PIERMARIO MOROSINI: Corro perchè non posso fermarmi a pensare.

STORIE MALEDETTE

di Remo Gandolfi

morosini 1.jpg“Cosa sarebbe la mia vita senza il calcio ?

Me lo sono chiesto tante volte in questi anni.

Le prove che ho dovuto affrontare sono state tante, e durissime.

Ho perso mia madre e mio padre nel giro di due anni quando ero ancora un ragazzo.

Quando ancora senti che le tue gambe non sono forti abbastanza per camminare da solo nella vita.

Quando senti che avresti ancora tanto bisogno di loro …

Ho tenuto duro, anche se è stato tutt’altro che facile.

Mio fratello invece non ce l’ha fatta.

Era disabile e dipendeva quasi totalmente da loro.

Pochi mesi dopo la morte di mio padre ha scelto di farla finita.

Mi era rimasta mia zia Miranda e un’altra sorella, anche lei disabile, ricoverata in un Istituto.

Io però avevo il calcio, che mi ha dato la forza di andare avanti in quei momenti.

Perché per fortuna…

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Le lezioni di Maryam Mirzakhani

C’era una volta un insegnante elementare prussiano che un giorno, con spirito lavorativo niente affatto

teutonico, e con l’intento di tener buoni bimbetti di prima elementare, non trovò di meglio che rifilar loro

un compito labororioso, noioso e pieno di insidie per quei bambini: fare la somma dei primi cento numeri.

Tempo una decina di minuti e un bimbetto porse all’insegnante il risultato esatto, ossia 5050, ottenuto

senza nessun calcolo.

Nessuno…

E nessuno sa con esattezza come fece quel ragazzino.

Mi rifiuto di pensare che sia arrivato da solo, in dieci minuti e a sei anni, a dedurre, o meglio ad avere

indotto delle iterazioni che l’avrebbero portato da arrivare da solo a pensare alla formula n(n+1)/2.

Lessi di questa storia intorno ai quindici anni, nelle appendici a piè capitolo di un libro di geometria che

aveva più chicche in dette appendici che non nelle pagine istituzionali, diciamo così.

Siccome le storie, al pari delle ragnatele che sembrano uguali senza esserlo, non si raccontano mai due

volte allo stesso modo, mi piace pensare che poco tempo prima della mia scoperta questa storiella sia stata

raccontata a una ragazzina iraniana, frequentante le medie, dal fratello maggiore.

« Oddio, ma ci vogliono ore » esclamò Maryam Mirzakhani.

« In verità Gauss ci mise molto meno » ribatté il fratello.

« E come fece?»

Qui la ragnatela della storia si annoda in maniera diversa. Il fratello di Maryam le disse che il sommo,

ancorché infante, Gauss probabilmente si accorse che 1+100 era uguale a 2+99, a 3+98 e così via per…

50 coppie di numeri che restituivano sempre 101 come risultato della loro somma; da qui 101×50, che

sempre 5050 restituisce.

E da questo semplice aneddoto, mai raccontato allo stesso modo,si può capire che si possono seguire

strade diverse per arrivare allo stesso punto: a Carl Friedrich Gauss, il re dei matematici.

Io e Maryam avemmo reazioni simili, ma a lei successe, poco più di un quarto di secolo dopo la

folgorazione sulla strada di Gottinga, qualcosa che sarebbe ed eccome piaciuto a Gauss, che aveva avuto

rapporti con una matematica che…

Il rapporto di Gauss con le matematiche merita invece un piccolo approfondimento. Probabilmente ha

ispirato e spinto molte ragazzine a far matematica, il buon Gauss, ma con una ebbe un rapporto epistolare

un po’, particolare, diciamo così.

Tenete a freno i vostri pensieri pruriginosi, perché non c’è nulla di erotico nel carteggio tra Gauss e una

signorina che…

Quando nel 1806 le armate di Napoleone invasero la Prussia, ci fu un generale francese che si prodigò

non poco per scovare e mettere al sicuro Carl Gauss che all’epoca viveva nella città di Braunschweig.

Quando il matematico chiese lumi sul quel trattamento di riguardo, il militare disse che aveva fatto questa

promessa all’amica comune Sophie Germain di Parigi. Gauss e la Germain erano grosso modo coetanei,

ma il prussiano non aveva mai conosciuto in vita sua la donna che tanto s’era spesa per evitargi di fare la

fine di Archimede, trucidato da un milite romano negli istanti convulsi della caduta di Siracusa.

Gauss non conosceva Sophie Germain per il semplice fatto che aveva stabilito un carteggio matematico

non già con lei, ma con un matematico francese di nome Antoine-August LeBlanc.

Sophie Germain aveva frequentato per corrispondenza i corsi dell‘École polytechnique, fondata da

Monge e Lazare Carnot su impulso anche di Napoleone, che aveva bisogno di ingegneri, usando il nome

di Antoine-Auguste LeBlanc, un giovane che si era iscritto per poi abbandonare tutto e seguire il suo

amore, una ballerina di cancan.

Il sotterfugio fu necessario perché, pur se di buona famiglia, dal momento che il papà era un ricco

mercante, a Sophie era preclusa, in quanto donna, l’iscrizione all’École polytechnique. Le sue intuizioni

furono così fulminanti che colpirono un peso massimo come Joseph-Louis Lagrange, il quale volle

incontrare LeBlanc. Lagrange fu il primo a scoprire la verità. In parte mantenne il segreto, in parte no, ma

pur essendo all’epoca quella dei matematici una comunità ristretta, comunque Gauss non venne a

conoscenza della cosa e per lungo tempo fu convinto di scambiare opinioni matematiche per posta con

Antoine-August LeBlanc, matematico parigino.

Riavutosi dalla sorpresa, Gauss, vergò alcune frasi rimaste immortali per levità, densità e carica emotiva.

“A causa dei nostri pregiudizi, una donna deve affrontare difficoltà infinitamente superiori

a quelle degli uomini nel condurre ricerche

che sono estremamente impegnative.

