AL DORMIR DEL ROSSO SOLE, SE L’E’ PORTATO VIA IL MARE: JIRO SATO.

di SARA DEL BARBA

Ni  – sole, Hon -radice, Go –lingua: sono i 3 kanji, caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese, che formano il nome Nihongo: “Lingua del Paese dove nasce il Sole”. Il Giappone. Il Paese del Sol Levante. Dove il bushidō, il rigido codice d’onore, è ancora, nella società odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento, un armonioso equilibrio tra riflessione e azione, di cui si impregna il vivere quotidiano.  Un codice di condotta e uno stile di vita –una sorta dimosmaiorum – adottato dai samurai, l’antica casta guerriera giapponese, passata nel tempo attraverso svariate trasformazioni, anche contraddittorie, che raccoglie severi principi della disciplina militare e regole etiche e morali che presero forma in Giappone durante gli shōgunati di Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), e che furono formalmente definite ed applicate nel periodo Tokugawa (1603-1867). Il seppuku, per esempio, indica un rituale di suicidio molto diffuso tra i samurai: il ventre era considerato la sede dell’anima, per cui trafiggersi questa parte del corpo significava mostrare che la propria anima era pura e priva di colpe, mentre l’harakiri, di fatto simile al seppuku, serviva più semplicemente per sfuggire alla morte per mano del nemico oppure per espiare le colpe commesse.

E’ consuetudine, in Giappone, indicare gli anni non attraverso un’unica successione numerica ininterrotta, ma attraverso una successione di ere ed un numero progressivo dell’anno all’interno di ciascuna era.

Il Periodo Meiji(1868–1912)fu il regno illuminato dell’Imperatore Mutsuhito-Meiji, che portò avanti le riforme dell’era precedente, rinnovandole con guizzi politici, sociali ed economici all’occidentale in più ambiti, universitario, statale, giuridico, creando anche una costituzione giapponese. Un rapido processo di industrializzazione caratterizzò l’era Meiji. Nel 1904 l’escalation dei contrasti con la Russia, culminò con l’interruzione delle relazioni diplomatiche e la conseguente guerra che segnò per la prima volta la vittoria asiatica su un paese europeo, rafforzando il prestigio internazionale e la potenza dell’impero nipponico.

Nel Periodo Taisho (1912-1926), dopo la morte dell’Imperatore Meiji, nel 1912, salì al trono l’Imperatore Yoshihito-Taisho. Dopo il rinnovamento Meiji e la rivoluzione sociale, la politica del paese si era però consolidata e tra i partiti politici si era creato un sistema di equilibri, fortemente basato sul compromesso, che garantì anni di stabilità e alternanza delle maggiori forze partitiche sul controllo dei seggi alla Dieta imperiale.Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, il governo giapponese si schierò a fianco degli Alleati, con l’obiettivo primario di accaparrarsi i possedimenti tedeschi in Cina e nel Pacifico. Il controllo giapponese si espanse e si consolidò sempre di più, sui possedimenti tedeschi, la Manciuria e la Mongolia Interna, nella Cina settentrionale, in Siberia, approfittando anche della fine del regime zarista. La guerra aveva impresso uno sviluppo senza precedenti all’industria e alcommercio giapponesi e nel 1919 il Giappone era entrato di diritto tra le cinque grandi potenze mondiali mentre il suo Imperatore, a causa di un aggravamento delle già precarie condizioni di salute neurologica, rinunciava definitivamente alla vita pubblica. Il principe ereditario Hirohito avrebbe assunto le funzioni imperiali e il titolo di reggente a partire dal mese di novembre 1921.
La conseguenza immediata dello sviluppo economico e territoriale nipponico comportò, per la politica interna, una decisa trasformazione in senso liberale. Tre anni dopo il fortissimo terremoto di Tokyo e Yokohama, nel 1926, la morte dell’imperatoreTaisho concluse questo periodo. 

Seguìl’Era Showa (1926-1945), quando, salito al trono l’Imperatore Hirohito, il paese subì una crisi economica tale da sfociare in una fortissima concentrazione del potere nelle mani dei militari e, dopo la seconda guerra contro la Cina, nel 1941 il Giappone entrò nella Seconda Guerra Mondialealleandosi con l’Italia fascista e la Germania nazista, attaccando, nel tristemente noto assalto di Pearl Harbour, gli Stati Uniti d’Americache, dopo un anno, capovolsero le sorti con la battaglia navale di Midway, costringendo il Giappone alla ritirata.

