruttiva.

Ma da quel giorno di novembre, pensavano i tifosi dello United, tutto sarebbe cambiato.

Alex Ferguson, questo coriaceo scozzese di Glasgow, in fondo era stato capace di fare con il “piccolo” Aberdeen quello che nessuno degli allenatori che si erano succeduti a Matt Busby era mai riuscito a fare: vincere un campionato (ben tre per la precisione) o una coppa europea, esattamente la Coppa delle Coppe e battendo in finale nientemeno che il poderoso Real Madrid.

Ora però il tempo si stava esaurendo.

I tifosi del settore più caldo dell’Old Trafford, quelli dello Stretford End, già da qualche settimana avevano espresso il loro giudizio definitivo “3 Years of Excuses and It’s Still Crap.” …3 anni di scuse e facciamo sempre pena. I cori “Fergie out” sono sempre meno isolati e anche il Presidente Martin Edwards pare ormai avere perso la pazienza.

L’unico che continua a difendere a spada tratta l’operato di Ferguson è Sir Bobby Charlton, ancora assai influente nelle stanze di comando dell’Old Trafford … ma ormai sempre più isolato.

Si arriva così al 7 gennaio del 1990.

Si gioca il 3° turno di FA CUP, notoriamente il primo dove entrano in campo le squadre di First Division.

Il Manchester è al momento 15mo in campionato, pericolosamente vicino alla zona retrocessione ed è già uscito dalla Coppa di Lega per mano del Totthenam. Un perentorio 0 a 3 all’Old Trafford.

E’ evidente che la Coppa d’Inghilterra è davvero “l’ultima spiaggia” per il manager scozzese.

Il sorteggio poi è stato tutt’altro che benevolo con i Red Devils.

L’avversario è il Nottingham Forest di Brian Clough e per di più si gioca proprio al City Ground,il campo del Forest.

I ragazzi di Clough non hanno più da qualche stagione le risorse e la qualità per competere per il titolo ma si sono ormai specializzati nelle competizioni ad eliminazione.

Nella stagione precedente lo score nelle tre Coppe Nazionali che si disputavano all’epoca in Inghilterra (che ricordiamo non poteva partecipare alle Coppe Europee dopo la tragedia dell’Heysel) è stato il seguente: vincitore in Coppa di Lega, vincitore nella Simod Cup e semifinalisti in FA CUP, sconfitti dal Liverpool nella ripetizione del match della carneficina di Hillsborough.

Per tutta questa serie di motivi di sono addirittura dei bookmakers con accettano più puntate sull’esonero di Alex Ferguson.

Si fanno anzi già i nomi dei possibili successori: Terry Venables, Bobby Robson e lo stesso Brian Clough.

Il Manchester United si presenta in campo con una formazione coraggiosa.

Non ci sono ali di ruolo, ma centrocampisti di peso e di corsa come Blackmore, Phelan e Beardsmore che sostituisce il leader e capitano Bryan Robson infortunato ma anche tre attaccanti puri come Mark Hughes, Brian Mc Clair e il giovane Mark Robins.

Nelle file del Forest giocatori del valore di Stuart Pearce, Gary Crosby e di Nigel Clough centravanti e figlio di Brian.

Il Manchester United ha il pallino del gioco ma non riesce a creare particolari pericoli.

Il Forest di Clough da sempre ama raccogliersi ordinatamente nella propria metà campo per poi ripartire con le ormai famose trame palla a terra che sono una costante da sempre del gioco di Clough.

Dopo un quarto d’ora del secondo tempo la partita si sblocca.

Lo fa con uno dei gol più curiosi e fortunati che si possano ricordare.

Dalla sinistra Hughes mette un bel pallone al centro dell’area con uno dei suoi classici tocchi d’esterno.

Sul pallone si avventa il giovane Robins che è in vantaggio su Stuart “Psycho” Pearce, il fortissimo terzino del Forest. Mark Robins rallenta la sua corsa per cercare la coordinazione per la battuta di destro … quando da dietro arriva come una furia Stuart Pearce che lo spinge in avanti.

Robins, sbilanciato, colpisce così la palla di testa mettendola alle spalle di un esterrefatto Crossley, chiaramente preso in controtempo.

Che il Manchester United sia una squadra con poca autostima si vede chiaramente da quel momento fino alla fine del match.

Red Devils chiusi a riccio nella propria metà campo con le folate del Forest che portano a tu per tu con il portiere Leighton prima Crosby che gli calcia addosso e poi per due volte Jemson che in entrambe le occasioni spara fuori da posizioni invidiabili.

Insomma, con tanta fortuna pare che Alex Ferguson possa portare a casa quella vittoria che se non altro potrebbe fargli guadagnare qualche preziosa settimana.

Ma a tre minuti dalla fine, in uno degli ultimi disperati attacchi, il Forest crea l’ennesima mischia nell’area dello United. Clough Junior (Nigel) alza un pallone di testa in area, Leighton esce ma la sua respinta di pugno è solo un campanile che ricade in verticale proprio sul vertice dell’area piccola. Saltano almeno in quattro su quel pallone vagante. Più in alto di tutti va proprio Nigel Jemson a cui basta un dolce tocco di testa per mettere il pallone nella rete sguarnita.

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E’ il pareggio che vorrebbe dire la ripetizione del match.

L’arbitro sta già correndo verso il centro del campo quando si accorge che dalla parte opposta del campo c’è il guardialinee con la bandiera alzata.

I due parlottano per qualche secondo e poi l’arbitro decide che il gol non è valido.

Il Nottingham Forest uscirà dalla Coppa mentre il Manchester United questa Coppa la solleverà sulla scalinata di Wembley dopo aver battuto in finale il Crystal Palace … nella ripetizione del match dopo che nel primo incontro il pareggio di Mark Hughes arrivò a cinque minuti dalla fine dei tempi supplementari.

Fa Cup che fu il primo dei 38 trofei vinti da “Sir” Alex Ferguson nei 23 anni successivi.

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ANDREA FORTUNATO: Il sogno spezzato.

di REMO GANDOLFI

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“A fine allenamento il Mister mi ha preso da parte.

Quattro parole in tutto.

Quelle parole che chiunque faccia il calciatore professionista sogna di sentire dire dall’allenatore della Nazionale del proprio paese.

“Domani giocherai dall’inizio”.

A pronunciarle è stato Arrigo Sacchi, allenatore della Nazionale Italiana di calcio.

Avrei voluto abbracciarlo e baciarlo !

… solo che Arrigo Sacchi non è esattamente la persona più espansiva di questa terra … meglio non rischiare che cambiasse idea !

Così mi sono limitato ad un sorriso a 32 denti stampato su una faccia probabilmente da ebete e accompagnato da una di quelle frasi di circostanza, anche piuttosto stupida e banale.

“Grazie mister, farò del mio meglio” è stato tutto quello che sono riuscito a dirgli, ebbro com’ero di un’emozione immensa.

Domani, 22 settembre del 1993, contro l’Estonia qui a Tallin sarò in campo con il numero 3 in una partita di qualificazione per i Mondiali della prossima estate che si giocheranno negli Stati Uniti … ed essere tra i 22 che saliranno su quell’aereo per gli USA sarebbe un altro sogno che si realizza.

A dir la verità i segnali che Sacchi mi teneva in grande considerazione c’erano già stati tutti.

Nella partitella della mattina quando Carlo Ancelotti, il vice di Sacchi, ha distribuito le casacche e mi ha consegnato quella bianca ho strabuzzato gli occhi.

Lo stesso identico colore di quella di Baresi, di Costacurta e di Benarrivo … gli altri tre titolari del reparto difensivo !

Questo non mi garantiva nulla certo … però poteva dire solo una cosa; che Mister Sacchi in me ci credeva e che forse il mio esordio in Nazionale era molto più vicino di quello che pensavo.

Per tutti i 45 minuti della partitella sia Sacchi che Ancelotti mi hanno corretto, consigliato, ripreso e incoraggiato.

So benissimo che la maglia numero tre della Nazionale è proprietà di Paolo Maldini, forse il più forte terzino sinistro al mondo. Ma so anche che se c’è bisogno saprò farmi trovare pronto.

A cominciare da domani.

Domani sera avrò una maglia numero tre da portare a casa alla mia famiglia.

Mia madre pensava fossi matto quando lasciai la nostra bella casa a Salerno per andare fino lassù a Como !

Avevo solo tredici anni ma sapevo, sentivo, che il calcio sarebbe stato la mia vita.

Promisi ai miei genitori che comunque avrei continuato a studiare.

“Lo farò”  promisi loro Ma potete starne certi che non sarà questo diploma di ragioniere a darmi il lavoro nella vita”.

E quando li rivedrò e consegnerò loro questa maglia forse avranno definitivamente capito che avevo ragione io.”

 

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Sono passati poco meno di 8 mesi dal giorno più bello della carriera di Andrea Fortunato.

Solo che adesso sembra tutta un’altra storia.

Anzi, sembra la storia di qualcun altro.

Sono ormai parecchie settimane che il rendimento di Andrea Fortunato è clamorosamente sceso di livello.

Alla penultima di campionato nella trasferta di Piacenza, chiusa con uno scialbo 0 a 0, è stato sostituito a metà della ripresa dopo una prova, l’ennesima, davvero incolore.

Non c’è quasi più traccia di quella sua esuberanza fisica che gli permetteva di correre su e giù per la fascia sinistra decine di volte a partita, dove potevi trovarlo a chiudere una diagonale difensiva o a rubare un pallone al proprio diretto avversario con un robusto tackle e un attimo dopo vederlo spingere palla al piede sulla trequarti avversaria e a mettere in mezzo all’area invitanti cross per le teste dei suoi amici Vialli e Ravanelli.

Invece ora Andrea si limita al “compitino”, tenendo la posizione, cercando di non lasciare troppo spazio al suo diretto avversario sperando in quel “6” nelle pagelle dei giornali sportivi che invece arriva sempre più raramente … mentre invece sono sempre più frequenti le bocciature, spesso impietose.

E’ una involuzione improvvisa e inattesa che scatena perplessità nella dirigenza juventina, negli addetti ai lavori e soprattutto tanta rabbia nei tifosi della “vecchia signora” che, complici le sempre più opache prestazioni della squadra cercano, come sempre in questi casi, un capro espiatorio sul quale sfogare le propria frustrazione.

Andrea Fortunato è il bersaglio perfetto.

Il ragazzo di buona famiglia che non ha mai avuto davvero “fame”, che nel giro di due stagioni scarse è arrivato dalla serie B all’esordio in Nazionale … e che con ogni probabilità si è seduto sugli allori, lasciandosi andare alla “bella vita”, a locali notturni, a ragazze facili e magari anche a qualche vizio proibito.

Il dato di fatto inconfutabile è che Andrea Fortunato fa sempre più fatica.

Le energie sembrano esaurirsi alla velocità della luce, in allenamento come in partita e la sensazione di sentirsi “svuotato” viene manifestata più volte a staff, compagni di squadra e dirigenza.

Andrea è in realtà un ragazzo serissimo, con il grande senso etico che gli hanno tramandato in famiglia e non si dà pace per quel devastante calo di rendimento.

Poi arriva il 20 di maggio del 1994.

Il campionato è finito da poche settimane  e la Juventus, priva dei suoi tanti nazionali, è impegnata in un’amichevole a Tortona, per festeggiare la promozione della squadra locale del Derthona nel campionato di Eccellenza.

Andrea scende in campo dall’inizio.

Ma è il fantasma di se stesso.

Va in continuo affanno contro avversari che solo pochi mesi prima gli avrebbero fatto si e no il solletico.

Già. Pochi mesi prima.

Quando, dopo un brillantissimo avvio di campionato Giovanni Trapattoni, il mister juventino di solito parco di complimenti verso i suoi giocatori soprattutto davanti ai media, lo definì “il nuovo Cabrini”.

Quando non c’era un solo opinionista che non vedeva Andrea Fortunato come la riserva naturale di Paolo Maldini ai Mondiali americani che sarebbero iniziati da lì a poche settimane.

A fine primo tempo di quell’amichevole Andrea invece chiede il cambio.

“Non ho più un briciolo di forze” sono le uniche parole che riuscirà a dire nell’imbarazzo di una prova così negativa.

A quel punto però i medici della Juventus e in particolare il Dott. Riccardo Agricola, decidono di volerci vedere chiaro.

Fanno sottoporre Andrea ad una serie approfondita di esami.

Il responso è devastante.

Ad Andrea Fortunato viene diagnosticata una forma di  leucemia linfoide acuta.

Sarebbe quasi un sollievo per Andrea, così offeso ed umiliato da mesi di speculazioni tendenziose e cattive nei suoi confronti, poter dire “visto ? altro che bella vita ! Sono malato. Ecco perché non riuscivo più a giocare ai miei livelli”.

Questo avrebbe probabilmente voluto dire Andrea Fortunato a tutti i suoi più spietati detrattori.

Solo che di questa forma di leucemia si può morire.

E allora non c’è tempo e probabilmente neppure la voglia per perdersi in queste cose.

C’è invece una durissima battaglia da affrontare.

Andrea la aggredisce esattamente come quando si lanciava all’arrembaggio delle difese avversarie palla al piede sulla suo adorata corsia di sinistra.

Ci sono i famigliari, gli amici di sempre e i compagni di squadra, Ravanelli e Vialli su tutti, che lo aiutano, lo incoraggiano e che lo attendono sul campo per riprendere tutto da dove lo avevano lasciato.

Ad ottobre di quel 1994 Andrea Fortunato lascia l’ospedale.

Le cellule ricevute dal padre Giuseppe hanno iniziato ad attecchire.

Si fa strada l’ottimismo.

C’è una vita intera davanti e a questo punto anche il campo di calcio non è più una chimera.

Qualche allenamento ospite del Perugia, il ritorno a casa e poi la grande gioia di ritornare in gruppo per la trasferta della Juventus a Genova contro la Sampdoria.

E’ il 26 febbraio del 1995

Sembra avercela fatta Andrea.

Invece è tutto effimero.