Quando riesce lo stesso a superare gli ostacoli e a padroneggiare la materia,

allora senza dubbio deve possedere il coraggio più grande, uno straordinario talento e un genio

superiore”

Sembra una storia da film, anche sin troppo caricata, inverosimile per certi aspetti, ma è quel che avvenne

mentre il settecento lasciava il passo all’ottocento, al secolo del romanticismo e delle passioni forti.

E certamente doveva essere forte la passione che spingeva una diciottenne a sfidare le pericolose tenebre

della Londra degli anni trenta dell’ottocento per recarsi a far visita a un uomo ben più attempato. Ancora

una volta vi esorto a non pensare male. Lui era Charles Babbage e lei era quella che chiamo la byronina,

vale a dire Ada Lovelace, figlia di lord Byron e di Anne Milbanke. Ada, che in quelle sortite notturne era

sempre accompagnata dalla mamma, era interessata al progetto della macchina analitica che Babbage

stava cercando di costruire. Babbage aveva in animo di costruire una macchina che, sul modello del

Telaio Jacquard, fosse programmabile per eseguire dei calcoli, anche calcoli di equazioni polinomiali.

Negli appunti di Charles Babbage si legge solo di calcoli: lui voleva una macchina calcolatrice. Di contro,

nelle carte di Ada Lovelace si possono trovare pensieri ben più arditi ed alati: la byronina aveva pensato

di poter potenziare la macchina di modo che potesse non solo far calcoli tra numeri, ma anche lavorare

con simboli e parole. Ed è per questo motivo che uno dei primi linguaggi di programmazione si chiama

Ada.

Come avete potuto leggere, solo per Sophie e Ada, ci sarebbe materiale per decine di post e film; e un

film fu fatto per davvero, sulla povera Ipazia di Alessandria, intorno o poco prima del 2010, ma passò

quasi inosservato.

Maryam Mirzakhani, nata in Iran nel 1977, duecento anni dopo Gauss, da un padre ingegnere, non

sembrava avere il bernoccolo della matematica; come me restò a bocca aperta, stupita e attonita, davanti

al colpo d’ala del piccolo Gauss, ma sapeva entusiasmarsi, amava la vita, le chiacchiere con le amiche, le

sfide e le novità. E la novità arrivò un bel giorno portata da Amir, un amico del fratello di Roya, la sua

migliore amica.

« Parteciperò alle Olimpiadi di informatica» le disse Amir, emozionato e anche un po’ tronfio, fors’anche

per far colpo su Maryam e le sue amiche.

« E cosa farai, il lancio del computer?» lo canzonò Maryam, che aveva anche la battuta pronta.

Roya e Maryam si fecero dare i quiz risolti da Amir e…

Impiegarono settimane, in due, per risolverne…

la metà.

Nondimeno, il seme era piantato e furono ancora più contente di scoprire che esistevano anche delle

Olimpiadi di Matematica, solo che erano precluse alle donne. Non a tutte le donne, a dirla giusta, ma alle

iraniane sì.

Per la verità non si trattava neanche di una vera e propria proibizione, non i senso stretto almeno, solo

che…

Solo che le donne iraniane non avevano mai partecipato alle selezioni.

Roya e Maryam andarono dalla preside che illustrò loro le difficoltà, tecniche e di consuetudini, della

singolare richiesta, ma, rapita dall’entusiasmo delle due, promise di appoggiarle.

Ed è una cosa da tenere bene in mente quella di ringraziare chi, lungo la nostra strada, sceglie di

allegerirci il percorso anche solo camminando con noi.

Maryam ripagò gli sforzi della preside vincendo due volte le Olimpiadi. Maryam, che da bambina

sognava di fare la scrittrice, si ritrovò così ad attraversare, entusiasta e trepidante, lo specchio di Alice che

la catapultò nel cangiante paesaggio della matematica che, diversamente da come se l’era immaginato da

bambina, aveva ed eccome bisogno di immaginazione e creatività, di audacia e voglia di crederci.

Maryam entrò in punta di piedi, ma cominciò a ridefinire alcuni paesaggi. Per ridefinire una porzione di

questi scenari matematici in divenire impiegò, dopo la laurea a Teheran e la partenza per Harvard, anni e

anni di studio e qualcosa come 172 pagine.

Negli Usa trovò anche l’amore, nella persona e nelle fattezze di Jan, informatico di origine Ceca. I due

misero in cantiere la piccola Anahita, nata nel 2011, che si divertiva con la mamma a pasticciare e

colorare strane forme geometriche, quelle che possono venire in mente solo ai bambini e ai matematici

visionari. Ho parlato al maschile, ma credo fortemente che le storie di Ipazia e Ada, della Curie e della

Germaine, possano essere d’incoraggiamento a una società che guarda ancora con troppa sufficienza le

donne impegnate nelle materie STEM.

Maryam non si definiva geniale o predestinata, ma una lavoratrice e un’inguaribile ottimista e, quasi

sempre, forse il suo lascito più grande, lavoro e ottimismo bastano e avanzano per avere una vita piena e

appagante.

Un’altra lezione da tenere ben in mente.

Alla fine, la bambina che voleva diventare scrittrice e che divenne matematica sulle ali dell’entusiasmo,

trovò le parole e i simboli per accrescere la nostra conoscenza della grammatica fine di quella grossa

impresa umana, mondiale e mentale che chiamiamo matematica.

Alla fine, nel 2014, le venne assegnata la Medaglia Fields, volgarmente detto anche il Nobel della

matematica; un premio assegnato ogni quattro anni a uno o massimo quattro matematici sotto i

quarant’anni di età. C’è chi ha perso il senno (Nash) per inseguire questo premio, chi è arrivato tardi a

qualche risultato importante (Wiles) e chi l’ha rifiutato (Perelman).

Maryam sarà ricordata per essere stata la prima donna ad avere il premio. Ed è singolare che la prima

premiata venga da una nazione che sembrava quasi volerle impedire di far matematica.

Di lei, più che il premio, credo resterà il fulgido esempio, che ho cercato di far risaltare in queste righe,

circa quali vette può raggiungere l’animo umano quando ottimismo e volontà lavorano in sincrono.