E’ in una manciata di anni, 26 per la precisione, compresi e scanditi dal susseguirsi di queste tre ere, che si consuma la breve vita del grande tennista giapponese 佐藤次郎 – Jiro Sato. Era il 5 gennaio del 1908 quando, nella Prefettura di Gunma, nella regione dalle calde primavere di Kanto, il piccolo Jiro vide per la prima volta la luce del Sol Levante.Un fratello di quattro anni più grande, Hyotare, anch’egli tennista. Il giovanissimoJiromostra grande attitudini, oltre che sportive, anche per lo studio; si iscrive all’Università Waseda di Tokyoper studiare economia, facoltà che abbandonerà nel 1933 per il dovere di dedicarsi completamente al tennis, seppure ancora per poco tempo.

Jiro Sato debutta sulla scena internazionale del tennis nel 1929, anno in cui il Racing Club de Paris, durante la tournée, si trovò nel Paese del Sol Levante per una serie di incontri. Gli rendono gloria gli incontri in cui sconfisse le leggende come Brugnon,Rodel, Landry.

Il modello sportivo di Sato fu Henri Cochet, uno dei leggendari quattro moschettieri – con Lacoste, Borotra e Brugnon – che hanno reso grande il tennis francese, imbattibili in Coppa Davis tra gli anni ’20 e ’30.  Proprio Cochet, che si era avvicinato al tennis facendo il raccattapalle, nonostante il punto debole del servizio, col suo gioco fatto di indiscutibile talento naturale, grande abilità nell’anticipo, equilibrio impressionante su tutto il campo e su tutte le fasi di gioco, sarà uno dei pochi che Jiro non riesce a battere.  

Secondo classificato per i campionati giapponesi nel 1930, Jirone è vincitore l’anno successivo. Sempre nel 1930 è secondo classificato per il torneo InvitationalMid-Pacific, perdendo contro l’americano Cranston Holman e anche la finale del doppio.

Nel 1931 perde il titolo Miramar LTC a Juan-les-Pins contro il fratello maggiore Hyotare Sato, vince il doppio ed è finalista nel doppio misto. Ha conquistato il campionato dell’Inghilterra occidentale in singoli e doppi. Viene sconfitto da Jean Borotra per il titolo di BritishCovered Court Championships. Gioca col fratello per ottenere il secondo trofeo del Beau Site Club de Cannes e il titolo St. Raphaël TC. Nella competizione per singoli ha rivendicato il titolo del secondo meeting del Country Club de Monte-Carlo (lo stesso torneo in cui i fratelli Sato hanno raggiunto la finale del doppio). È diventato campione nella competizione olandese del doppio accanto a MinoruKawachi. Batte Vernon Kirby per il Tunbridge Wells Championship; miete successi in una dozzina di tornei inglesi in meno di una stagione, singoli e doppi misti.

Tra luglio e novembre 1931 riesce a vincere 13 titoli singoli in Gran Bretagna. Incontra Fred Perry due volte per il titolo Pacific Southwest Championships nel 1932 e nel 1933, perdendo entrambe le volte. Tra il 1931 e il 1933 raggiunge il picco, tra competizioni in doppio, in squadra e singoli, fino alla vittoria per la semifinale a Wimbledon, nel 1932, contro il campione in carica Sidney Wood e, l’anno seguente, la vittoria nei quarti di finale su Fred Perry agli Open di Francia. 