Una banale polmonite attaccherà quel corpo ancora fragile e indifeso e se lo porterà via il 25 aprile del 1995.

Andrea Fortunato, il nuovo Antonio Cabrini, doveva ancora compiere 24 anni.

Al funerale, nella sua Salerno, c’erano più di cinquemila persone a salutare un ragazzo che per inseguire il suo sogno aveva lasciato la sua città, la famiglia e gli amici più di 10 anni prima.

E la speranza di tutti è che abbia ragione Gianluca Vialli, suo capitano e grande amico alla Juve che salutando Andrea durante la cerimonia disse “Speriamo che anche in paradiso ci sia una squadra di calcio … Così che tu possa continuare a essere felice correndo dietro a un pallone”.

MICHELE SCARPONI: Io resto qui.

di REMO GANDOLFI

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Me lo chiedono spesso tanti miei colleghi ed amici in gruppo.

“Miché, ma perché non vieni anche tu a vivere in Svizzera o a Montecarlo o vicino ai grandi laghi del Nord Italia ? Ci si allena alla grande, sei a due passi da dove si svolgono le corse più importanti e poi sono posti meravigliosi” mi ripetono una volta si e quell’altra pure Vincenzo, Pippo o Damiano.

Mi spiace ragazzi.

Io abito già nel posto più bello del mondo.

E non mettetevi a ridere ! Non è una delle mie solite battute !

Lo penso davvero.

Filottrano è il mio paese e i suoi borghi, le sue strade di campagna e le colline qui intorno per me sono il Paradiso.

Io è qua che sono cresciuto, e qua ci ho portato Anna, l’amore della mia vita che dal suo bellissimo Veneto ha deciso di seguirmi fin qui per vivere con me e mettere su famiglia.

Ci siamo sposati e poi cinque anni fa mi ha regalato due capolavori, Tommaso e Giacomo, i nostri due scatenati e meravigliosi gemelli.

Ed è qua che tornerò a vivere quando la smetterò di andare su e giù per le strade d’Europa con la mia bicicletta.

Non manca molto a quel giorno.

A settembre di quest’anno saranno 38 primavere sul groppone.

A questa età non siamo rimasti in molti in gruppo.

Uno di questi è Samuel Sanchez, lo spagnolo ex-campione olimpico.

Quando ci ritroviamo alla partenza di una gara ci guardiamo, ci salutiamo e poi, immancabilmente, scoppiamo a ridere !

“Ciao vecchio ! Cosa fai ancora qui ?” chiedo ogni volta a Samu.

“Vecchio sarai tu Scarpa ! Guardati. Con le rughe che hai in faccia non ti basta una crema. Ci vuole una smerigliatrice !”

Poi però in corsa ci accorgiamo che sono ancora in tanti, ma proprio tanti, i ragazzotti con 10 o magari 15 anni in meno di noi due che non ce la fanno proprio a tenere il nostro passo, soprattutto in salita e in discesa dove Samu ed io siamo ancora tra i più forti.

Per cui … calma e gesso.

Non c’è nessuna fretta di attaccare la bicicletta al chiodo.

Saranno la strada, le gambe e soprattutto la testa a dirmi quando sarà arrivato il momento di dire basta.

Per adesso ho tante cose molto più importanti a cui pensare.

Come ad esempio il prossimo Giro d’Italia dove all’Astana, dopo il guaio capitato a Fabio Aru, hanno ritenuto che nonostante la carta d’identità (e le rughe !) possa ancora mettere i gradi di capitano della squadra in una grande corsa a tappe.

Mica una corsa qualsiasi amici miei … sto parlando del GIRO D’ITALIA !

 

 

Michele Scarponi non correrà quel Giro d’Italia.

E’ la mattina del 22 aprile del 2017.

Michele Scarponi, “l’aquila di Filottrano” come ormai da tutti è chiamato in gruppo, è uscito presto ad allenarsi.

E’ nelle sue abitudini inforcare la bici ed uscire di prima mattina per allenarsi sulle sue strade, quelle nei dintorni della sua Filottrano.

In mezzo alla campagna, su e giù per quelle colline che Michele conosce come le sue tasche.

E’ uscito anche stamattina nonostante il giorno prima avesse corso l’ultima tappa del “Tour des Alps”, 200 km competitivi e durissimi dalle parti di Trento dove le salite sono dure davvero e dove la primavera arriva dopo che nel resto dell’Italia.

E nonostante i tanti km percorsi in macchina per arrivare in tarda serata nella sua Filottrano.

Saranno in tanti i colleghi che si stupiranno di questa scelta.

“Ma come ? Dopo una corsa del genere il giorno dopo c’è scarico, un bel massaggio e magari una “sgambata” nelle ore più calde !”

Programma buono per tanti ma non per Michele Scarponi.

La fatica è la compagna più fedele di un ciclista.

Perché quella c’è sempre e non ti abbandona mai.

In allenamento, in gara, nei continui spostamenti in aereo o in automobile.

Per Michele è così da quando a 17 anni ha trionfato nel Campionato Italiano Juniores e ha capito che lui, per la bici e per la fatica, ci era nato.

Ma oggi, 22 aprile del 2017, Michele la fatica la sente ancora meno del solito.

Non solo perché alle porte c’è la corsa che ama di più in assoluto e non solo perché dopo tanti anni da “spalla”, da “luogotenente” di un capitano, stavolta il capitano sarà proprio lui.

Ma c’è dell’altro, c’è molto di più.

Solo cinque giorni prima, il 17 di aprile, Michele Scarponi ha tagliato per primo il traguardo di una corsa.

E’ successo proprio al Tour des Alps, nella prima tappa, quando ha messo la sua ruota davanti a ciclisti di primissimo piano come Geraint Thomas o Thibaut Pinot e a ben quattro anni di distanza dalla sua ultima vittoria individuale.

Non è una vittoria “normale”.

E’ la prima vittoria che i suoi due adorati “cuccioli” Giacomo e Tommaso sono stati in grado di vedere, capire e di gioirne insieme alla bellissima mamma Anna, ex-ciclista pure lei.

Erano mesi e mesi che tampinavano il loro babbo “Papà ma tu non vinci mai ?” gli chiedevano inesorabilmente al termine di ogni gara.

Come fare a spiegare loro che il papà doveva spesso aiutare qualcun altro a vincere, che il loro papà non ha lo spunto veloce di tanti suoi colleghi ma che per vincere il loro papà quasi sempre deve staccare tutti gli altri e arrivare da solo.

Ecco, in quella maledetta mattina del 22 aprile quelli erano con ogni probabilità i pensieri di un uomo orgoglioso, di un professionista determinato e forte … e di un marito e di un padre felice.

Tutte cose che quel povero operaio alla guida di quel camioncino non poteva sapere.

Come non poteva sapere che Michele Scarponi, di Filottrano come lui e che ovviamente conosceva di nome e di vista perché a Filottrano si conoscono tutti, sarebbe passato di lì proprio in quel momento, all’uscita di quella curva e che lui, abbagliato da quel maledetto raggio di sole, non aveva potuto vedere Michele.

Michele, con la sua simpatia contagiosa, i suoi sorrisi e la sua disponibilità assoluta giù dalla bici … che diventavano concentrazione, grinta e spirito indomito non appena sulla sua bici ci saliva.

Qualcuno dice che la traccia che lasciamo negli altri dopo che ce ne siamo andati racconta veramente chi siamo.

Beh, se questo è vero quella di Michele Scarponi non verrà scalfita né del vento, né dalla pioggia e neppure dal tempo.

 

Michele Scarponi nasce a Jesi, nelle Marche, il 25 settembre 1979.

Balza agli occhi degli addetti ai lavori grazie alla vittoria nel campionato italiano Juniores.

Si corre in Friuli Venezia Giulia, a Caneva e nello strappo finale che porta al castello della cittadina Michele mette in fila tutti.

Nel 1998 si trasferisce in Veneto per correre per la Zalf-Euromobil-Fior di Castelfranco Veneto dove rimarrà per tre anni prima di passare alla Site-Frezza-Safi-Mattiuzzo.

Ma ormai Michele è pronto per il salto nei professionisti che arriverà nel 2002 con la celeberrima Acqua&Sapone-Cantine Tollo di Mario Cipollini.

Dopo il classico anno di ambientamento nei professionisti Michele  Scarponi nel 2003 mostra a tutti il suo enorme valore conquistando due piazzamenti eccellenti in due classiche del calendario internazionale come l’olandese Amstel Gold Race (dove arriva 7mo) e soprattutto un fantastico 4° posto nella Liegi-Bastogne-Liegi, la famosa “Doyenne”, la classica più antica fra le “monumento”, dietro a ciclisti del valore di Tyler Hamilton, Iban Mayo e Michael Boogerd.

Michele a quell’epoca sembra assai più portato per le classiche di un giorno, specialmente quelle più dure e selettive.

Si ripeterà sempre ad altissimo livello l’anno successivo, sfiorando il podio nella Freccia-Vallone (4°) e un altro piazzamento nei dieci (7°) alla Liegi.

Nel 2005 a volerlo è la fortissima compagine spagnola della Liberty-Seguros di Manolo Saiz ma in quello che dovrebbe essere l’anno della sua consacrazione l’unico risultato di rilievo è un dodicesimo posto nella Vuelta, il Giro di Spagna.

Le cose per Michele vanno molto peggio l’anno seguente: tutta la squadra è implicata nella tristemente famosa “Operacion Puerto” e anche Scarponi, nel frattempo tornato alla Acqua&Sapone, viene squalificato.

Sono 18 lunghi mesi lontano dalle corse.

Quando rientra per lui c’è una offerta della Androni Giocattoli di Gianni Savio e Michele risponde a questa nuova opportunità dopo la squalifica nella maniera migliore possibile: vincendo ad inizio 2009 la Tirreno-Adriatico, importante corsa a tappe e classico appuntamento di inizio stagione per preparare la “classicissima”, la Milano-Sanremo.

Nel 2010 è finalmente pronto per una parte di rilievo in una grande corsa a tappe. Al Giro d’Italia dimostra che la sua maturazione è ormai completata. Termina al 4° posto, a meno di 3 minuti dal vincitore Ivan Basso e soprattutto vince una bellissima tappa, quella con l’arrivo a l’Aprica.

La sua presa di coscienza nei suoi grandi mezzi gli dà finalmente quella carica necessaria per andarsela a giocare in qualsiasi competizione con tutti i migliori e a fine stagione arriva anche un eccellente secondo posto al Giro di Lombardia dietro un fenomenale Philippe Gilbert.

A fine stagione il passaggio alla Lampre di Giuseppe Saronni, che ne farà il leader assoluto per le corse a tappe.

Al Giro d’Italia del 2011 Scarponi è nella forma della vita.

Non c’è nulla da fare contro lo scatenato campione spagnolo Alberto Contador per la vittoria finale.

Ma sarà il primo degli “umani” lasciando dietro di lui gente del valore di Vincenzo Nibali (3°) John Gadret (4°) e Joaquim “Purito” Rodriguez giunto 5°.

Giro d’Italia che gli verrà assegnato successivamente per la squalifica per positività al clenbuterolo di Contador.

Anche nei due anni successivi, sempre con la Lampre, Scarponi punta tutto o quasi sul Giro d’Italia ma non riesce più a salire sul podio.

Due quarti posti a testimonianza però di grande classe e continuità di rendimento.

Nel 2014 arriva la chiamata dell’Astana, lo squadrone del Kazakistan che l’anno prima ha trionfato al Giro d’Italia con Vincenzo Nibali.

In questa stagione però l’ambizioso team kazako punta al bersaglio grosso: il Tour de France.

Per vincerlo a Vincenzo Nibali servono compagni di qualità assoluta che possano stargli vicino nelle tappe decisive sulle Alpi e sui Pirenei.

Viene reclutato il giovane e promettentissimo basco Mikel Landa e come scudiero principale per il siciliano si pensa proprio a Michele Scarponi.

Michele si adatta immediatamente alle nuove consegne tanto più che al Giro d’Italia sarà lui il capitano del team visto che “lo squalo” punterà tutto sul Tour.

Purtroppo la sfortuna (una brutta caduta nella tappa di Montecassino) lo costringerà al ritiro.

Al Tour però Michele Scarponi ci arriva in eccellenti condizioni di forma e il suo contributo alla vittoria finale di Vincenzo Nibali sarà determinante. All’arrivo alla Planche des Belle Filles ad esempio dove Michele, insieme al suo compagno Fulgsang, scorteranno Vincenzo fino a meno di 3 km dall’arrivo dove Nibali poi sferrerà l’attacco decisivo.

La stessa cosa si ripeterà praticamente in fotocopia nel 2016 quando Nibali trionferà ancora nella corsa “rosa” con Michele sempre al suo fianco come inseparabile e insostituibile scudiero.

E si arriva così al 2017, alla bellissima vittoria nella prima tappa del Tour des Alps che annuncia a tutto il mondo del ciclismo che Michele Scarponi ha ancora tante cartucce da sparare e che la carta d’identità, nel suo caso, è solo un dettaglio.

… prima che tutto finisca in quella tragica mattina del 22 aprile …

 

Una storia maledetta che non finisce con la morte di Michele.

Al povero operaio piastrellista che investì e uccise con il suo furgone Michele Scarponi pochi mesi dopo viene riscontrato il cancro. Non si era mai dato pace per quanto accaduto quella mattina. Non solo conosceva Michele (a Filottrano si conoscono tutti) ma ne era anche un suo tifoso.  Nel febbraio di questo 2018 perderà la vita. I suoi amici più stretti diranno che non ce la faceva a lottare, che non reagiva alle cure … che si è lasciato morire.

E poi c’è il fedele pappagallo Frankie, amico inseparabile di Michele nelle sue uscite di allenamento e reso famoso dagli stessi video che Michele pubblicava delle sue pedalate con Frankie posato sulla spalla.

Ancora oggi Frankie ha due appuntamenti fissi: quello di andare ad attendere i due gemellini di Michele e Anna all’uscita della scuola e quella di andarsi a posare sul cartello stradale posizionato sull’incrocio dove avvenne l’incidente.