Avete letto questa storia al passato perché purtroppo non sempre c’è un lieto fine.

Maryam Mirzakhani, la bambina nata duecento anni dopo Gauss, la prima donna Medaglia Fields, ha

chiuso gli occhi al mondo della matematica e al suo mondo, il tenero Jan e la piccola Anahita, il 15 Luglio

del 2017, a quarant’anni, per via di un tumore.

JUAN GILBERTO FUNES: “Un bufalo” con il cuore troppo grande

“Non riesco ancora a crederci.

E pensare che avevo più di un timore quando fui contattato dal Boca Juniors.

Io adoro il Boca, è la squadra per la quale facevo il tifo fin da bambino anche se vivevo a San Luis che dalla Bombonera dista quasi 800 chilometri.

Però il mio passato con il River Plate lo conoscono tutti e non avevo davvero idea di come sarei stato accolto.

Invece tutti, ma davvero tutti quanti, mi hanno riservato un’accoglienza fantastica, quasi commovente.

I dirigenti, i miei nuovi compagni di squadra, il mister Carlos Aimar e tutto lo staff tecnico … e soprattutto i tifosi.

Più di un mese fa, era l’8 agosto, giocai alla Bombonera e per la prima volta indossai quella meravigliosa maglia azzurro e oro (non è giallo amici miei … è oro !).

E’ stata l’occasione per conoscere i miei nuovi compagni e per rendermi conto che possiamo davvero fare grandi cose insieme.

D’accordo, era solo una partita amichevole, ma certe sensazioni ti rimangono addosso.

Era un giorno feriale ma alla Bombonera c’erano più di 10.000 persone per vederci all’opera contro il Banfield.

“Sono per vedere te Juancito !” mi disse il mio compagno di squadra Alfredo Graciani.

Entrai nel secondo tempo, feci un assist per Cesar Gaona e sfiorai pure il gol, con la palla che colpì la traversa e rimbalzò abbondantemente fuori dall’area difesa dal biancoverdi del “Taladro”.

Sembrava fatta.

Mi sentivo già del Boca quando ulteriori controlli medici non fecero che confermare quello che due mesi fece saltare il mio trasferimento dall’Olympiakos al Nizza, che dopo la mia stagione in prestito al Nantes mi voleva tra le sue file.

Un problema al cuore fece saltare il mio trasferimento.

Ma come dicono “nella vita si chiude una porta e si apre un portone”.

Quel portone è il Boca.

Ora pare tutto risolto.

Si, magari non ho il cuore perfetto ma sono pronto ad assumermi tutte le responsabilità del caso.

Soprattutto dopo ieri sera.

Sono andato alla Bombonera ad assistere al match dei miei neo-compagni di squadra contro il Chaco For Ever.

Mi sono posizionato dietro la nostra panchina.

Non ci è voluto molto perché i tifosi mi riconoscessero.

E che iniziassero a cantare il mio nome.

Sono rimasto senza parole.

E con le lacrime che mi riempivano gli occhi.

Fra meno di una settimana c’è il Superclasico.

Andremo al Monumental dove ho lasciato tanti ricordi e vinto una Copa Libertadores e una Intercontinentale.

Ma capiranno tutti da che parte sta quel pazzerello del mio cuore …

Il sogno di Juan Gilberto Funes, detto “El bufalo” per la sua impressionante forza fisica, non si avvererà mai.

Dopo una settimana di consultazioni e di ulteriori controlli medici che costringeranno Funes a saltare il tanto atteso derby con il River si arriva alla mattina del 26 settembre.

Il Dottor René Favaloro è in possesso di tutti gli esami.

Un dirigente del Boca, Carlos Granero, preleva Juan Gilberto Funes dall’Hotel Elevage dove l’attaccante risiedeva e lo accompagna all’Ospedale Italiano di Buenos Aires.

La domanda che si sente porre Juan Gilberto Funes è brutale nella sua schiettezza.

“Senor Funes, lei cosa preferisce il futbol o vivere ?”.

Non solo c’è un cattivo funzionamento della valvola aortica che non permette il normale deflusso sanguigno ma il suo cuore pesa oltre 800 grammi, praticamente tre volte di più di un cuore normale.

E’ una doccia gelata.

A Juan Gilberto tremano le gambe.

Un futuro senza il calcio.

A 27 anni, nel pieno della prestanza psico-fisica.

Come se non bastasse quando Funes esce dall’ospedale sono in centinaia i tifosi del Boca che fermano per strada, pregandolo di accelerare i tempi del suo esordio soprattutto dopo aver perso el Superclasico con il River pochi giorni prima.

Non resta che una cosa da fare.

Preparare le valigie e tornare nella sua amata San Luis con la sua famiglia.

Game over.

“Continuo a sognare che mia moglie mi svegli una mattina e mi dica che è stato solo un brutto sogno”.

Non sarà così purtroppo.

Funes tornerà a vivere nella sua San Luis, con la bella moglie Ivana e il piccolo Juan Manuel.

Giocherà ancora qualche partita con una piccola squadra della sua città, Defensores del Oeste, “per togliersi il vizio del calcio piano piano” come amava ripetere scherzosamente “El Bufalo”.

Il calcio gli ha dato tanto ma ora occorre guardare avanti.

Il destino però di tempo non gliene concederà affatto.

Un anno e mezzo dopo il suo ritiro dal calcio, l’11 gennaio 1992, in un ospedale di Buenos Aires il suo cuore si fermerà per sempre.

Juan Gilberto Funes non aveva ancora compiuto 29 anni.

A San Luis saranno in 40.000 coloro che seguiranno il suo funerale.

Perché la traccia lasciata dal “Bufalo di San Luis” è grande, grandissima.

Non sono stati soltanto i suoi tanti gol, le sue vertiginose accelerazioni e i suoi potentissimi tiri.

No, c’è molto di più.

C’è il ricordo di un “caballero” autentico, una persona umile e di una disponibilità assoluta, dentro come fuori da una cancha.

Ai Millionarios di Bogotà, al River Plate, all’Olympiakos, al Velez Sarsfield e perfino nel Boca, il suo Boca di cui ha soltanto accarezzato il sogno di giocare, non c’è davvero nessuno che possa parlare male di lui.