“Forse persino io mi ero dato per scontato. L’erba, la terra, il cemento. Nelle lunghe trasferte ho imparato tante cose. Qui, nel mio Paese, i ragazzi sognano l’ace dei giocatori europei ed americani. E ci provano. Ma la mia aspirazione e la mia ispirazione mi hanno suggerito che dovevo andare oltre. Le rotazioni e la spinta eccessiva delle palline di gommapiuma non potevano portare al colpo decisivo, vincente. Non contro mostri sacri alla Cochet o alla Wood. Si dirà, almeno, che sono riuscito ad assomigliare in quel rovescio elegante, in quel diritto giocato in grande anticipo sul rimbalzo, in quel servizio veloce che mi ha aiutato a non soccombere sul manto erboso.Ma adesso, credo che non sia nemmeno più quello che voglio. O, forse, non l’ho mai voluto davvero. Il mio Giappone è il Paese dei fiori di ciliegio che disegnano e profumano così intensamente la primavera, della neve soffice e silenziosa che ricopre i templi durante l’inverno. Mentre noi ammiriamo e impariamo dai giocatori di tennis occidentali, il nostro vento d’Oriente sta soffiando da tempo sulle tele dei più famosi artisti europei. E’ questo scambio che fa grande i popoli. La reciprocità dell’ispirazione. Il confronto ragionato. Eppure, a vedere bene, tutto questo sembra niente. Sembra non essere abbastanza. L’Impero giapponese sta diventando una potenza militare. E allora è richiesto ad ognuno di noi, in nome di quel sacro dovere di obbedienza, di quel senso di sacrificio che hanno fatto diventare innato nei secoli, di quel lavorare senza sosta né distrazioni, di essere il meglio di fronte al mondo. Superare gli altri. E all’improvviso il mio completo bianco, morbido e soffice, fresco, è diventato una camicia di forza. L’International Lawn Tennis Challenge è diventata terreno fertile per dimostrare il nostro valore. Per qualche attimo, non lo nascondo, è stato così gratificante essere responsabile di questa conquista. Così, come il suono del richiamo alle armi, mi sono arruolato per la terza stagione nel tennis mondiale. Mi sono dovuto stropicciare per bene gli occhi a leggermi al numero 3 del ranking mondiale sul Telegraph. Poi ho iniziato ad avvertire la sensazione di un’abrasione, una graffiata acuta, non un’escoriazione da cemento duro, piuttosto un’incisone, un solco incavato che continua a svilupparsi, trasversale, per tutta la porzione di corpo non visibile all’occhio umano. Nella semifinale del doppio della Lawn a Parigi tutti quegli smash sbagliati. La pioggia che ha rimandato l’ultimo singolare contro Crawford non ha fatto che aumentare il mio nervosismo. Era già scritto che avrei perso, ancora prima di impugnare la racchetta. Da simbolo dell’impresa delle imprese, in un attimo, a perdente. Nel tempo di un volo della pallina al di là della rete. Non mi interessa la politica. Eppure questo crescente nazionalismo, che si sente tanto fiero e inarrestabile, mi impone di difendere l’onore del mio Paese sulla superficie rettangolare. La sento dentro, nelle viscere, la profonda devozione per la nazioneè parte di me. Amo il mio Paese. A tal punto che ho abbandonato l’Università. Era un sogno laurearmi in Economia, non meno di collezionare un set point dopo l’altro. E non riesco a non essere debole, a non pensare che ho una vita fuori dal campo. Fatta di quei progetti che partono da una romantica notte di San Silvestro, con la convinzione che l’aria gelida possa intiepidirsi a mezzodella promessa di una vita insieme. Sanaye, compagna di vita e di racchetta. Sì, sono debole. Perché anche di fronte all’amore si presenta un cruccio martellante, pesante interrogativo, ostacolo. Anche questo ha la capacità di far smarrire quel senso di leggerezza, di aria fresca che colora e profuma la vita, come i petali dei ciliegi in fiore. Dovrei sposarmi, tra meno di un anno. E vorrei. Lo vorrei con tutto me stesso.”

Ma anche i progetti personali di Jiro non riescono a superare l’impasse. Sanaye è figlia unica, perciò Sato, come da usanza tradizionale, dovrebbe prendere il suo cognome per preservarlo. Ma gran parte della famiglia di Sato non è d’accordo.

Il tennista, poi,medita da un po’ di prendersi un anno sabbatico dal tennis, ma la federazione respinge la richiesta, larisposta è laconica: il dovere di un tennista è quello di “prendere in mano la racchetta e difendere così l’onore della nazione”. Con riluttanza, anche la sua futura sposa lo convince che il tennis deve essere al primo posto della sua vita, almeno ancora per un po’. Ci sarà tempo per fermarsi, ritirarsi, fare scelte diverse.

O forse no.

1934. Transatlantico della Nippon Yusen Kaish, direzione Gran Bretagna. Sfida con l’Australia in Coppa Davis e poi Wimbledon. Nemmeno a dirlo, con grande riluttanza, Sato salpa con il resto della società, ma è agitato, distratto. Il mare è calmo, anche se piove incessantemente; eppure Sato avverte forti dolori allo stomaco. Si chiude in cabina, afferma di avere bisogno di riposare, di scendere dalla nave. Comportamento assai insolito per il capitano della squadra.