 

Di Filottrano come Michele sono due fratelli musicisti, Marino e Sandro Severini, i “GANG” per chi ha dimestichezza con il folk-rock italiano.

Pochi mesi prima della morte di Michele i Gang hanno girato un video di una loro (bella) canzone che si chiama “Nel mio giardino”, girata percorrendo le vie, i borghi e le strade della campagna di Filottrano, le stesse su cui Michele amava allenarsi.

Ad un certo punto nel video arriva un ciclista, con la sua maglia celeste.

Si ferma e sorride alla telecamera.

E’ proprio lui, è Michele.

In quel “giardino” che racconta dell’amore per la propria terra c’è anche lui, Michele Scarponi, che da quella terra non ha mai voluto andarsene.

 

 

 

NORMAN HUNTER: L’ultimo morso di un grande campione.

di REMO GANDOLFI

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Norman Hunter se ne è andato.

Non è riuscito a “mordere le gambe” del suo ultimo avversario, il “Covid-19” che se l’è portato via il 17 aprile.

Lui che aveva sfidato, combattuto e “morso” avversari durante venti anni di carriera, la maggior parte passati nel Leeds United.

Quando si pensa ad un calciatore totalmente compromesso con le necessità del proprio team è impossibile non pensare a lui, a Norman “bite yer legs” Hunter.

Per lui contava la squadra, mettersi completamente a disposizione dei compagni, fare quello che il suo “maestro” Don Revie gli chiedeva per vincere partite e trofei e cioè di non fare segnare gli attaccanti avversari … in un modo o nell’altro.

Talmente avulso da logiche individuali e da tornaconti personali che lo disse chiaramente anche al grande Brian Clough quando questi, appena arrivato come manager al Leeds, prese da parte Hunter per fargli il famoso discorso.

“Hunter hai una reputazione terribile e sei odiato da tutti. Ma sai giocare a calcio e da oggi le cose cambieranno perché a tutti piace essere amati ed apprezzati” gli disse con enfasi Clough.

“Onestamente Mister Clough … a me non me ne frega un cazzo” fu l’inequivocabile risposta di Hunter.

Arrivato al Leeds a soli 15 anni Norman Hunter fa il suo esordio in prima squadra un mese prima del suo diciannovesimo compleanno.

E’ l’8 settembre del 1962. Il Leeds United è in Seconda Divisione

Viene aggregato alla squadra durante una trasferta a Swansea.

Pensa sia solo un premio al suo impegno con la squadra giovanile e un’occasione per conoscere i “grandi”. Un’ora prima del match Don Revie gli comunica che giocherà da titolare, al fianco di Jack Charlton.

Hunter non uscirà più di squadra e per quasi 10 stagioni quella sarà la coppia di difensori centrali del Leeds.

Nella stagione successiva il Leeds conquisterà l’agognato ritorno in First Division e da allora saranno quasi dodici anni memorabili nella storia del Club dello Yorkshire e in quella personale di Norman Hunter.

Anni di vittorie, di trofei conquistati (due campionati, una FA Cup, due Coppe delle Fiere, una Coppa di Lega) ma anche di grandi e cocenti delusioni come le sconfitte nelle finali di due competizioni europee (Coppa delle Coppe contro il Milan nel 1973 e Coppa dei Campioni contro il Bayern nel 1975) entrambe perse immeritatamente ed entrambe con grossi dubbi sull’onestà delle terne arbitrali.

La delusione più grande per Norman Hunter arriverà però in una sera di ottobre del 1973.

Si gioca a Wembley e la nazionale inglese ha un solo risultato a disposizione per accedere alle finali della Coppa del Mondo che si terrà in Germania Ovest nell’estate successiva: battere la Polonia.

E’ una Nazionale inglese fortissima quella di quel periodo. Probabilmente più forte addirittura di quella che trionfò meno di otto anni prima nel Mondiale organizzato in casa dagli inglesi.

Di sicuro c’è più qualità, c’è più talento.

In cabina di regia c’è Tony Currie, talentuosa e creativa mezzala dello Sheffield United, c’è Colin Bell del Manchester City e in attacco ci sono Alan “Sniffer” Clarke, bomber del Leeds e il versatile Mick Channon del Southampton. Nella rosa ci sono calciatori come il giovanissimo Kevin Keegan, o il regista degli Hammers Trevor Brooking o il bomber del Newcastle Malcolm Macdonald.

La Polonia è una nazione in grande crescita. L’anno prima ha vinto la medaglia d’oro ai giochi olimpici nel calcio davanti a nazioni come URSS e Ungheria.

Ci sono grandi calciatori come il regista Deyna, le due ali Lato e Gadocha e il libero Gorgon. Manca però il giocatore forse di maggior spessore, Wlodek Lubanski che nel match di andata si è gravemente infortunato ad un ginocchio..

La partita è un autentico assedio degli inglesi alla porta del gigantesco Tomaszewsky (definito un “clown” da Brian Clough nel prepartita).

Qualcuno la definì la “Fort Alamo” della storia del calcio.

Poche volte si è assistito ad un match così a senso unico.

Si gioca in una sola metà campo. Quella polacca.

L’Inghilterra crea gioco e occasioni da gol a ripetizione.

Triangolazioni palla a terra, tiri da fuori, palloni serviti “sulla corsa” agli attaccanti da centrocampisti “pensanti” come Currie e Bell.

Chi parla di un Inghilterra capace solo di fare cross per gli attaccanti o non ha visto la partita o non capisce nulla di calcio.

Per tutto il primo tempo gli inglesi ci provano ma il risultato non si sblocca.

Il “clown” Tomaszewsky compie almeno tre miracoli su Bell, Clarke e Channon ma si va negli spogliatoi sullo zero a zero.

Nella ripresa la fisionomia di gioco non cambia ma al dodicesimo minuto arriva l’episodio che cambierà il volto alla partita, alla qualificazione per i Mondiali e alla carriera in Nazionale di Norman Hunter.

Con l’Inghilterra praticamente tutta nella metà campo avversaria c’è un pallone che arriva nella zona di Norman Hunter. Siamo si e no un metro nella metà campo inglese.

Hunter è in netto vantaggio su Gregorz Lato che sta arrivando in pressing di gran carriera.

Hunter non affonda il tackle come ci si aspetterebbe da lui in una occasione come questa. Il suo obiettivo è di difendere il pallone, evitare l’attacco della veloce ala polacca e far ripartire l’azione dei suoi.

Questa scelta si rivelerà un disastro.

Lato gli soffia quasi senza sforzo il pallone e si invola verso la porta degli inglesi.

C’è rimasto solo Roy Mc Farland a difendere ma quando il centrale del Derby County va a chiudere su di lui Lato rientra verso il centro e serve l’accorrente Domarski che entra in area e lascia partire un tiro rasoterra verso la porta degli inglesi.

Il tiro è tutt’altro che irresistibile ma Peter Shilton, il giovane portiere che ha da poco preso il posto in Nazionale del grande e sfortunato Gordon Banks, si fa passare il pallone sotto il corpo regalando così il vantaggio ai polacchi.

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“Il giorno più brutto della mia carriera” ricorderà sempre Norman Hunter parlando di quell’episodio.

In realtà il tempo per rifarsi ci sarebbe soprattutto visto che pochi minuti dopo l’Inghilterra, con un gol su rigore di Alan Clarke, rimette in parità le sorti dell’incontro.

Nella restante mezzora però non ci sarà nulla da fare nonostante gli inglesi ci provino in tutti i modi creando non meno di sei-sette nitide palle gol e infinite mischie nell’area di rigore della Polonia.

Saranno i polacchi a qualificarsi per il Mondiale di Germania dove saranno una delle grandi rivelazioni del torneo, chiuso da Kazimierz Deyna e compagni con un brillante terzo posto.

Norman Hunter sarà sempre (ingiustamente) ricordato per quell’errore che però non può e non deve intaccare una straordinaria carriera.

Nel 1976 lascerà il Leeds United per trasferirsi al Bristol City e poi al Barnsley dove chiuderà a 38 anni la sua carriera di calciatore prima di intraprendere quella di manager fino al 1990.

Dal 1993, oltre a collaborare con la BBC dello Yorkshire e a commentare le partite del suo Leeds, diventa uno dei nomi più popolari e richiesti dei famosi “after dinner speaker” ovvero di quei personaggi famosi dello sport o dello spettacolo che, pagati profumatamente, si mettono a disposizione dei convenuti per raccontare aneddoti riguardanti le loro carriere e rispondere alle domande dei presenti.

… e di aneddoti, su Norman Hunter, ce ne sono davvero tantissimi …

 

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Appena arrivato al Leeds in quindicenne Norman è praticamente pelle e ossa. Ha già un sinistro educatissimo e gioca già con molto coraggio. Ma con quel fisico non può certo competere con coetanei più prestanti e forti. Da subito viene inserito nel famoso regime alimentare previsto da Don Revie: uova crude e sherry.

In un paio di mesi il fisico di Hunter “sboccia” letteralmente ed è ora in grado di affrontare partite e allenamenti senza “il pericolo che si rompesse in due ogni volta” come disse di lui Don Revie in quel periodo.

“Sicuramente la cura ha funzionato” ammise Hunter diversi anni dopo “Anche se nelle prime settimane finivo quasi sempre per vomitare tutto quanto !”

 

Il soprannome “Bites yer legs” nasce il 6 maggio del 1972. Poco prima dell’inizio della finale di FA CUP tra Arsenal e Leeds United durante una panoramica della BBC sui tifosi si nota un cartello con la scritta “Norman bites yer legs” che, notata durante la trasmissione da Brian Clough, ospite come commentatore, diventerà per il resto della carriera accostato alla figura di Norman Hunter.

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Sempre nel 1972, esattamente il 27 maggio, si gioca ad Hampden Park per il Torneo Interbritannico. Di fronte gli “Auld-enemies” di Scozia e Inghilterra. Sugli spalti quasi 120 mila persone.

La Scozia è in possesso di palla nella metà campo degli inglesi. Billy Bremner ha il pallone tra i piedi e si sta avvicinando all’area di rigore.

Dalla difesa inglese esce con veemenza Norman Hunter. Il suo tackle fa letteralmente “volare” il piccolo centrocampista scozzese.

Bremner, a terra dolorante, si rivolge al suo compagno di squadra nel Leeds United.

“Norm, ma che cazzo fai ? Mi vuoi rompere una gamba ?” gli urla Bremner non esattamente entusiasta dell’intervento del compagno.

“Ah scusa Billy. TI avevo scambiato per Hartford” (l’altra mezzala scozzese in campo quel giorno)

Questa la “giustificazione” di Hunter …

 

Nel 1974 Norman Hunter viene votato dai suoi colleghi calciatori “Miglior calciatore dell’anno” a dimostrazione della sua bravura e di quanto in fondo avesse ragione lui nella continua diatriba con Don Revie che praticamente prima di ogni match gli diceva “Tu Norman devi conquistare la palla e poi passarla a qualcuno che la sappia giocare”, cosa che faceva infuriare terribilmente Hunter che ogni volta replicava “Boss, ma io SO giocare la palla !”.

A dare conferma di questo uno dei tanti è il compagno di squadra Eddie Gray che ha riconosciuto più volte che Norman Hunter “è stato uno dei difensori più abile nei passaggi che io abbia mai visto. Con il suo sinistro poteva pescare uno degli attaccanti anche a quaranta metri di distanza”.

Uno dei “nemici” storici di Hunter era il centravanti del Chelsea Peter Osgood, tipo decisamente tosto e “fisico” con cui Hunter aveva spesso scontri decisamente violenti. Durante un Chelsea-Leeds allo Stamford Bridge nel 1970 dove i due se le stavano dando di santa ragione, nel momento in cui Terry Cooper segna per il Leeds e approfittando dei successivi festeggiamenti Hunter decide di sistemare le cose con Osgood, prendendolo per le sue famose “basette” e tirandogliele con veemenza per diversi secondi !

Sono in molti a pensare che la fama di “duro” di Norman Hunter avesse un ascendente importante anche verso parecchi arbitri. Infatti il numero di cartellini gialli e di espulsioni nella sua carriera sono un numero irrisorio rispetto al suo stile di gioco anche se, come sempre ammesso dallo stesso Hunter “a quei tempi per venire espulso l’avversario lo dovevi uccidere !”

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Uno degli episodi più famosi che hanno coinvolto Hunter riguarda il vero e proprio match di pugilato disputato tra lo stesso Hunter e Francis Lee al Baseball Ground durante un Derby County-Leeds del 1975.

Anche in quell’occasione la squalifica più pesante toccò a Francis Lee … che se non altro si rivelò un osso davvero duro per Norman !

https://youtu.be/sYL-f8zc50I

Norman Hunter farà parte della rosa della nazionale inglese sia ai Mondiali di casa del 1966 sia a quelli messicani di quattro anni dopo.

In queste due partecipazioni giocherà in totale la bellezza di … 39 minuti !

Quelli dell’ultima partita degli inglesi a Messico 70 e persa contro la Germania Ovest nei quarti di finale quando entrerà a nove minuti dalla fine dei tempi regolamentari, in tempo per vedere Uwe Seeler segnare il gol del pareggio che costringerà le squadre ai supplementari dove un gol di Gerd Muller porterà i tedeschi alla storica semifinale con l’Italia dell’Azteca.

 

Non esiste nessuno che non sia testimone della estrema gentilezza, della disponibilità e dell’umiltà di Norman Hunter fuori dal rettangolo di gioco.

Sono in molti che avendolo conosciuto fuori dal campo si sono stupiti che quello fosse “lo stesso” Norman Hunter di cui avevano sentito le gesta non sempre lusinghiere in un campo di gioco.

“Ci sono state occasioni dove mi sono vergognato di me stesso per quello che avevo fatto in campo. Mi dicevo che non potevo essere io ad essermi comportato così. Eppure in campo mi capitava. L’eccitazione, la voglia di vincere e di aiutare i miei compagni … non so darmi altra spiegazione” ha sempre ricordato con qualche imbarazzo lo stesso Hunter.