Nessuno meglio della moglie Ivana Bianchi poteva riassumere Juan Gilberto Funes in una frase.

“Juan ha vissuto esattamente come voleva, facendo quello che amava. Ha dato tutto se stesso, a chiunque senza mai negarsi. A me e a mio figlio ha dato tutto l’amore che poteva. E’ stato una persona eccellente, un marito esemplare e un padre straordinario”.

A ricordarlo per sempre c’è lo stadio eretto a suo nome nella sua città di San Luis, dove “Juancito” è stato sepolto e dove il suo pueblo non lo ha mai dimenticato.

Juan Gilberto Funes nasce a San Luis l’8 marzo del 1963.

San Luis, della provincia omonima, dista quasi 800 chilometri da Buenos Aires e a quasi 300 da Mendoza, la città più vicina dove si gioca un calcio di alto livello.

Juan Gilberto, per tutti quelli del suo pueblo “Juancito”, muove i suoi primi passi nella squadra locale, l’Huracan de San Luis.

Ben presto mette in evidenza doti non comuni.

E’ un attaccante robusto, potente e velocissimo ancorché non dotato di una tecnica eccelsa.

Viene notato dal Sarmiento de Junin, squadra della Seconda Divisione argentina, ma dopo pochi mesi viene ritenuto ancora acerbo per la categoria.

Per quasi due stagioni passa da un team all’altro nella sua regione ma senza mai fare autentici sfracelli.

Jorge Newbery, lo Sportivo Estudiantes e infine il Gimnasia y Esgrima de Mendoza.

Qui finalmente inizia ad esprimersi a buoni livelli tanto che arriva per Funes la chiamata, invero abbastanza inattesa, dei Millionarios di Bogotà, squadra di vertice del campionato colombiano in quel periodo decisamente ricco e attrattivo.

Funes arriva nel giugno del 1994 in tempo per giocare il “Torneo Finalizacion” di quell’anno chiuso dai Millionarios al 2° posto alle spalle dell’America de Cali e con il contributo di 4 reti realizzate da Funes.

Il torneo successivo, l’Apertura del 1985, solleva però parecchi dubbi sulle qualità del giovane attaccante argentino.

Con una sola rete all’attivo in quasi 20 partite pare che per Juan Gilberto Funes sia di nuovo ora di rifare le valigie … senza che ci sia esattamente la fila di pretendenti per il suo cartellino.

Però ha ancora 6 mesi di contratto e probabilmente anche per la mancanza di richieste concrete i Millionarios finiscono per confermare Funes anche per l’imminente “Finalizacion”.

Sarà una delle scelte più felici che farà il Club in quel periodo.

Juan Gilberto Funes si trasforma in una autentica iradiddio.

Nella seconda parte della stagione segnerà 32 reti in meno di 40 incontri stabilendo un record difficilmente battibile.

Per tutti ormai è diventato “il Bufalo” per la sua straripante prestanza fisica.

Nel computo complessivo della stagione arriverà secondo nella classifica dei marcatori distanziato di un solo gol (34 contro 33) da un altro attaccante argentino, Miguel Oswaldo Gonzalez.

I suoi exploit in terra colombiana non passano inosservati nella sua Argentina.

Ora però non ci sono più squadre di secondo rango a richiedere i suoi servigi.

Ad acquistare a suon di pesos il suo cartellino sono sempre dei “Millionarios”, ma stavolta di Argentina.

Il River Plate acquisterà Funes nel giugno del 1986 proprio in tempo per schierarlo nelle semifinali del torneo e soprattutto nella finale, disputata contro l’America di Cali.

Funes sarà il grande protagonista delle due finali, segnando sia all’andata in Colombia che al ritorno nel Monumental.

L’anno successivo ad attendere Funes c’è il trasferimento all’Olympiakos in Grecia ma ci sono soprattutto le 4 presenze nella Nazionale di Carlos Bilardo, alcune delle quali nella Copa America disputata quell’anno proprio in terra argentina.

Sarà durante la sua permanenza in Francia che gli verrà riscontrato per la prima volta il suo problema al cuore.

I medici al Nizza sconsiglieranno seduta stante a Funes di continuare l’attività sportiva.

Funes non prende neppure in considerazione l’idea.

Torna in Argentina e firma con il Velez Sarsfield. Sarà un’altra eccellente stagione per “El Bufalo” che segnerà 12 reti in 25 partite.

Nell’estate del 1990 l’Argentina andrà ai Mondiali italiani a difendere il titolo.

Sono in molti a ritenere Funes meritevole di un posto tra i 22.

Non sarà così ma quello che accadrà pochi mesi dopo sarà una delusione decisamente maggiore per il forte centravanti di San Luis che a settembre di quel 1990 dovrà dire addio al calcio, a soli 27 anni di età.

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Il pallone è sempre stato una passione assoluta per “Juancito”. “Aiutavo mio padre al nostro distributore di benzina e quando chiudevamo per la pausa dopo il pranzo mio padre andava a riposare nel retrobottega e io con ancora la tuta da lavoro addosso andavo a giocare a calcio al campetto con i miei amici”.

Il denaro non fu mai un aspetto prioritario per Juan Gilberto Funes. Quando firmò il suo primo contratto professionistico con la prima squadra dell’Huracan de San Luis rifiutò lo stipendio.

“Datelo a qualcuno dei ragazzi della squadra che ne ha più bisogno di me”.

L’inizio ai Millionarios de Bogotà fu difficilissimo. Funes segnava con il contagocce e faceva fatica a giocare con la serenità necessaria. Ricordava così quel periodo lo stesso Juan Gilberto. “Non so cosa mi succede. So solo che la palla non vuol proprio saperne di entrare in porta. Però intorno a me sento comunque tanta fiducia e SO che questo momento prima o poi finirà”. E aveva perfettamente ragione …

Pensiero rafforzato da questa dichiarazione “La fiducia che sento qui in Colombia mi motiva per fare sempre meglio. A volte arrivo a casa distrutto dopo l’allenamento ma non vedo l’ora che arrivi il giorno successivo. Il mio obiettivo è lottare per migliorarmi continuamente”.