Nevrastenia, diranno. Crampi nervosi.

La nave, nel frattempo, aveva fatto scalo a Singapore, una partita amichevole per i compagni, mentre Satoli raggiunge al ricevimento post incontro. Non se la sente di continuare, vuole tornare a casa. Vuole il suo tempo.E’ triste e perso nella sua solitudine. Ma, ancora una volta, le pressioni a completare il viaggio come da programma sono troppo forti. Il mattino seguente la nave salpa per Penang. Con Sato a bordo.

E’ un 5 aprile 1934 piuttosto tropicale sulle acque del mare.Il transatlantico è appena uscito da Singapore, attraversa lo stretto di Malacca, verso Penang. Protagonista è il brusio dei passeggeri che si distraggono tra chiacchiere e bicchieri al bar, risate, partite a carte. Qualcuno legge. Sato, lo sportivo giapponese più famoso del momento, si è ritirato nella sua cabina. Con addossoil blazer ufficiale della sua squadra nazionale di Coppa Davis. Sono le 23:30 quando un compagno si accorgeche la porta della cabina di Sato è spalancata, la stanza vuota.

Quell’ardente nazionalismo giapponese deve aver avvertito, anche solo per un attimo, attraverso coloro che ne erano sponsorizzatori senza se e senza ma, che il senso si era perso dietro l’acume di un’isteria che poco ha a che fare con il sano patriottismo.Sulle spalle muscolose di quell’ex studente dell’Università Waseda poggiavano tutte le speranze di una nazione infuocata da nuove ambizioni anche nel tennis mondiale. Deve aver pregato, cerimonioso come un giapponese nel rito Cha-no-you, con dignità, nella solitudine della sua cabina, cullato dalle onde della notte. Deve aver pregato Sato, non per una vittoria. Per il perdono.

Restano due lettere, una rivolta all’intera squadra:”Non sarei stato in grado di aiutare il nostro team. Al contrario, sarei stato fonte di problemi e preoccupazioni per tutti voi. Sforzatevi al massimo per fare meglio di quanto avrei fatto. Prego e credo che lo farete. Anche se non sarò fisicamente con voi, sarò accanto a voi con lo spirito“. L’altra, rivolta al capitano della nave, per scusarsi umilmente dell’inconveniente e l’imbarazzo causati dalla sua – disperata – azione.

Non c’è alcun dubbio su come siano andate le cose. Nelle acque ime e scure Sato ha lasciato cadere se stesso. Nelle successive ore la nave ripercorse la rotta mentre i membri dell’equipaggio tentavano di scrutare il mare nella speranza che Sato non fosse ancora annegato. La ricerca fu vana. Poco dopo si scoprì che mancavano due pesanti maniglie di avvolgimento della gru ed anche una corda per saltare che la squadra di tennis aveva usato per l’allenamento sul ponte. La lucidità di Sato, con ogni probabilità, aveva assicurato con terribile efficienza il proprio corpo al fondo più profondo dell’oceano.

Tra tutte le speculazioni a seguito del suo suicidio, che abbia preferito togliersi la vita piuttosto che perdere l’onore per le personali vicende familiari, oper il peso di dover seguire una strada, quella dello sport, che non era la sua scelta prima, o, addirittura, il timore del calo della sua forma fisica, rimangono tali. Speculazioni.

Un ragazzo, troppo presto uomo, con una tale disciplina, educazione basata su principi tanto rigidi, a detta di molti imperturbabile, senza particolari idiosincrasie o vezzi di sorta, ma allegro anche, con grande senso dell’umorismo, che deve aver tentato di condurre quel peso, quella responsabilità di fronte al suo popolo finché ha potuto.

Il prestigio della nazione smette di essere percepito con affetto, se mai se ne abbia avuto sentore. L’enorme senso di responsabilità e di dovere nei confronti dell’Imperatore ha fittamente offuscato quella soddisfazione per le conquiste sul campo, ne ha reso il sapore amaro. L’intensità, ma anche la stranezza di quei tempi, possono, forse,nel tentativo di fare ipotesi più o meno azzeccate sul perché.Ma, qualsiasi sia la ragione, rimane il ricordo di un grande samurai, elegante e potente con la sua racchetta da tennis, che, durante il sonno di quel rosso sole, se n’è andato inghiottito dal mare.

Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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