Norman Hunter ha sempre candidamente ammesso che non avrebbe MAI voluto lasciare il Leeds United. A tal punto che nell’estate del 1976 chiese a Jimmy Armfield, il manager del Leeds, due anni di contratto. A quasi 33 anni sarebbe stato l’ultimo suo contratto professionistico e gli avrebbe permesso di chiudere la carriera nel suo amato Leeds. “Sono disposto a giocare con la squadra Riserve” disse Hunter al suo manager “Non le creerò nessun problema e se avrà bisogno di me in prima squadra mi farò trovare pronto” fu la richiesta di Hunter.

Non ci fu nulla da fare. Armfield rifiutò e Hunter fu costretto ad accettare il trasferimento al Bristol City.

… dove giocò per tre stagioni sempre a livelli eccellenti.

Alla domanda su chi è stato il più forte calciatore con cui Hunter ha condiviso una maglia la scelta cade su Johnny Giles, la mezzala irlandese del Leeds United. “Un giocatore fantastico. Uno dei più completi che io abbia mai visto su un campo di calcio. Tecnica di altissimo livello e un carattere fantastico. Un leader autentico e un professionista esemplare”.

L’avversario più forte ? “Jimmy Greaves, senza ombra di dubbio !” è la risposta di Norman Hunter. “Potevi annullarlo per 89 minuti e 59 secondi. Poi ti distraevi un secondo e … la palla era in fondo alla rete !”

Infine il tributo al suo grande Boss, Don Revie, figura per certi versi controversa nella storia del calcio inglese ma che a Leeds ha saputo costruire qualcosa di speciale.

“Avevo 17 anni e il manager che c’era allora al Leeds (Jack Taylor) non aveva una grande fiducia nei miei mezzi. Decise di allungarmi il contratto di sei mesi ma avevo capito benissimo che non rientravo nei suoi piani ed ero sul punto di tornarmene nella mia Newcastle. Poi, nel marzo del 1961, venne licenziato e arrivò Don Revie. Sei mesi dopo facevo il mio esordio in prima squadra”.

“Quello che ha saputo creare Revie al Leeds è molto difficile da spiegare a chi non ha vissuto quel periodo. Aveva costruito un gruppo di giocatori coeso e affiatato, dentro e fuori dal campo. Andare all’allenamento era un piacere. Duro lavoro, ma tante risate e scherzi in un gruppo di giocatori pronti a qualunque sacrificio per lui e per i compagni di squadra.

Brian Clough e i suoi fatidici “44 giorni”. “E’ arrivato con troppi preconcetti. Non ci ha mai dato una reale possibilità di fargli vedere chi eravamo veramente e neppure lui si è dato la possibilità di farsi conoscere. Sarebbe stato sufficiente che dicesse «Ok ragazzi. Fino ad oggi è andata in un certo modo. Ma adesso sono qua con voi, cancelliamo tutto e ripartiamo da zero» “Non lo ha fatto e le cose sono andate come tutti sanno”.

Leeds è un luogo dove Norman Hunter sarà ricordato in eterno per quanto ha saputo dare alla causa dei “Whites” e per quello che ha rappresentato per il Club e per tutti i tifosi.

Nel West Stand ad Elland Road c’è già da qualche hanno la “Norman Hunter suite” e siamo certi che molto presto il popolo del Leeds e la società del Presidente Andrea Radrizzani sapranno ricordare a dovere questo grande campione con qualcosa di ancora più importante.

E’ di pochi mesi fa un’intervista nella quale affermava che uno dei suoi grandi desideri prima di andarsene da questa terra era quello di rivedere il Leeds in Premier.

Non ce l’ha fatta … anche se tutti, a Leeds, sperano che sia solo una questione di settimane …

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TONY ADAMS: All’inferno e ritorno.

di REMO GANDOLFI

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“Essere considerato il più grande bevitore di Guinness del mio pub era diventato per me più importante che vincere trofei come capitano dell’Arsenal”.

Questa è solo una delle tante frasi “forti” raccontate da Tony Adams nella sua coraggiosa e onesta autobiografia.

Una carriera ai vertici del calcio nazionale e internazionale e trofei in serie vinti con i Gunners londinesi.

La fascia di capitano a sancire in modo inequivocabile le sue riconosciute doti di leader.

Un calciatore esemplare per coraggio, determinazione e applicazione.

Il posto garantito al centro della difesa dei Bianchi d’Inghilterra.

Insomma, un simbolo per professionalità e rendimento.

Fuori dal campo però, la vita di Tony Adams è stata, per tanto tempo, un disastro assoluto.

Un matrimonio con una donna dipendente da crack ed eroina non fa che accentuare la sua personale smodata passione per gli alcolici.

Quello che all’inizio sembra un gioco e un modo per farsi accettare dal famoso “Booze Club” dell’Arsenal di metà anni ’80 nel giro di pochi anni diventa per “Tone” un inferno.

La sua vita si divide in due: il calcio e le bevute.

Quando non è su un campo di calcio Tony Adams è al pub.

In questi anni ne combinerà di tutti i colori.

Distruggerà automobili, andrà in carcere, sarà coinvolto in risse e scazzottate, rischierà di rompersi la testa cadendo dalle scale di un pub.

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Perfino i suoi adorati figli in quel periodo diventano

un impedimento a questa sempre crescente necessità di bere.

Più volte si dimenticherà di loro, “parcheggiandoli” da parenti, amici o varie baby sitter di turno prima di lanciarsi in “bender” alcoliche capaci di durare anche tutto un week end.

Il calcio è l’unica cosa che gli impedisce di sprofondare completamente.

E’ solo nel 1996, dopo un estate di eccessi e senza più il minimo autocontrollo, che Tony Adams decide di rendere pubblica la sua dipendenza.

Lo fa in una toccante conferenza stampa che spiazza non solo gli addetti ai lavori ma anche e soprattutto dirigenti, staff e compagni di squadra dell’Arsenal e della Nazionale, sorpresi e increduli dalle dimensioni del problema del loro capitano.

Ci vuole coraggio per un gesto del genere.

E a Tony il coraggio non manca di certo.

Non è mai mancato.

Fin da quando George Graham, neo allenatore dei Gunners, decide già alla sua prima stagione da manager dei biancorossi londinesi, di lanciare stabilmente il ventenne difensore centrale in prima squadra.

Con lui ci sono altri giovanotti di belle speranze come Niall Quinn, Martin Hayes e il compianto David Rocastle.

Tony si sistema al centro della difesa a fianco di David O’Leary, il veterano irlandese che gli farà da guida in quella prima stagione da titolare.

I risultati sono immediati.

L’Arsenal, dopo tanti anni senza trofei, alzerà al cielo nell’aprile del 1987 la Coppa di Lega inglese battendo in finale nientemeno che il Liverpool di Rush e Dalglish.

Tony Adams al termine di quella stagione verrà eletto come “Miglior giovane della First Division”.

Il suo impatto è enorme.

E’ già un leader, lo è sempre stato.

Bastano poche partite e Tony diventa l’uomo che guida i movimenti della difesa, che richiama all’attenzione i compagni, che li guida nel pressing, li sprona e indica loro dove posizionarsi.

“E’ sempre stato così. In campo mi trasformo. Sono capace di parlare più nei 90 minuti di partita che nel resto della settimana” ammetterà Tony in più di un’occasione.

Bobby Robson, che di calciatori se ne intende, lo convoca nella Nazionale maggiore inglese per una prestigiosa amichevole contro la Spagna.

Si gioca al Santiago Bernabeu e Tony è in campo dall’inizio a fianco di Terry Butcher e dei suoi compagni dell’Arsenal Viv Anderson e Kenny Sansom.

Sarà una delle più brillanti e convincenti prestazioni della storia recente della Nazionale inglese.

Un 4 a 2 finale e anche se i protagonisti assoluti sono Gary Lineker (autore di tutti e 4 i gol inglesi) e Glenn Hoddle, sontuoso in cabina di regia, a nessuno è sfuggita l’autoritaria prestazione del ventenne Adams al centro della difesa dei Bianchi d’Inghilterra.

Ci saranno anche momenti difficili per il prestante difensore dei Gunners.

Nell’estate del 1988 agli europei di Germania s’imbatterà nel più forte centravanti del periodo, un certo Marco Van Basten, che ne metterà a nudo l’inesperienza a certi livelli.

Intanto l’Arsenal in patria inizia a vincere trofei in serie e questo provoca, come a tutte le latitudini, le antipatie dei tifosi avversari.

Tony, che in campo non si nasconde mai, diventa un facile bersaglio per i supporters avversari.

Verrà soprannominato “the donkey”, l’asino, per quel suo modo particolare di correre.

Il tutto corroborato dai “ragli” incessanti delle tifoserie avversarie.

“Devo ringraziare quei tifosi. Le provocazioni mi hanno sempre stimolato e hanno aggiunto quel pizzico di grinta in più e di voglia di dimostrare il mio valore in campo”.

Diventa il bastione su cui l’Arsenal costruisce una difesa praticamente insuperabile.

Continuano a piovere trofei. Campionati, FA CUP e anche un trionfo in Coppa delle Coppe contro il Parma dove Adams e i suoi compagni metteranno la museruola ad attaccanti del calibro di Zola, Asprilla e Brolin.

Fuori dal campo però la vita è sempre più fuori controllo.

E Tony non è certo aiutato dal nuovo “Club” di grandi bevitori che si è creato all’interno della squadra.

Merson, Bould e Parlour sono compagni affidabili in campo e sempre presenti “fuori”, quando per “fuori” si intendono i pub di Islington e dintorni.

Tony Adams è ormai in un vicolo senza uscita e al termine degli Europei giocati in Inghilterra e chiusi dagli inglesi senza il trionfo atteso, l’unica maniera che conosce per leccarsi le ferite, personali e professionali, è quella di bere fino all’oblio.

Nell’agosto di quel 1996 tocca il fondo. Dopo una serie infinita di giornate passate completamente ubriaco si accorge che il suo corpo non è più in grado di ingerire cibo solido.

“Non riuscivo a mangiare nemmeno un fish & chips. Il mio corpo sapeva assorbire solo alcol”.

Di lì a poche settimane arriva la dichiarazione pubblica, definitiva, coraggiosa ma che al tempo stesso è una disperata richiesta di aiuto.

“Il mio nome è Tony Adams e sono un alcolista”.

Da quel momento inizia piano piano a risalire la china.

Nell’ottobre di quell’anno, con l’arrivo di Arsene Wenger sulla panchina dei Gunners, il cambio è radicale. Cambia il modo di allenarsi e cambia il modo di alimentarsi, di curare il proprio fisico e la qualità dello stile di vita imposto ai calciatori.

Adams ritrova se stesso.

In campo, che da sempre è il suo habitat naturale, ma soprattutto fuori.

I figli tornano al centro della sua vita e arrivano nuovi interessi come la lettura o la musica … e soprattutto il grande bisogno di aiutare chi, come lui, ha grattato il fondo, cercando quasi di scavare prima di cominciare a risalire.

Sono passati quasi 24 anni da allora.

Tony Adams non è più un alcolista, ha una vita piena e completa, dove il calcio ha ancora una parte importante … ma non è più, come allora, “la metà della mia vita … con la bottiglia che era l’altra metà”.

Le parole più belle sono quelle del suo amico e per anni compagno di bevute, Paul Merson.

“Non ho mai visto un UOMO cambiare così radicalmente come ha fatto Tony. Per farlo devi essere speciale. E Tony Adams E’ un uomo speciale”.

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ANEDDOTI E CURIOSITA’

Tony Adams adolescente era quanto di più introverso e disadattato si potesse trovare. A disagio per quel fisico imponente e disarmonico, un naso “importante” e due grosse orecchie a sventola. E un difetto nel pronunciare la “R” che lo inibisce oltre misura. A disagio in ogni situazione sociale, con i coetanei e soprattutto con le ragazze. In quegli anni, afferma ancora oggi Adams, “l’unico luogo dove mi trovavo a mio agio era un campo di calcio”.

I suoi esordi all’Arsenal sono ricordati ancora oggi con tanta simpatia da molti dei suoi compagni di allora.

E’ Paul Merson che racconta che “Tony entrò in una difesa che comprendeva due nazionali inglesi, Anderson e Sansom, e il difensore centrale dell’Eire, capitano dell’Arsenal e uno dei più forti difensori dell’epoca, David O’Leary.

… dopo 3 partite da titolare era Tony che “guidava” la difesa, dando indicazioni a tutti e richiamandoli per ogni errore commesso … se non è carisma questo !”

 

E’ il 6 maggio del 1990. L’Arsenal ha appena chiuso una stagione deludente, con un 4° posto non all’altezza delle aspettative. I calciatori sono attesi all’aeroporto di Heathrow per il classico tour di fine stagione che li porterà nel Sud Est Asiatico.

Tony Adams, fra la sorpresa di molti osservatori, non è entrato nei 22 che Bobby Robson porterà con se ai Mondiali che si disputeranno da lì a poche settimane in Italia.

Per Adams è un boccone amarissimo da ingoiare.

Si accorge che c’è ancora un po’ di tempo a disposizione prima di presentarsi al ritrovo con i compagni e lo staff dei Gunners. Decide di fermarsi in un pub per bere “un paio” delle sua amate Guinness.

Alcuni avventori lo riconoscono e con qualche birra in corpo per Tony diventa assai più facile socializzare. Viene invitato da alcuni di loro ad un barbecue organizzato poco distante.

“Che male c’è ?” pensa Adams in quel momento.

Quella piccola festicciola in realtà si trasforma nella possibilità perfetta di dimenticare le delusioni professionali. Adams è l’invitato di lusso, il “re” della festa e lui non ama tradire le aspettative.

Inizia a bere in modo smodato.

Quando guarda l’orologio si accorge che manca meno di un’ora all’imbarco.

Da Billericay ad Heathrow il tempo non è sufficiente.

Sale sulla sua Ford  Sierra e si lancia in una corsa disperata ad oltre 100 miglia all’ora.