Sempre a proposito della sua grande generositàsi scoprì diverso tempo dopo la sua morte e fu il figlio a raccontarlo in una intervista che Juan Gilberto Funes durante la sua permanenza in Colombia finanziò interamente l’operazione avvenuta negli USA di un ragazzo tifoso dei Millionarios malato di cancro.

“Quando arrivai al River non ero nessuno. Nonostante questo mi sentii a casa fin dal primo momento e sapete perché ? Perché questo Club ha un anima. E’ formato da persone incredibili e tutti mi fecero sentire a mio agio.

Sempre parlando del suo periodo al River. “All’inizio fu dura. Avevo problemi fisici, non riuscivo ad esprimermi al meglio. Poi feci quei due gol in finale di Libertadores e tutto cambiò per sempre”.

A fine carriera un tributo importante ad un’icona del River Plate.

“Ancora oggi faccio fatica a crederci … ho giocato al fianco del “Beto” Alonso !”

Assai diversi i ricordi per “El Bufalo” del suo trasferimento in Grecia all’Olympiakos.

“In Grecia lo spirito di squadra non esisteva. Oltre a me c’erano altri tra calciatori stranieri. I calciatori greci non ci rivolgevano la parola. Eravamo esclusi dalla vita sociale del Club. C’erano dei compagni di squadra che non ci salutavano neppure o che ridevano di noi quando pronunciavamo male qualche parola.

Finito l’allenamento andavo a casa ed ero praticamente sempre da solo.

Non fu affatto facile”.

Continuano i ricordi “Avevo un rivale per il posto di centravanti. Era un ragazzo greco e suo fratello era uno dei capi ultras. Ad ogni allenamento avevo 500 tifosi che mi insultavano istigati da lui”.

Le cose andarono decisamente meglio in Francia, anche se fu proprio in quel paese che gli vennero riscontrati per la prima volta i suoi gravi problemi al cuore.

“Al Nizza come allenatore avevo Jean Fernandez. Era “innamorato” di me. Segnai tre reti nelle prime due amichevoli. Sembrava l’inizio di una meravigliosa avventura”.

Il racconto di Juan Gilberto di quei terribili giorni.

“Nel Club c’era una grande eccitazione, tanta attesa che iniziasse la stagione.

Poi arrivò la mazzata. Il medico sociale mi disse che avevano riscontrato un “soffio al cuore” decisamente importante. Non poteva prendersi la responsabilità di dare il benestare alla mia incorporazione nel team. Non mi importa un accidente dissi loro. Sono 10 anni che gioco a calcio e non ho mai avuto un problema. La responsabilità me la assumo io !”

Poi c’è il Boca Juniors, l’amore di sempre rimasto per Juan Gilberto Funes proibito.

“Quando arrivai al Boca provai un’emozione fortissima. L’accoglienza fu davvero incredibile, commovente. Ricordo che pensai che dopo aver giocato almeno un anno nel Boca avrei potuto anche lasciare il calcio definitivamente”.

Non fu così purtroppo per Juan Gilberto Funes che racconta così la sua purtroppo breve vita lontano dal calcio.

“Se c’è anche una possibilità su cento che io possa morire in un campo di calcio non posso semplicemente correre questo rischio. Ho una moglie e un figlio di due anni di cui prendermi cura. La mia vita non finisce con il calcio … anche se mi capita spesso di notte di pensare a tutto questo e di piangere come un bambino”.

Infine l’ultimo sogno, rimasto purtroppo anche questo incompiuto.

La scuola calcio che Juan Gilberto Funes stava allestendo e che sarebbe stata pronta per l’estate del 1992.

Lui stesso andava a lavorarci, dipingendo le stanze, comprando di tasca sua palloni da allenamento e materiale sportivo.

Oggi c’è una fondazione benefica che lo ricorda. La Fondazione “Coracon de Bufalo” di cui è presidente il figlio Juan Pablo.

E per definire chi era Juan Gilberto Funes basta leggere quello che c’è scritto alla base della scultura a lui dedicata a San Luis.

“Perché non rinnegò mai le sue origini, perché rimase sempre umile, perché tornava sempre e comunque nella sua terra natia, perché sempre diede una meravigliosa immagine di se stesso e della sua patria in Argentina e nel mondo. Il suo popolo non dimentica”

AL DORMIR DEL ROSSO SOLE, SE L’E’ PORTATO VIA IL MARE: JIRO SATO.

di SARA DEL BARBA

Ni  – sole, Hon -radice, Go –lingua: sono i 3 kanji, caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese, che formano il nome Nihongo: “Lingua del Paese dove nasce il Sole”. Il Giappone. Il Paese del Sol Levante. Dove il bushidō, il rigido codice d’onore, è ancora, nella società odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento, un armonioso equilibrio tra riflessione e azione, di cui si impregna il vivere quotidiano.  Un codice di condotta e uno stile di vita –una sorta dimosmaiorum – adottato dai samurai, l’antica casta guerriera giapponese, passata nel tempo attraverso svariate trasformazioni, anche contraddittorie, che raccoglie severi principi della disciplina militare e regole etiche e morali che presero forma in Giappone durante gli shōgunati di Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), e che furono formalmente definite ed applicate nel periodo Tokugawa (1603-1867). Il seppuku, per esempio, indica un rituale di suicidio molto diffuso tra i samurai: il ventre era considerato la sede dell’anima, per cui trafiggersi questa parte del corpo significava mostrare che la propria anima era pura e priva di colpe, mentre l’harakiri, di fatto simile al seppuku, serviva più semplicemente per sfuggire alla morte per mano del nemico oppure per espiare le colpe commesse.

E’ consuetudine, in Giappone, indicare gli anni non attraverso un’unica successione numerica ininterrotta, ma attraverso una successione di ere ed un numero progressivo dell’anno all’interno di ciascuna era.