Perde il controllo della vettura e si va a schiantare contro un muro nei pressi di Rayleigh.

Quando arriva la polizia gli viene fatto il test alcolico: Tony Adams è quattro volte oltre i limiti consentiti.

“Quel giorno mi misi la cintura di sicurezza. All’epoca non la mettevo mai. Mi dissero che fu proprio la cintura di sicurezza a salvarmi la vita”.

Per Tony arriva una condanna. Quattro mesi in carcere che Adams accetta senza opporsi e senza presentare appello.

“Ho sbagliato. E’ giusto che paghi” dirà Tony con grande dignità.

Potrebbe essere la svolta. Il segnale che occorre dare un taglio netto a certe abitudini.

Non sarà così.

Ci vorranno altri cinque anni d’inferno prima di trovare la forza di riemergere.

“Ho giocato diverse partite in cui ero ancora ubriaco o con i postumi di una forte sbronza. Una volta addirittura contro lo Sheffield United arrivai ancora sotto i fumi dell’alcol. Nello spogliatoio prima della partita continuavo a scherzare, a fare battute e a ridere io stesso come un idiota. Se ne accorsero tutti i miei compagni. Andai in campo, vincemmo la partita, segnai un gol di testa e fui eletto miglior giocatore del match. Questo a quei tempi mi confuse ancora di più. Pensavo davvero di potermi permettere TUTTO.” ricorda di quel periodo Tony.

L’arrivo di Arsene Wenger e la decisione di Tony di smettere con l’alcol saranno due componenti fondamentali nella carriera di Tony che da quel momento in poi rivivrà una seconda giovinezza calcistica, che culminerà con il trionfo in campionato e in FA CUP nella stagione 2001-2002, quella che sarà l’ultima da calciatore professionista per Tony Adams, alias “MR. ARSENAL”.

 

Quello che però è probabilmente il più importante “trofeo” di Tony Adams è la creazione del suo “SPORTING CHANCE”, una clinica creata appositamente per aiutare atleti ed ex-atleti in difficoltà, soggetti ad ogni tipo di “dipendenza”. Sono in tanti quelli passati per quel centro, professionisti più o meno famosi che riconoscono a Tony Adams e allo staff dello Sporting Chance il merito di aver contribuito in maniera determinante per permettere loro di uscire da varie situazioni di disagio.

Questo oggi è Tony Adams, un uomo che, come ama dire lui stesso “Sa apprezzare la vita in tutti i suoi aspetti e che ha fatto in tempo a recuperare un po’ del tempo perduto in quegli anni di stupidità e di oblio”.

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JOHN PEEL: La musica inglese tifa LIVERPOOL.

di DIEGO D’AVANZO

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Heswall: il rifugio estivo degli imprenditori di Liverpool che vogliono rischiararsi i

polmoni, a soli 20 minuti di macchina dalle ciminiere del fiume Mersey, e a pochi passi

dal freddo (ma pulito) Mare d’Irlanda. In questo luogo nasce nel 1939 John Parker

Ravenscroft.

Toffees o Reds? Le opzioni sono queste ma il richiamo dei “Busby Babes” è forte,

difatti nella Boarding School: “Eravamo in 80 e 78 tifavano Manchester United,

l’altro odiava il calcio”. Nè una molestia sessuale subita nè la spirale del silenzio lo

ammutoliscono, anzi, l’unico rosso che può vedere è solo quello del Liverpool.

La smania per i calci al pallone sulla schiena di suo fratello è forte come quella per la

musica, entrambe fomentate negli Stati Uniti dove si trasferisce dopo il servizio

militare. I lavori sono tanti ma nessuno gli riesce bene come la radio e il suo accento

di Liverpool non è più un difetto, una band di quattro ragazzi sta spopolando in tutto il

mondo e lui finge di esserne amico intimo: diventa ospite fisso in diversi

programmi.

 

John torna in Inghilterra con progetti diversi e una moglie 15enne, matrimonio

controverso negli States e illegale in Gran Bretagna, il trapianto culturale suscita un

rigetto istantaneo e il divorzio è l’unica cura.

Nel 1967 entra nella “Radio London” e si presenta come John Peel, pseudonimo con

cui si sposta alla “BBC Radio 1” per diventare un talent scout musicale con il

programma “Top Gear”. L’occhio e l’orecchio sono già allenati da bambino perché

individuare Billy Liddell (300 gol con il Liverpool) sul gremito bus verso Anfield Road

non è facile, spingere per avvicinarsi ancor di meno, e riconoscerlo solo dal suono

della camminata è (quasi) impossibile. E che sia il rumore di una scarpa, una chitarra

o una voce… John Peel sa scegliere quello giusto.

15 dicembre 1967: ospite Jimi Hendrix. 24 dicembre: un 20enne David Bowie.

David Bowie canta 6 pezzi nel 1967, registrazioni rilasciate solo nel 2014

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Le trasmissioni continuano e, tra la scoperta dei Sex Pistols e la presenza di Bob

Marley, John Peel si trasferisce nel calmo (come lui) Suffolk con la nuova

compagna e fa la spola tra Londra e la sua Liverpool, una sola volta a settimana. John

ogni sabato all’alba diventa l’eremita di Anfield: cinque ore all’andata, due bicchieri

d’amaro, partita dei Reds, cinque ore al ritorno; senza proferire parola.

Peel s’intende di musica e ritiene che “You’ll Never Walk Alone” sia la colonna

sonora migliore per il suo secondo (e ultimo) matrimonio nel 1974, la marcia

nuziale la lascia ai veri cattolici, perchè “La differenza tra la religione e il calcio è che

del secondo puoi averne la dimostrazione ogni sabato pomeriggio, ed è una

soddisfazione enorme”.

I lunghi e muti viaggi calcistici finiscono con la nascita dei quattro figli, la paternità

limita la fede ma non la estirpa, anzi, la infonde direttamente in chi dovrà continuare

la tradizione: Alexandra Mary Anfield, Florence Victoria Shankly, Thomas James

Dalglish e William Robert Anfield sono i nomi dei bambini.

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Nessuno dei suoi figli si chiama “Keegan” perchè i nomi degli Dei non si proferiscono

invano ma, proprio da Keegan, John Peel riceve in omaggio due biglietti per una

Finale di Coppa Campioni: quella sbagliata. Lui e sua moglie sono all’Heysel nel

1985 e il martirio calcistico li sfiora, il dogma di fede di Peel si allenta; rimane

presente ma deve ben tollerare quello della consorte per l’Ipswich Town.

Tempio di musica e pallone diventa la sua casa “Peel Acrees” nel Suffolk, dove si

ospitano programmi e cantanti ma alla sola condizione che non tifino Arsenal. Passare

dalle “Peel Sessions” è il rito d’iniziazione per gli artisti inglesi e tutti vanno in

pellegrinaggio anche negli anni ’90.

 

Superati i 60 anni la sua fama aumenta anche tra i ragazzi: età diverse con le

medesime orecchie che non si ovattano nel passato ma s’aprono al prossimo

innamoramento, al prossimo talento che stupirà solo chi sarà in grado di

comprenderlo. John Peel filtra il tutto e insegna cultura musicale a chi è troppo

giovane e dà ripetizioni di “presente” a chi si rifiuta di viverlo, quasi sempre da

casa sua. Come nel calcio in cui lui non correva ma era “Tremendamente bravo a fare

gli assist”.

L’unico sogno di Peel che si fa vincere dall’età è quello di non poter giocare nel

Liverpool: “Teenage Dreams, so hard to beat” è difatti la colonna sonora che

accompagna e finisce la sua partita a 65 anni.

Il destino fischia tre volte nel 2004 con un infarto mentre è in Perù, due anni dopo

aver saputo di essere il 43° Britannico più importante secondo la BBC: davanti a

Bobby Moore, David Bowie e Re Artù. Perchè John ha vissuto a metà tra calcio e

musica, con un segnaposto fisso alla Tavola Rotonda di entrambi.

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FERNANDO GAGO: Per amore di un figlio.

di REMO GANDOLFI

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“Fin da ragazzino quando giocava nella Quinta del Boca aveva già quella sua caratteristica che lo ha contraddistinto per tutta la carriera.

Quella di avere sempre più “tempo” di tutti gli altri con il pallone tra i piedi.

La frenesia nel gioco dei ragazzini è proverbiale.

Hanno il pressing innato. Corrono tutti, come forsennati.

Poi trovi quello che sa dribblare gli avversari come birilli, quello veloce come un fulmine, quello con il fisico già da uomo fatto e finito o quello che lotta su ogni pallone come un leone affamato.

Fernando Gago non aveva nessuna di queste caratteristiche.

Ad un occhio distratto non spiccava come altri che ti “prendevano lo sguardo” con finte, tunnel e serpentine.

Però bastava guardare con un po’ più di attenzione e ti accorgevi che “El Pintita” aveva sempre il modo di alzare la testa, scegliere l’opzione migliore e non sprecare un solo pallone.

Giocava fin da allora moltissimi palloni “a due tocchi”, dando la netta sensazione di sapere già cosa fare PRIMA che il pallone gli arrivasse tra i piedi.

Il suo primo tocco di palla era impressionante.

Era sempre orientato verso la zona di campo più tranquilla, evitando con quel singolo tocco il pressing o il tackle degli avversari guadagnandosi quel “tempo” che gli permetteva, con il secondo tocco, di mettere la palla dove voleva.

A volte invece potava poteva anche farne 5 0 6 consecutivi, evitando con eleganza gli interventi degli avversari in attesa dello smarcamento di un compagno o di una opzione migliore.

Quante volte ho dovuto difenderlo dalle critiche di altri Bosteros che lo definivano “troppo lento per giocare in prima squadra”.

Che idioti.

Quando sei il più veloce “di cervello” cosa te ne frega di esserlo anche con le gambe ?

Per fortuna “El Coco” Basile la pensava come il sottoscritto e quando arrivò nel luglio 2006 Fernando diventò immediatamente il padrone della maglia numero “5”, quella che da noi è sempre stata quella assegnata al regista difensivo, quello che faceva da frangiflutti davanti alla difesa e quello da cui ripartivano tutte le azioni.

Vincemmo tutto quello che si poteva vincere nei 13 mesi di permanenza di Basile alla Bombonera.

Due campionati, due Recopa Sudamericana e una Copa Sudamericana, vinta alla Bombonera ai calci di rigore con l’indimenticabile penalty decisivo realizzato dal nostro adorato n° 1, “El Pato” Abbondanzieri.

Che squadra amici miei ! Con “El Cata” Diaz e “El Flaco” Schiavi avevamo due difensori centrali fantastici e poco ci portava se lontano dalla Bombonera non erano stimati come avrebbero dovuto. Battaglia e Insua nel mezzo, con due giovanotti come Ledesma e Schelotto che stavano diventando ogni giorno più forti e davanti El Tanque Martin Palermo con un ragazzino terribile, appena arrivato dal Banfield, che si chiamava Rodrigo Palacio.

Non ci vollero tutti quei 13 mesi per capire che “El Pintita” era un fuoriclasse assoluto.

Gago per la squadra era come l’olio nel motore di un automobile.

Spesso non ti accorgevi neppure che c’era, tanto il suo lavoro era discreto quanto indispensabile.

Te ne accorgevi quando mancava.

Come l’olio nel motore.

Il problema era che se ne erano accorti tutti, in Sudamerica e in Europa.

Quando arrivò il Real Madrid ce lo porto via con un assegno da 27 milioni di dollari fu impossibile dire di no.

Qualcuno lo reputava troppo giovane per un palcoscenico del genere.

A noi importava poco.

Tanto sapevamo che, un giorno o l’altro, dopo un anno o dopo 10, Fernando Gago sarebbe tornato da noi.”

GAGO REAL)

E’ il 10 marzo del 2009.

All’Anfield Road di Liverpool si sta giocando la gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League. All’andata i Reds si sono imposti al Bernabeu per una rete a zero e affrontano il “retour match” con grandi possibilità di entrare nelle ultime 8 squadre in lizza per il trofeo.

La partita è a senso unico. Il Real, nonostante la presenza di giocatori del valore di Raul, Sneijder, Cannavaro, Ramos, Robben e Higuain viene spazzato via dalla furia dei Reds con Fernando Torres e Steven Gerrard sugli scudi.

Fernando Gago sarà una figura periferica e quasi inconsistente per buona parte del match e il ritmo ossessivo imposto dagli inglesi di Rafa Benitez spazza via senza difficoltà il centrocampo delle Merengues.

Gago viene sostituito ad un quarto d’ora dalla fine ma la sua prestazione è troppo deficitaria per non nascondere altre ragioni.

Quella sera per Gago inizieranno quei problemi ai tendini di Achille che condizioneranno il resto della sua carriera.

“Non volevo fermarmi. Giocai con infiltrazioni continue per lenire quel dolore che una volta uscito dal campo mi condizionava la vita. Anche una semplice passeggiata mi provocava dolore. Ghiaccio, fisioterapia e infiltrazioni. Sono andato avanti così per anni.” Ricorda Gago di quel periodo.

I suoi problemi fisici iniziano a condizionare il suo gioco e le sue presenze nel Real Madrid.

L’arrivo di Josè Mourinho sulla panchina madridista riduce ulteriormente le possibilità di Gago di trovare spazio in prima squadra.

Al termine della stagione 2010-2011 Gago viene escluso dalla rosa del Real.

Va un anno in prestito alla Roma (dove giocherà a buoni livelli) per poi trasferirsi al Valencia con un contratto ben remunerato e della durata di 4 anni.

Nel Valencia non riesce a giocare con continuità e questo incide sul suo rendimento.

Gago è pronto per tornare in Argentina ma fra la sorpresa generale non sarà il “suo” Boca a riprenderlo ma il Velez Sarsfield con cui gioca un pugno di partite ma ritrovando però sensazioni importanti.

Ma il Boca non si è dimenticato di lui e dopo una lunga ed estenuante trattativa il Valencia accetta l’offerta del Boca per la metà del cartellino di Gago.

Fernando torna alla Bombonera e ritrova tutto come lo aveva lasciato.

L’amore del caldissimo pubblico Xeneizes, una squadra che sta pian piano tornando competitiva e soprattutto il suo ruolo di incontrastato regista del team.

Siamo nel 2015.

Un Boca sempre più competitivo si sta avviando alla conquista del titolo.

E’ il 13 settembre del 2015 quando al Monumental va in scena il Superclasico.

Il River Plate, ormai tagliato fuori dalla lotta per il titolo, può solo cercare di fare lo sgambetto ai rivali favorendo così il San Lorenzo nella lotta per il titolo.

Ci si attende la solita battaglia senza esclusione di colpi nella magica atmosfera del Monumental.

Il match di Gago durerà la bellezza di 30 secondi scarsi.

Il suo tendine d’Achille della gamba sinistra si spezza.

Quel giorno inizierà un calvario autentico per il povero Fernando che saprà comunque sempre rialzarsi, tornando a giocare a livelli strepitosi nella stagione successiva prima di rompersi nuovamente il tendine d’Achille della gamba destra e ancora una volta in un Superclasico contro il River.

Altri 7 mesi fuori ma quando rientra, a metà del Torneo della stagione 2016-2017, Gago gioca probabilmente a livelli mai visti in carriera. Alcune sue performance, come quella nella vittoria contro il San Lorenzo o nel trionfo contro il Racing Club, sono di primissimo livello … tanto che “El Pintita” rientra nel giro della Nazionale Argentina.

Il 5 ottobre del 2017 in un incontro determinante per la qualificazione ai Mondiali di Francia contro il Perù L’Argentina non riesce a sbloccare il risultato.

La qualificazione è in pericolo.

Un evanescente Banega viene sostituito. Al suo posto, dopo un quarto d’ora dall’inizio del secondo tempo,

Fernando Gago viene buttato nella mischia. Alla “Albiceleste” manca raziocinio in mezzo al campo e né il genio di Messi né la vitalità di Di Maria e Benedetto sembrano sufficienti ad abbattere il muro difensivo dei peruviani allenati dall’argentino Ricardo Gareca.

La partita di Fernando Gago dura la bellezza di 4 minuti prima che il suo ginocchio destro ceda.

Nessun contrasto, nessuna torsione particolare o entrata assassina.

Ma il crociato ha ceduto.

Terzo gravissimo infortunio in due anni esatti.

Molti, con meno “huevos” di Gago avrebbero probabilmente detto basta.

Invece no.

Nella primavera del 2018 Gago torna in campo.

Per lui, oltre alla sua maglia numero 5, c’è anche la fascia di capitano della squadra.

Si dice che il fulmine non colpisca due volte nello stesso posto.

Non per Gago.

Per lui sono tre.

Ancora una volta il Superclasico e stavolta nell’occasione peggiore possibile.

La finale di Copa Libertadores, giocata a Madrid il 9 dicembre del 2018.

Gago entra a due minuti dal termine dei tempi regolamentari sul risultato di 1 a 1.

Si va ai supplementari ma per il Boca arriva la tegola dell’espulsione di Barrios.

Nel secondo tempo supplementare Juan Fernando Quintero porta in vantaggio il River.

Schelotto, nonostante la squadra in 10, gioca la carta dell’Apache Carlos Tevez al posto del terzino Buffarini. E’ la classica mossa de “o la va o la spacca”.

A “spaccarsi” però è ancora una volta lui, Fernando Gago, a cui stavolta cede il tendine d’Achille destro.

Stavolta è la fine.

A marzo dell’anno successivo Gago rescinde il contratto con il Boca e annuncia il suo ritiro.

Sono passati 10 anni esatti da quella maledetta sera dell’Anfield Road.

32 anni sono pochi, troppo pochi per un calciatore che proprio a causa di questi continui guai fisici non ha potuto mai far vedere, se non per brevi periodi, il suo immenso valore.

Ma ci sono storie che sembrano non finire mai.

Perché c’è qualcuno che lotta disperatamente per cambiarne il corso.

Stavolta è un bimbo di 6 anni.

Si chiama Mateo.

Mateo Gago.

Quando il padre gli comunica che dovrà smettere di giocare il bimbo scoppia in un pianto inconsolabile.

“Papy, yo quiero verte en la cancha, cuando vas a volver ? Por favor papy !” gli chiede incessantemente il piccolo nei mesi successivi.

Come si fa a dire di no ad un figlio ?

Fernando Gago ricomincia piano piano a corricchiare, poi a toccare il pallone e poi ad allenarsi con maggiore continuità.

C’è una gloriosa squadra argentina. Il Velez Sarsfield, che gioca un bel calcio perché così vuole il suo allenatore che si chiama Gabriel Heinze.

Ha dei ragazzi promettenti, alcuni molto promettenti (Thiago Almada) ma occorre un “cervello fino” che organizzi il gioco, che detti i tempi, che faccia da … olio nel motore del team.

“El Gringo” Heinze si ricorda del suo amico Gago.

Il 18 di giugno Fernando Gago torna ad essere un giocatore di calcio.

Firma un contratto “a rendimento” con il Velez.

gago velez

Torna in campo, gioca, corre e mette la sua intelligenza tattica a disposizione del team.

… sapendo che ogni partita potrebbe essere l’ultima … ma sapendo che, quando fai un figlio felice, hai fatto la cosa più bella del mondo.

ANEDDOTI E CURIOSITA’

I primi anni al Boca non sono facili per “El Pintita” Gago.

E’ piccolino per la sua età e molto fragile fisicamente.

Il carattere però non gli manca.

Un giorno chiede un incontro con il responsabile del settore giovanile del Boca, il celeberrimo Ramon Maddoni, mentore sportivo e “umano” di tante generazioni di ragazzi cresciuti nella cantera del Boca.

“Voglio il mio cartellino” gli dice il ragazzino “Sono stanco di andare in panchina” rinforza il piccolo Fernando.

“Tu vuoi giocare in Segunda B o in Primera ?” gli chiede il dirigente.

“In Primera” risponde convinto Gago.

“Allora porta un po’ di pazienza e tu in Primera ci giocherai molto presto. Ma non in una squadra qualsiasi. Qui nel Boca Juniors” fu la sentenza di Maddoni. Che non si sbagliò.

 

Una delle peculiarità di Fernando Gago è sempre stata la sua gentilezza e disponibilità, soprattutto con i fan più giovani. “Da ragazzino qualche volta mi capitò di essere trattato freddamente da qualche giocatore famoso. Allora mi dissi che quando sarebbe toccata a me non mi sarei mai comportato così per nessuno motivo. Regalare un sorriso, un autografo o un piccolo consiglio ad un ragazzino è una delle cose che personalmente mi rendono più felice”.

 

Fernando Gago è sposato con Gisela Dulko ex-tennista professionista. Il tennis è uno dei passatempi preferiti anche di Fernando che però è costretto ad ammettere che “non c’è partita. Vince lei senza quasi forzare” aggiungendo poi con orgoglio “Però a ping-pong vinco io !”

 

Al tempo stesso Gago ha sempre avuto un carattere molto determinato (il rientro da 4 infortuni gravissimo ne sono una prova inconfutabile) con una grande professionalità che esercita in ogni situazione ma che pretende anche dagli altri.

“E’ un carattere davvero tosto” dice di lui il suo nuovo “mister” Heinze.

“E’ al Velez da pochi mesi ma credo che qui al Fortin abbia già litigato con tutti. Per ora l’unico a salvarsi è stato il cuoco !”.

 

Dalla famosa partita di Anfield i problemi al tendine d’Achille diventano una costante con cui il forte centrocampista argentino dovrà convivere per anni.

“Non sapevo più cosa voleva dire non avere dolore. Mi allenavo con una scarpa di due numeri più grandi, camminare scalzo o sulla sabbia era insopportabile. Perfino quando dormivo dovevo tenere la gamba destra fuori dal letto perché appoggiarla al materasso mi provocava dolore”.

I medici mi avevano detto chiaramente che il mio tendine d’Achille poteva rompersi in qualsiasi momento. Non solo giocando a calcio ma camminando, o guidando l’automobile.

Ci pensavo tutti i giorni durante la settimana … ma quando entravo in campo mi dimenticavo di tutto e giocavo con la massima serenità.

 

Da sempre esiste una grande affinità calcistica tra Fernando Gago e Leo Messi. Compagni di squadra nelle nazionali giovanili, poi nel team che vinse a Pechino la medaglia d’oro olimpica e in seguito nella Nazionale maggiore.

Ma c’è una persona che Fernando Gago ammetterà essere stata decisiva nella sua formazione di calciatore:

Luis Enrique, l’allenatore spagnolo che Gago trovò quando arrivò alla Roma nell’estate del 2011.

“Mi insegnò tantissimo, insegnandomi un modo diverso di vedere il calcio. Per me ci fu un “prima” e un “dopo” Luis Enrique. E in più, avendo allenato il Barcellona e Leo Messi, mi fece capire quale era la maniera migliore per servirlo, in quali zone del campo e in che preciso momento del gioco.” Aggiungendo, fra la sorpresa di molti, che quella stagione a Roma è stata quella “dove mi sono divertito di più giocando a calcio perché giocavamo con l’idea che avevo io del calcio”.

 

Fin dagli inizi della sua carriera Gago è stato paragonato a un altro grandissimo “5” del calcio argentino: Fernando Redondo. Sono effettivamente tante le cose in comune tra i due.

L’eleganza nei movimenti (e anche la non eccessiva velocità degli stessi), la visione di gioco, la capacità di recupero del pallone e la distribuzione precisa ed efficace.

Una cosa era però peculiare per entrambi: la capacità, come dicono in Argentina di “esconder el pase” ovvero di ingannare gli avversari sulla zona dove effettivamente il passaggio sarebbe stato diretto. Guardare una zona del campo, un determinato compagno di squadra e poi servirne un altro, in una zona completamente diversa lasciando così impreparati i rivali.

 

… dimenticavamo … Fernando Redondo è stato l’idolo assoluto di Fernando Gago … il che, come potete facilmente immaginare, spiega parecchie cose.

 

POSTILLA:

A fine gennaio 2020 per Gago è arrivato l’ennesimo grave infortunio. Stavolta è il crociato del ginocchio sinistro.

Molti affermano che questo sarà l’ultimo e che Gago non ce la farà più stavolta a tornare in campo.

… siete sicuri ?

 

 

 

 

 

 

 

 

MASSIMO MORGIA: Il Bielsa italiano.

di REMO GANDOLFI

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E’ il 9 giugno del 1977.

Massimo Nobile e Claudio Cavalieri stanno viaggiando a bordo della BMW 3000 di Cavalieri.

Destinazione Cassino per far visita ad un amico.

Sono entrambi calciatori dell’Avellino che a due giornate dalla fine è invischiato nella lotta per non retrocedere in quel campionato di Serie B.

Sono nei pressi di San Nicola la Strada e sono quasi le 9 di sera quando Claudio Cavalieri perde il controllo del suo potente mezzo che sbanda e va a finire la sua corsa contro un pilastro in cemento a bordo strada.

I due ragazzi muoiono sul colpo.

Hanno entrambi 23 anni.

Massimo Nobile  era il miglior amico di Massimo Morgia.

Massimo Morgia fa l’allenatore di calcio.

E’ uno di quelli con la valigia perennemente pronta.

Non solo perché il cambiamento è parte integrante della sua professione ma anche e soprattutto perché Massimo Morgia non accetta compromessi.

Se le promesse non vengono mantenute ci mette un nano secondo a strappare un contratto, salutare e ripartire altrove con la sua vita e la sua carriera.

Massimo Morgia e Massimo “Massimino” Nobile sono cresciuti insieme, nel quartiere San Paolo di Roma.

Sono amici fin dall’infanzia.

Ci sono tre anni di differenza tra loro.

Massimo Morgia è come un fratello maggiore e Massimino Nobile si fida ciecamente di lui.

Morgia prima lo porta con se alla OMI Roma dove i due condivideranno campo e spogliatoio con un ragazzino taciturno, timidissimo ma di grande talento: si chiama Agostino Di Bartolomei.

Massimo Morgia fa il difensore.

E’ alto, forte fisicamente, tenace e volitivo. E’ eccellente nell’anticipo e nel colpo di tesa.

Ma è uno di quei difensori che hanno cervello, che sanno “leggere” la partita e i movimenti degli attaccanti.

E i piedi sono migliori del classico stopper del periodo.

Massimino invece è il classico centrocampista completo.

Corsa, grinta ma anche piedi “educati”.

Morgia nel 1973 va al Rovereto, in serie D.

Serve un centrocampista di corsa e temperamento ma che abbia anche qualità.

“Conosci Massimo Nobile ?” gli chiede un dirigente.

“Certo” risponde Morgia. “Se potete acquistatelo oggi stesso.”

Nobile arriva a Rovereto a novembre.

I due giocano una eccellente stagione e per entrambi arriva la chiamata dell’ambiziosa Nocerina, squadra che gioca in Serie C.

E’ la stagione 1974-1975.

Al sud il calcio è calore, passione, è tifo spesso “cieco”.

Nel bene e nel male.

La squadra non ottiene i risultati attesi.

C’è in pericolo la categoria.

C’è tanta rabbia e i tifosi contestano la squadra.

Quando tirano quelle arie meglio non farsi vedere troppo in giro.

I due passano mesi interi praticamente in clausura, segregati in un convitto fuori città.

Poi Massimo Morgia si rompe le scatole di questa situazione e fa quello che non hanno il coraggio di fare i “vecchi” dello spogliatoio.

Va a parlare con i tifosi.

“Molto probabilmente come calciatori siamo delle mezze seghe ma vi garantisco che in campo ci mettiamo l’anima in ogni partita” dice loro Morgia in tono deciso.

Aggiungendo “e adesso se volete menatemi pure”.

Nessuno si azzarderà a toccarlo. Anzi. La stima per quel difensore roccioso, tenace e passionale da quel giorno aumenterà ulteriormente.

A fine stagione arriverà la salvezza mentre quella successiva sarà addirittura eccellente, con un 7° posto finale di tutto rispetto.