Il Periodo Meiji(1868–1912)fu il regno illuminato dell’Imperatore Mutsuhito-Meiji, che portò avanti le riforme dell’era precedente, rinnovandole con guizzi politici, sociali ed economici all’occidentale in più ambiti, universitario, statale, giuridico, creando anche una costituzione giapponese. Un rapido processo di industrializzazione caratterizzò l’era Meiji. Nel 1904 l’escalation dei contrasti con la Russia, culminò con l’interruzione delle relazioni diplomatiche e la conseguente guerra che segnò per la prima volta la vittoria asiatica su un paese europeo, rafforzando il prestigio internazionale e la potenza dell’impero nipponico.

Nel Periodo Taisho (1912-1926), dopo la morte dell’Imperatore Meiji, nel 1912, salì al trono l’Imperatore Yoshihito-Taisho. Dopo il rinnovamento Meiji e la rivoluzione sociale, la politica del paese si era però consolidata e tra i partiti politici si era creato un sistema di equilibri, fortemente basato sul compromesso, che garantì anni di stabilità e alternanza delle maggiori forze partitiche sul controllo dei seggi alla Dieta imperiale.Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, il governo giapponese si schierò a fianco degli Alleati, con l’obiettivo primario di accaparrarsi i possedimenti tedeschi in Cina e nel Pacifico. Il controllo giapponese si espanse e si consolidò sempre di più, sui possedimenti tedeschi, la Manciuria e la Mongolia Interna, nella Cina settentrionale, in Siberia, approfittando anche della fine del regime zarista. La guerra aveva impresso uno sviluppo senza precedenti all’industria e alcommercio giapponesi e nel 1919 il Giappone era entrato di diritto tra le cinque grandi potenze mondiali mentre il suo Imperatore, a causa di un aggravamento delle già precarie condizioni di salute neurologica, rinunciava definitivamente alla vita pubblica. Il principe ereditario Hirohito avrebbe assunto le funzioni imperiali e il titolo di reggente a partire dal mese di novembre 1921.
La conseguenza immediata dello sviluppo economico e territoriale nipponico comportò, per la politica interna, una decisa trasformazione in senso liberale. Tre anni dopo il fortissimo terremoto di Tokyo e Yokohama, nel 1926, la morte dell’imperatoreTaisho concluse questo periodo. 

Seguìl’Era Showa (1926-1945), quando, salito al trono l’Imperatore Hirohito, il paese subì una crisi economica tale da sfociare in una fortissima concentrazione del potere nelle mani dei militari e, dopo la seconda guerra contro la Cina, nel 1941 il Giappone entrò nella Seconda Guerra Mondialealleandosi con l’Italia fascista e la Germania nazista, attaccando, nel tristemente noto assalto di Pearl Harbour, gli Stati Uniti d’Americache, dopo un anno, capovolsero le sorti con la battaglia navale di Midway, costringendo il Giappone alla ritirata.

E’ in una manciata di anni, 26 per la precisione, compresi e scanditi dal susseguirsi di queste tre ere, che si consuma la breve vita del grande tennista giapponese 佐藤次郎 – Jiro Sato. Era il 5 gennaio del 1908 quando, nella Prefettura di Gunma, nella regione dalle calde primavere di Kanto, il piccolo Jiro vide per la prima volta la luce del Sol Levante.Un fratello di quattro anni più grande, Hyotare, anch’egli tennista. Il giovanissimoJiromostra grande attitudini, oltre che sportive, anche per lo studio; si iscrive all’Università Waseda di Tokyoper studiare economia, facoltà che abbandonerà nel 1933 per il dovere di dedicarsi completamente al tennis, seppure ancora per poco tempo.

Jiro Sato debutta sulla scena internazionale del tennis nel 1929, anno in cui il Racing Club de Paris, durante la tournée, si trovò nel Paese del Sol Levante per una serie di incontri. Gli rendono gloria gli incontri in cui sconfisse le leggende come Brugnon,Rodel, Landry.

Il modello sportivo di Sato fu Henri Cochet, uno dei leggendari quattro moschettieri – con Lacoste, Borotra e Brugnon – che hanno reso grande il tennis francese, imbattibili in Coppa Davis tra gli anni ’20 e ’30.  Proprio Cochet, che si era avvicinato al tennis facendo il raccattapalle, nonostante il punto debole del servizio, col suo gioco fatto di indiscutibile talento naturale, grande abilità nell’anticipo, equilibrio impressionante su tutto il campo e su tutte le fasi di gioco, sarà uno dei pochi che Jiro non riesce a battere.  

Secondo classificato per i campionati giapponesi nel 1930, Jirone è vincitore l’anno successivo. Sempre nel 1930 è secondo classificato per il torneo InvitationalMid-Pacific, perdendo contro l’americano Cranston Holman e anche la finale del doppio.

Nel 1931 perde il titolo Miramar LTC a Juan-les-Pins contro il fratello maggiore Hyotare Sato, vince il doppio ed è finalista nel doppio misto. Ha conquistato il campionato dell’Inghilterra occidentale in singoli e doppi. Viene sconfitto da Jean Borotra per il titolo di BritishCovered Court Championships. Gioca col fratello per ottenere il secondo trofeo del Beau Site Club de Cannes e il titolo St. Raphaël TC. Nella competizione per singoli ha rivendicato il titolo del secondo meeting del Country Club de Monte-Carlo (lo stesso torneo in cui i fratelli Sato hanno raggiunto la finale del doppio). È diventato campione nella competizione olandese del doppio accanto a MinoruKawachi. Batte Vernon Kirby per il Tunbridge Wells Championship; miete successi in una dozzina di tornei inglesi in meno di una stagione, singoli e doppi misti.

Tra luglio e novembre 1931 riesce a vincere 13 titoli singoli in Gran Bretagna. Incontra Fred Perry due volte per il titolo Pacific Southwest Championships nel 1932 e nel 1933, perdendo entrambe le volte. Tra il 1931 e il 1933 raggiunge il picco, tra competizioni in doppio, in squadra e singoli, fino alla vittoria per la semifinale a Wimbledon, nel 1932, contro il campione in carica Sidney Wood e, l’anno seguente, la vittoria nei quarti di finale su Fred Perry agli Open di Francia. 

“Forse persino io mi ero dato per scontato. L’erba, la terra, il cemento. Nelle lunghe trasferte ho imparato tante cose. Qui, nel mio Paese, i ragazzi sognano l’ace dei giocatori europei ed americani. E ci provano. Ma la mia aspirazione e la mia ispirazione mi hanno suggerito che dovevo andare oltre. Le rotazioni e la spinta eccessiva delle palline di gommapiuma non potevano portare al colpo decisivo, vincente. Non contro mostri sacri alla Cochet o alla Wood. Si dirà, almeno, che sono riuscito ad assomigliare in quel rovescio elegante, in quel diritto giocato in grande anticipo sul rimbalzo, in quel servizio veloce che mi ha aiutato a non soccombere sul manto erboso.Ma adesso, credo che non sia nemmeno più quello che voglio. O, forse, non l’ho mai voluto davvero. Il mio Giappone è il Paese dei fiori di ciliegio che disegnano e profumano così intensamente la primavera, della neve soffice e silenziosa che ricopre i templi durante l’inverno. Mentre noi ammiriamo e impariamo dai giocatori di tennis occidentali, il nostro vento d’Oriente sta soffiando da tempo sulle tele dei più famosi artisti europei. E’ questo scambio che fa grande i popoli. La reciprocità dell’ispirazione. Il confronto ragionato. Eppure, a vedere bene, tutto questo sembra niente. Sembra non essere abbastanza. L’Impero giapponese sta diventando una potenza militare. E allora è richiesto ad ognuno di noi, in nome di quel sacro dovere di obbedienza, di quel senso di sacrificio che hanno fatto diventare innato nei secoli, di quel lavorare senza sosta né distrazioni, di essere il meglio di fronte al mondo. Superare gli altri. E all’improvviso il mio completo bianco, morbido e soffice, fresco, è diventato una camicia di forza. L’International Lawn Tennis Challenge è diventata terreno fertile per dimostrare il nostro valore. Per qualche attimo, non lo nascondo, è stato così gratificante essere responsabile di questa conquista. Così, come il suono del richiamo alle armi, mi sono arruolato per la terza stagione nel tennis mondiale. Mi sono dovuto stropicciare per bene gli occhi a leggermi al numero 3 del ranking mondiale sul Telegraph. Poi ho iniziato ad avvertire la sensazione di un’abrasione, una graffiata acuta, non un’escoriazione da cemento duro, piuttosto un’incisone, un solco incavato che continua a svilupparsi, trasversale, per tutta la porzione di corpo non visibile all’occhio umano. Nella semifinale del doppio della Lawn a Parigi tutti quegli smash sbagliati. La pioggia che ha rimandato l’ultimo singolare contro Crawford non ha fatto che aumentare il mio nervosismo. Era già scritto che avrei perso, ancora prima di impugnare la racchetta. Da simbolo dell’impresa delle imprese, in un attimo, a perdente. Nel tempo di un volo della pallina al di là della rete. Non mi interessa la politica. Eppure questo crescente nazionalismo, che si sente tanto fiero e inarrestabile, mi impone di difendere l’onore del mio Paese sulla superficie rettangolare. La sento dentro, nelle viscere, la profonda devozione per la nazioneè parte di me. Amo il mio Paese. A tal punto che ho abbandonato l’Università. Era un sogno laurearmi in Economia, non meno di collezionare un set point dopo l’altro. E non riesco a non essere debole, a non pensare che ho una vita fuori dal campo. Fatta di quei progetti che partono da una romantica notte di San Silvestro, con la convinzione che l’aria gelida possa intiepidirsi a mezzodella promessa di una vita insieme. Sanaye, compagna di vita e di racchetta. Sì, sono debole. Perché anche di fronte all’amore si presenta un cruccio martellante, pesante interrogativo, ostacolo. Anche questo ha la capacità di far smarrire quel senso di leggerezza, di aria fresca che colora e profuma la vita, come i petali dei ciliegi in fiore. Dovrei sposarmi, tra meno di un anno. E vorrei. Lo vorrei con tutto me stesso.”

Ma anche i progetti personali di Jiro non riescono a superare l’impasse. Sanaye è figlia unica, perciò Sato, come da usanza tradizionale, dovrebbe prendere il suo cognome per preservarlo. Ma gran parte della famiglia di Sato non è d’accordo.

Il tennista, poi,medita da un po’ di prendersi un anno sabbatico dal tennis, ma la federazione respinge la richiesta, larisposta è laconica: il dovere di un tennista è quello di “prendere in mano la racchetta e difendere così l’onore della nazione”. Con riluttanza, anche la sua futura sposa lo convince che il tennis deve essere al primo posto della sua vita, almeno ancora per un po’. Ci sarà tempo per fermarsi, ritirarsi, fare scelte diverse.

O forse no.

1934. Transatlantico della Nippon Yusen Kaish, direzione Gran Bretagna. Sfida con l’Australia in Coppa Davis e poi Wimbledon. Nemmeno a dirlo, con grande riluttanza, Sato salpa con il resto della società, ma è agitato, distratto. Il mare è calmo, anche se piove incessantemente; eppure Sato avverte forti dolori allo stomaco. Si chiude in cabina, afferma di avere bisogno di riposare, di scendere dalla nave. Comportamento assai insolito per il capitano della squadra.

Nevrastenia, diranno. Crampi nervosi.

La nave, nel frattempo, aveva fatto scalo a Singapore, una partita amichevole per i compagni, mentre Satoli raggiunge al ricevimento post incontro. Non se la sente di continuare, vuole tornare a casa. Vuole il suo tempo.E’ triste e perso nella sua solitudine. Ma, ancora una volta, le pressioni a completare il viaggio come da programma sono troppo forti. Il mattino seguente la nave salpa per Penang. Con Sato a bordo.

E’ un 5 aprile 1934 piuttosto tropicale sulle acque del mare.Il transatlantico è appena uscito da Singapore, attraversa lo stretto di Malacca, verso Penang. Protagonista è il brusio dei passeggeri che si distraggono tra chiacchiere e bicchieri al bar, risate, partite a carte. Qualcuno legge. Sato, lo sportivo giapponese più famoso del momento, si è ritirato nella sua cabina. Con addossoil blazer ufficiale della sua squadra nazionale di Coppa Davis. Sono le 23:30 quando un compagno si accorgeche la porta della cabina di Sato è spalancata, la stanza vuota.