Al termine di quella stagione le loro strade si divideranno.

Massimo Morgia andrà alla Lucchese, sempre in C, dove incontrerà l’amore della vita, Annalisa e dalla quale avrà una figlia che chiamerà Valentina, nome voluto fortemente da Massimo perché così si chiamava la figlia del suo mentore Giovanni Meragalli.

Per “Massimino” Nobile c’è l’Avellino che milita nel campionato di serie B.

Per Morgia è una stagione maledetta. Ha grossi guai alla caviglia.

La sera prima dell’incidente Nobile cerca il suo amico al telefono per sentire come sta e per fare le chiacchiere rituali che due grandi amici hanno bisogno di fare, specie ora che le loro carriere hanno preso strade diverse.

Nobile non riesce a rintracciare Morgia.

L’ultimo tentativo è chiamare a casa della madre di Massimo.

Non è neppure lì ma con la madre di Morgia si conoscono da una vita e passano più di un’ora al telefono.

Quando Massimo arriverà sul luogo dell’incidente troverà diversi gettoni telefonici sparsi per terra … sono quelli rimasti dopo la telefonata fiume con la madre della sera prima.

 

Siamo nell’estate del 2017.

Massimo Morgia ha chiuso da pochi mesi la sua avventura all’Aquila.

Arriva una telefonata. E’ Nicola Padovano, il Presidente della Nocerina.

Offre a Massimo Morgia la panchina dei rossoneri campani.

La Nocerina è in Serie D.

Ci sono ambizioni ma ci sono anche altre Società con risorse economiche importanti.

Dalla sua la Nocerina ha un pubblico fedele e caloroso.

“I Molossi” hanno pochi rivali quando si tratta di spingere la propria squadra.

A Massimo Morgia tornano in mente le due stagioni passate a Nocera da calciatore.

Anni intensi, non sempre facili ma felici … insieme al suo grande e sfortunato amico Massimo Nobile.

Morgia accetta. Sarà lui il nuovo allenatore dei rossoneri.

“Lo devo al mio amico Massimino” saranno le sue prime parole dopo la firma.

Passa una settimana.

Arriva un’altra telefonata.

E’ una di quelle che ti cambiano la vita.

L’Albania offre a Massimo Morgia il ruolo di Direttore Tecnico di tutte le Nazionali del paese.

Contratto di 5 anni. Ottimamente remunerato.

E’ il coronamento di una carriera, un sogno che diventa realtà.

Dopo più di 25 anni su panchine di serie C e serie D su e giù per l’Italia sempre con lo stesso entusiasmo, lo stesso indomito spirito, lo stesso coraggio e la stessa coerenza dimostrando ovunque è andato che può esistere un altro concetto di calcio, più onesto e pulito.

E dove il denaro non è l’unico parametro  che conta.

Non lo sarà neppure stavolta per Massimo Morgia.

Ha firmato un contratto e soprattutto ha dato la sua parola d’onore alla Nocerina.

E questo è tutto quello che conta.

A  Nocera Massimo Morgia crea un gruppo eccezionale, coeso e affiatato.

Talmente forte e compatto che le vicissitudini societarie quasi non li sfiorano.

Dritti e avanti per la loro strada, fatta di vittorie e di pezzi di cuore lasciati in campo in ogni partita.

E poi ci sono loro, i “molossi”. Come numero non sono più quelli degli anni d’oro, ma come passione, calore, partecipazione e incitamento sembrano cinque volte tanti.

Tutti insieme hanno provato a fare un miracolo.

Uno dei tanti della carriera di questo baffuto capellone (si, Morgia ha ancora la stessa chioma di quando giocava, figlia di quel ’68 che porta ancora nel cuore).

La Nocerina ha lottato gomito a gomito per la promozione diretta contro Vibonese e Troina fino alle ultime giornate, con risorse infinitamente inferiori e con una rosa più ristretta e molto più giovane.

Non ce l’ha fatta, ma non è questo che conta

Di certo c’è che a Nocera, come a Mantova nella stagione successiva è successo esattamente quello che è a Palermo, a  Siena, a Pistoia, a Marsala e in tutti gli altri posti in cui ha lavorato.

L’impronta lasciata da Massimo Morgia non sarà così facilmente cancellata dal tempo.

A Nocera ad esempio, in occasione del compleanno di Massimo, i “Molossi” glielo hanno dimostrato.

C’era uno striscione enorme a lui dedicato.

“Maestro di esempi e di valori di altri tempi. Auguri Mister”.

Ecco, in questo striscione c’è tutto Massimo Morgia.

C’è l’uomo che strappa un contratto perché, come ad Aquila, hanno mancato di rispetto ad un amico, c’è l’uomo che a Pistoia crea un settore giovanile quasi dal nulla e premia i ragazzi facendoli allenare ed apprendere dai calciatori della prima squadra.

E soprattutto c’è l’uomo che quando allenava la Juve Stabia vede due dei suoi ragazzi, Brunner e Radi, essere inseguiti, minacciati e picchiati dai propri tifosi e non può fare a meno di denunciare la cosa in mezzo ad un mare di omertà.

E quell’omertà, quell’apatia, quel disinteresse vergognoso lo svuotano dentro.

A tal punto che decide di mollare tutto.

“Perché questo” parole di Massimo Morgia “non ha niente a che vedere con il calcio che amo e che cerco di insegnare ai miei ragazzi”.

Massimo Morgia ha mille interessi. Legge Hermann Hesse e Oriana Fallaci, ama la storia contemporanea, sa tutto delle Rivoluzioni (riuscite e tentate) in America Latina e ama molti dei suoi protagonisti.

Mette tempo libero e denaro nell’aiutare bambini disabili e con la sindrome di Down, la stessa di cui soffre il suo adorato Paolino, il fratello della moglie.

Massimo starà lontano tre anni da quel mondo che da sempre è il suo mondo fino a quando l’amico Walter Novellino lo vorrà a tutti i costi con se a Livorno, a fargli da braccio destro.

Così la favola di Massimo Morgia può ricominciare, passando anche dalla Nocerina nel ricordo del suo grande amico Massimo Nobile.

E meno male che questa favola è ricominciata !

Perché di persone come Massimo Morgia, nel calcio, non ce ne saranno mai abbastanza.

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POSTILLA

Oggi Massimo Morgia allena il Chieri.

Sempre serie D, dopo le eccellenti stagioni a Nocera e a Mantova nella scorsa stagione.

Stagioni dove l’obiettivo “risultato” è stato solo sfiorato.

Ma come diceva il grande Johan Cruyff “ci sono allenatori che ottengono risultati … ma i risultati sono l’UNICA COSA che ottengono. Non lasciano nulla nell’anima di nessuno, non lasciano insegnamenti, stile o eredità”.

Ecco, se avete occasione chiedete a chiunque abbia lavorato con Massimo Morgia o a chi lo ha conosciuto e nelle città dove ha vissuto per lavoro … la traccia che ha lasciato vale molto di più di qualsiasi risultato sportivo.

Un altro così, con questo spessore umano, questa onestà intellettuale e con questo approccio alla vita e al calcio è un signore nato a Rosario, in Argentina, 65 anni fa.

Oggi allena in Inghilterra e il suo nome è Marcelo Bielsa.

 

PARTITE NELLA STORIA: Il miracolo di Cordoba.

di REMO GANDOLFI

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E’ il 25 gennaio del 1978.

Si gioca la gara di ritorno per la finale del campionato argentino tra il TALLERES di Cordoba e l’INDEPENDIENTE. All’andata, sul campo dei “Diablos Rojos”, è finita uno a uno.

Nei giorni precedenti la gara di ritorno si sono moltiplicate le voci su presunte pressioni della giunta militare che da quasi due anni è al potere in Argentina dopo il colpo di stato del marzo del 1976 a favore dei “Tallarines”.

Bastano pochi minuti di partita per rendersi conto che non erano affatto semplici “voci”.

L’arbitro dell’incontro, il Signor Barreiro, fischia a senso unico a favore dei padroni di casa.

Ma nonostante questo è l’Independiente a portarsi in vantaggio dopo nemmeno mezz’ora di gioco.

E’ Norberto Outes che con un preciso colpo di testa porta in vantaggio i “diavoli rossi”.

Il Talleres accusa il colpo è nonostante l’incessante incitamento dei propri tifosi pare assai più probabile il raddoppio del “Rojos” che il pareggio del Talleres.

A questo punto però entra prepotentemente in gioco il Sig. Barreiro che prima si inventa un calcio di rigore a favore dei padroni di casa (trasformato da Cherini) e poi, ad un quarto d’ora dalla fine, giudica regolare il gol del due a uno dei padroni di casa di Boccanelli, segnato clamorosamente con una mano !

L’incontro è ribaltato. Con questo risultato il Talleres è campione d’Argentina.

I tifosi dell’Independiente sugli spalti iniziano ad inveire contro il direttore di gara e il coro che si leva dalla zona dello stadio dove sono assiepati i tifosi dei “rossi di Avellaneda” è inequivocabile: “ladrones, ladrones asi salen campeones !”.

In campo la situazione nel frattempo precipita.

Il capitano dell’Independiente, Ruben Galvan, si avvicina all’arbitro Barreiro “Ho due figli che mi stanno guardando e mi vergogno di essere in campo con uno come te. Per favore, buttami fuori”.

Il Signor Barreiro non aspetta altro. Cartellino rosso per il centrocampista dei “Rojos”.

A questo punto si avvicina all’arbitro anche l’esterno Omar Larrosa. “Questo è un autentico “robo” ! Perché non butti fuori anche me già che ci sei ?”

Detto fatto. Cartellino rosso anche per il nazionale argentino.

A questo punto interviene Enzo Trossero, il gigantesco difensore centrale dell’Independiente che perde letteralmente il controllo.

All’arbitro dice tutto quello che gli passa per la testa. Il troppo è troppo.

Sarà il terzo espulso nel giro di un paio di minuti.

Per qualche secondo pare addirittura che tutta la squadra dell’Independiente sia decisa ad uscire dal campo in blocco per mettere fine a quella farsa.

La vergogna di una partita scandalosa è ora completa.

Il titolo è ormai assicurato.

Il coro trionfale dei tifosi del Talleres copre abbondantemente quello di proteste degli “hinchas” dei Diavoli rossi.

L’unico che non perde la testa è l’allenatore dei “diavoli rossi”, José Omar Pastoriza, che continua a dare istruzioni e ad incitare i suoi.

A questo punto mette dentro Mariano Biondi e Daniel Bertoni.

Quest’ultimo è reduce da un infortunio lungo e complicato.

Si dice che abbia viaggiato con la squadra solo per essere parte del gruppo.

Il suo talento è però indiscutibile, anche a mezzo servizio.

Mancano una manciata di minuti alla fine quando Ricardo Bochini, il numero 10 dell’Independiente, prende palla nella zona di metà campo.

E’ circondato da tre giocatori del Talleres.

Ne salta uno in dribbling e prima dell’intervento degli altri due appoggia la palla al suo “gemello”, il neo entrato Daniel Bertoni.

Bertoni vede l’altro sostituto, Mariano Biondi, lanciarsi in profondità.

Il forte attaccante argentino (che arriverà in Italia alla Fiorentina tre anni dopo) gli serve la palla.

E’ un passaggio splendido che filtra tra le maglie della difesa dei padroni di casa.

Biondi si ritrova solo davanti a Guibaudo, il portiere avversario, anche se un po’ defilato sulla destra. Riesce ad aggirarlo e poi con la coda dell’occhio vede un compagno di squadra, l’unico che ha seguito l’azione, al centro dell’area di rigore.

E’ proprio lui, il “Bocha”.

Biondi gli appoggia il pallone.

Sulla linea di porta ci sono due difensori del Talleres.

C’è un solo modo per essere certi di superarli.

Ricardo Bochini calcia forte, di prima intenzione dal basso verso l’alto.

“Se vogliono fermare quella palla lo devono fare con le mani !” pensa in quel momento il geniale numero 10 dell’Independiente.

La palla s’infila in rete, pochi centimetri sotto la traversa della porta del Talleres.

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Per una frazione di secondo c’è un silenzio irreale.

Nella cancha e sugli spalti … prima dell’esplosione di gioia delle migliaia di tifosi dell’Independiente.

E’ il gol del due a due.

Il gol che consegna il titolo a Bochini e compagni.

Nei 6 minuti rimasti gli undici del Talleres non riescono a piegare la resistenza epica degli 8 giocatori dell’Independiente.

E il Signor Barreiro non riuscirà a inventarsi nient’altro per sovvertire ancora una volta l’esito di questo match.

L’Independiente, ancora una volta, è campione d’Argentina.

In barba alla giunta militare, a colonnelli tifosi e ad arbitri corrotti.

Quella sera, per l’eternità, sarà ricordata come “il miracolo di Cordoba”.

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SIGMUND FREUD: Sigmund, Sophie e Heinele – stessa voce del verbo “mancare”.

di SARA DEL BARBA

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La quinta figlia di Sigmund Freud e Martha Freud-Bernays, Sophie Halberstadt-Freud, nacque il 12 aprile 1893, a Vienna, e morì il 25 gennaio 1920, ad Amburgo, nemmeno ventisettenne. I genitori decisero di chiamarla Sophie in onore di Sophie Schwalb, la nipote di Samuel Hammerschlag, insegnante ebreo di Freud. Sophie era molto ammirata dal padre, e divenne subito la preferita della madre Martha. Quella bimba, quasi senza sapere il perché, seppe immediatamente addolcire il carattere alquanto tirannico e patriarcale del padre della psicoanalisi. Sophie era bella, risoluta nelle movenze e più che decisa ad andare oltre quell’ambiente che la circondava per manifestare la propria ferma volontà. In famiglia la chiamavano “la bambina della domenica”. Nel 1912, a 19 anni, l’imprevedibile Sophie annunciò l’improvviso fidanzamento. Il 20 luglio dello stesso anno, Sigmund, affidò i suoi pensieri sul futuro sposo della figlia ad una lettera indirizzata alla sorella Mitzi, nella quale descriveva Max Halberstadt come una persona molto seria, affidabile, dal comportamento appropriato e borghese, nell’accezione positiva del termine. Max era più vecchio di trent’anni dell’acerba Sophie, parente alla lontana della famiglia Freud, del ramo proveniente da Amburgo. “..entrambi sembrano essere innamorati l’uno dell’altra”, scrisse Freud senior, con buona approvazione, nonostante quel fotografo trentenne non fosse né ricco né particolarmente distinto da eventuali alte possibilità di carriera. Per questo Freud fu cosciente del fatto che la figlia avrebbe potuto trovarsi in condizioni di necessità, ma nonostante ciò, non si oppose a quel legame e fece promettere a Sophie di mantenerlo informato regolarmente sui suoi problemi e le sue preoccupazioni. Il matrimonio fu celebrato il 14 gennaio 1913, ad Amburgo.

E’ noto, come, in quel periodo, Freud stesse analizzando la figlia Anna, futura madre della psicoanalisi infantile. Anna, era l’ultima e indesiderata figlia di Sigmund; a detta sua non sarebbe mai nata se i genitori avessero avuto a disposizione metodi contraccettivi efficaci e, per di più, il padre fu deluso dalla fine di quella gravidanza dalla quale si aspettava la nascita di un maschio. Anna, a differenza di Sophie, non era né bella né alta, aveva una postura adunca e poco elegante, “consapevole di non essere sufficientemente femminile o attraente come donna“, sentiva il grande peso, su quelle spalle ricurve, del senso di trascuratezza dei genitori: l’allattamento artificiale dovuto al rifiuto della madre di nutrirla dal proprio seno, l’abitudine a lasciarla a casa durante le ferie e le scampagnate della famiglia Freud, i gesti mai palesati di preferenza verso le altre sorelle da parte dei genitori. Il matrimonio di Sophie e Max fu per Anna la tribolazione dovuta a sentimenti contrastanti dentro se stessa; se da una parte sentiva la voglia di partecipazione alle emozioni gioiose di quell’evento, dall’altra avvertiva un senso fortissimo di blocco interiore, di estraneazione e fastidio. Freud padre aveva ricondotto i disturbi di Anna ai sentimenti di gelosia che la stessa provava verso la sorella Sophie, relativamente al suo ruolo di figlia prediletta ed accentuati dal matrimonio festoso e tanto celebrato dai membri della famiglia.

L’11 marzo 1914 nacque il primo figlio di Sophie e Max, Ernst Wolfgang; Sigmund si sentì profondamente felice e legato da subito a quel piccolo essere umano.  Il 22 settembre 1914, Freud scrisse di Ernst in una delle tante lettere a  Karl Abraham, psicoanalista delle teorie legate alla sessualità, allo sviluppo, al simbolismo e ai disturbi maniaco-depressivi, che dal 1907 aveva stretto un legame di stretta amicizia con Sigmund, interrotto solo dalla morte di Karl nel 1925. Il nipote fu descritto come “un ometto piccolo e grazioso, che riesce a ridere simpaticamente ogni volta che gli si presta attenzione”; un essere “dignitoso, civile, doppiamente prezioso in questi tempi di bestialità scatenata” . Secondo Freud, l’educazione rigorosa da parte di una madre tanto intelligente quale era Sophie, illuminata anche dalle teorie di Hug-Hellmuth, noto psicoanalista austriaco, era il motivo di una crescita tanto sana quanto corretta per quel bambino.

In seguito, il cresciuto “piccolo Ernst”, quando i tratti della sua vivacità cominciarono ad intrecciarsi con i caratteri propri dei disturbi infantili, sarebbe stato psicoanalizzato ed aiutato proprio da quella zia che verso sua madre aveva avuto sempre sentimenti altalenanti e divergenti, Anna Freud, che ne fece, poi, suo legittimo erede, aiutandolo a mutare il proprio cognome in Freud e facendogli anche scoprire la propria inclinazione alla pratica della psicoanalisi, contribuendo alla nascita del professionista che divenne: col nome di Ernst W. Freud, seppure in età un po’ più matura rispetto alla prassi, esercitò da praticante in Germania ed in Gran Bretagna.

L’8 dicembre 1918 nacque, poi, il secondo figlio di Sophie, Heinz Rudolf, chiamato in famiglia “Heinele,”. Venne adottato dalla zia Mathilde dopo la prematura morte di Sophie; Freud lo descrisse come “fisicamente molto fragile, un vero e proprio figlio della guerra, ma soprattutto intelligente e simpatico”. Heinele, a soli 4 anni e mezzo, il 19 giugno 1923 morì di tubercolosi miliare, grave forma di infezione polmonare particolarmente insidiosa.

Già con l’arrivo del secondo figlio, nei rapporti epistolari tra Sigmund e Sophie è rinvenibile la preoccupazione nella figlia adorata, ben più che circoscritta al pensiero astratto, relativa alle difficoltà  economiche; timore che Freud padre aveva sviluppato e previsto già ai tempi di quell’improvviso fidanzamento con Max. Sigmund non ebbe mai esitazione nell’offrire il suo appoggio, morale nel pensiero e concreto nella spedizione costante di denaro alla figlia. Nemmeno quando, appena un anno dopo dalla nascita di Heinele, Sophie rimase incinta di un terzo figlio, pur avendo Sigmund sempre offerto moderni e ragionati consigli alla ragazza sui metodi anticoncezionali dell’epoca, egli fu ancora più comprensivo, amorevole e così vicino nonostante la lontananza materiale “Se pensi che la notizia mi renda arrabbiato o costernato ti sbagli.  Accetta questo bimbo senza disillusioni. Tra qualche giorno ti arriverà il compenso delle mie nuove pubblicazioni”.

Il 25 gennaio 1920 Sophie Halberstadt-Freud morì, lasciando un figlio di 6 anni e uno di poco più di un anno e, con loro, l’amato e caro marito Max. Il sicario, tanto rapido quanto doloroso ed estenuante, fu la terribile polmonite Spagnola, la malattia influenzale che, fece ancora più morti della Grande Guerra. Freud scrisse al pastore Pfister in quel gennaio: “Questo pomeriggio abbiamo ricevuto la notizia che la nostra dolce Sophie di Amburgo è stata strappata via dalla polmonite influenzale, rapita malgrado una salute raggiante e una vita piena e attiva di brava madre e moglie amorevole, il tutto in quattro o cinque giorni, come se non fosse mai esistita. Siamo stati preoccupati per un paio di giorni, comunque eravamo speranzosi, ma è così difficile giudicare a distanza. E questa distanza doveva rimanere distanza, non siamo stati in grado di partire immediatamente, come avevamo previsto, dopo le prime notizie allarmanti, non c’era nessun treno, neanche per una situazione di emergenza. La brutalità evidente del nostro tempo grava su di noi. Domani sarà cremata, la nostra povera bambina della domenica  . . . Sophie lascia due figli, uno dei sei, l’altro di tredici mesi, e un marito inconsolabile, che dovrà pagare a caro prezzo la felicità di questi sette anni. La felicità esisteva solo dentro di loro; fuori c’era la guerra, l’arruolamento, le ferite, l’esaurimento delle loro risorse, ma erano rimasti coraggiosi e felici. Io lavoro quanto posso, e sono grato per l’opportunità di questo diversivo. La perdita di un figlio sembra essere una grave ferita narcisistica; ciò che chiamiamo lutto probabilmente seguirà solo più tardi”.

Nel 1920 l’Europa, già teatro tragico e drammatico della prima guerra mondiale, si trovò anche vittima della cosiddetta influenza spagnola. La grande crescita della popolazione mondiale e lo sviluppo dei mezzi di trasporto moderni, in primis, agirono da catalizzatori per la diffusione dei virus, favoriti, pertanto, dalla possibilità di uno spostamento sempre più rapido da una parte all’altra del pianeta. Non sfuggì a questa legge non scritta nemmeno l’influenza spagnola, che arrivò dall’estremo Est sul suolo europeo o americano. Fu una pandemia di portata enorme e devastante negli effetti, più tragica anche della peste del Trecento, ancora più grave perché sviluppatasi contestualmente alla Grande Guerra ed anzi, probabilmente rafforzata nella diffusione anche dai fatti di guerra: le condizioni umane e igieniche in cui dovettero combattere i soldati sui vari fronti, all’interno delle trincee, furono certamente un fattore di contributo non trascurabile alla curva di andamento del contagio. Spagnola fu detta, perché le prime notizie furono riportate dai giornali della Spagna che, non essendo coinvolta nel primo conflitto mondiale, non era soggetta alla censura di guerra. La stampa degli altri Paesi, che era invece sottoposta alla severa censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia, sostenendo che il problema fosse confinato solamente alla Penisola Iberica. Il virus contagiò mezzo miliardo di persone uccidendone almeno 25 milioni, anche se alcune stime parlano di oltre 50 milioni di morti. Fu identificata per la prima volta in Kansas nel 1918; alcuni studi ne rilevano la causa in un ceppo virale H1N1. Quell’impressionante suo tasso di mortalità fu insolitamente alto anche tra le persone sane, in particolar modo tra i giovani tra i 15 e i 34 anni.

Come Sophie. Già debole per lo stato della terza gravidanza. Che portò via con lei anche il piccolo che aveva in grembo.

Sigmund non era riuscito a trovare nessun dannato mezzo di trasporto per raggiungere il suo capezzale, nemmeno negli ultimi strazianti giorni. Per poterla abbracciare. Salutare. Riuscì solamente a presenziare alla sepoltura. Col peso gravoso di quella perdita di cui non incontrava il senso né la spiegazione. La lontananza materiale, la mancanza di Sophie a causa della distanza fisica tra Vienna ed Amburgo, dovettero sembrare, d’improvviso, uno schiocco di dita.

Quando anche il piccolo Ernst Wolfgang morì, tanto simile nell’intelligenza e nella fragilità a mamma Sophie, Sigmund, che nel frattempo aveva appena avuto le prime avvisaglie del carcinoma alla bocca, confessò ad un amico per la prima volta di soffrire di depressione; Ernst-Heinele aveva occupato il posto di tutti i suoi figli e di tutti i suoi nipoti. Dopo la sua scomparsa non gli era stato più possibile amare gli altri e gioire della vita.

E’ una “ferita narcisistica irreparabile”. Accusata in due rounds. E se nel lutto, nella sua elaborazione, quel “” ridiventa libero, nella tristezza, nella “malinconia” s’insinua il disinteresse.

Quel dolore acuto, sempre vivo, come la scheggia in quel dito che hai dentro da anni, che se procedi a tagliare in quel punto farebbe ancora più male, l’infezione sarebbe letale. Insopportabile. Freud, dopo quelle perdite incalcolabili, riformulò le proprie teorie sul lutto. Arrivò alla conclusione che, nel momento dello squarcio, si possono provare sentimenti di grande tristezza, disperazione, paura, male fisico e mentale. Ma, al tempo stesso, questo stato di dolore indescrivibile diviene compatibile con l’esistenza, la quale prende un po’ i connotati della sopravvivenza. Diviene un modo di restare aggrappati all’amore di quella persona. Consapevoli che quel senso di vuoto non potrà mai né essere colmato né scomparire. Il percorso del dolore fa il suo corso, può certo attenuarsi col tempo, ma rimane perpetuamente inconsolabile. Perché è così che deve essere. E’ il modo più umano di far durare quell’amore che non possiamo abbandonare.

Mancare. Questo accade. Più o meno improvvisamente o inaspettatamente, tutto assume lo stato di insufficienza. E’ qualcosa, è qualcuno che dovrebbe esserci, eppure non c’è più. La condizione di mancanza diventa ordinaria, si trova ad essere parte integrante di chi resta.

Non ci sono rifugi, la sofferenza per la mancanza di una persona non si può dimenticare. La mancanza di un figlio, ancor di più poi, è qualcosa di inconcepibile. Poco importa ciò che verrà dopo, anche se quel posto sarà occupato da qualcos’altro “perché sarà comunque qualcosa di diverso”. Anche quando diviene indifferenza, questa è solo un altro vestito di cui si traveste il dolore. Perché a quel mancare non c’è rimedio.

 

Marzo 2020

“… il tutto in quattro o cinque giorni, come se non fosse mai esistita.  Siamo stati preoccupati per un paio di giorni, comunque eravamo speranzosi, ma è così difficile giudicare a distanza. E questa distanza doveva rimanere distanza, non siamo stati in grado di partire immediatamente, come avevamo previsto, dopo le prime notizie allarmanti, non c’era nessun treno, neanche per una situazione di emergenza. La brutalità evidente del nostro tempo grava su di noi.”

Fuori non c’è la guerra propria di arruolamenti, trincee, ferite da colpi di arme da fuoco e cannoni. Fuori c’è una battaglia della quale si può davvero avere conoscenza e coscienza solo se ci si trova ad essere sdraiati su una base tra due binari laterali, collegata all’uscita di tubi di ogni genere, tra spie di pulsanti credute utili solo in rarissime e sfortunatissime evenienze. O di cui si può sapere tutto solo se ci si trova ad essere vestiti da strani alieni supereroi e se ci si sente alieni supereroi, perché la vittoria, così come la sconfitta, avviene e passa dalle viscere, dalla nausea, dalle ore interminabili di servizio alla patria del nuovo millennio di coloro che stanno dentro a quelle tute e dietro a quelle maschere da segni lasciati sul viso che non sono niente se paragonati ai solchi come chiavi sulla carrozzeria dell’anima, del cuore e della mente. Fuori c’è una lotta che lascia il sapore salato che scorre dagli occhi, che provoca rabbia e disperazione inconsolabile in chi resta perché l’ultimo ricordo sarà la sofferenza di qualcuno che si è amato e l’ultimo rimpianto rimarrà l’incancellabile, pesante, pericolosa ossessione di non aver potuto sentire quell’ultimo respiro tribolato né di avergli fatto avvertire con un’ultima carezza che non era solo.

La morte è insuperabile. Resta la speranza che a quel mancare possano prevalere le azioni nel tempo che c’era quando sembrava di non averne.

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