Quell’ardente nazionalismo giapponese deve aver avvertito, anche solo per un attimo, attraverso coloro che ne erano sponsorizzatori senza se e senza ma, che il senso si era perso dietro l’acume di un’isteria che poco ha a che fare con il sano patriottismo.Sulle spalle muscolose di quell’ex studente dell’Università Waseda poggiavano tutte le speranze di una nazione infuocata da nuove ambizioni anche nel tennis mondiale. Deve aver pregato, cerimonioso come un giapponese nel rito Cha-no-you, con dignità, nella solitudine della sua cabina, cullato dalle onde della notte. Deve aver pregato Sato, non per una vittoria. Per il perdono.

Restano due lettere, una rivolta all’intera squadra:”Non sarei stato in grado di aiutare il nostro team. Al contrario, sarei stato fonte di problemi e preoccupazioni per tutti voi. Sforzatevi al massimo per fare meglio di quanto avrei fatto. Prego e credo che lo farete. Anche se non sarò fisicamente con voi, sarò accanto a voi con lo spirito“. L’altra, rivolta al capitano della nave, per scusarsi umilmente dell’inconveniente e l’imbarazzo causati dalla sua – disperata – azione.

Non c’è alcun dubbio su come siano andate le cose. Nelle acque ime e scure Sato ha lasciato cadere se stesso. Nelle successive ore la nave ripercorse la rotta mentre i membri dell’equipaggio tentavano di scrutare il mare nella speranza che Sato non fosse ancora annegato. La ricerca fu vana. Poco dopo si scoprì che mancavano due pesanti maniglie di avvolgimento della gru ed anche una corda per saltare che la squadra di tennis aveva usato per l’allenamento sul ponte. La lucidità di Sato, con ogni probabilità, aveva assicurato con terribile efficienza il proprio corpo al fondo più profondo dell’oceano.

Tra tutte le speculazioni a seguito del suo suicidio, che abbia preferito togliersi la vita piuttosto che perdere l’onore per le personali vicende familiari, oper il peso di dover seguire una strada, quella dello sport, che non era la sua scelta prima, o, addirittura, il timore del calo della sua forma fisica, rimangono tali. Speculazioni.

Un ragazzo, troppo presto uomo, con una tale disciplina, educazione basata su principi tanto rigidi, a detta di molti imperturbabile, senza particolari idiosincrasie o vezzi di sorta, ma allegro anche, con grande senso dell’umorismo, che deve aver tentato di condurre quel peso, quella responsabilità di fronte al suo popolo finché ha potuto.

Il prestigio della nazione smette di essere percepito con affetto, se mai se ne abbia avuto sentore. L’enorme senso di responsabilità e di dovere nei confronti dell’Imperatore ha fittamente offuscato quella soddisfazione per le conquiste sul campo, ne ha reso il sapore amaro. L’intensità, ma anche la stranezza di quei tempi, possono, forse,nel tentativo di fare ipotesi più o meno azzeccate sul perché.Ma, qualsiasi sia la ragione, rimane il ricordo di un grande samurai, elegante e potente con la sua racchetta da tennis, che, durante il sonno di quel rosso sole, se n’è andato inghiottito dal mare.

KAZIMIERZ DEYNA: Talento e bottiglia.

di Remo Gandolfi

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tratto “MAVERICKS AND CULT HEROES del CALCIO BRITANNICO

Non è stato affatto facile, lo ammetto.

Pensavo che la famosa frase “il calcio ha un linguaggio universale” valesse in tutto il globo terrestre.

E forse è così. Di sicuro, però, non in Inghilterra.

Del calcio inglese obiettivamente conoscevo poco o nulla. Sì certo, con la mia Nazionale li eliminammo nelle qualificazioni per i Mondiali di Germania pareggiando a Wembley in quella che fu definita la “Fort Alamo del calcio” e un paio di volte ho incontrato squadre di Club inglesi durante le mie tante stagioni al Legia Varsavia.

Sapevo che era un calcio molto fisico, che si corre a cento all’ora per tutti i novanta minuti, ma ricordavo anche che in Inghilterra c’erano fior di giocatori all’epoca.

Tony Currie, Mick Channon, Alan Ball, Martin Peters, Allan Clarke…

Per cui non mi aspettavo proprio di trovare questo tipo di calcio!

All’inizio è stato un vero e proprio shock. In alcune partite mi è venuto il torcicollo a forza di guardare il pallone che mi passava sopra la testa!

E le poche volte che quella sfera rotonda mi arrivava finalmente tra i piedi… WHAMM!!!… un secondo dopo mi arrivava un tackle che quasi sempre mi faceva finire lungo disteso!

Il giorno in cui arrivai a Manchester lo scorso novembre non smise un solo secondo di piovere. Ricordo che commentai qualcosa del tipo “mamma mia che giornataccia!”.

Mi guardarono tutti come se avessi bestemmiato.

«A Manchester è più o meno così fino a maggio» mi risposero i dirigenti del City.

Non avevano torto.

Credo che fino ad ora, e siamo alla fine di aprile, ho giocato sì e no un paio di partite su un campo veramente asciutto… o quantomeno non inzuppato d’acqua e di fango!

In questo periodo non mi sono fatto mancare nulla, neanche una serie di infortuni che hanno rotto il mio ritmo e la possibilità di inserirmi prima nel gioco della squadra.

Ma una cosa soprattutto non mi è davvero mai mancata: il supporto e l’incitamento del meraviglioso pubblico del Maine Road.

Sono stati fantastici, fin dal primo giorno.

Al mio esordio al Maine Road contro l’Ipswich Town, ero ben lontano da una condizione accettabile e me ne dispiaccio ancora ora.

Mi hanno raccontato che quella sera c’erano quasi 10.000 persone in più della media degli spettatori per le partite del City.

All’inizio ho giocato partite terribili, in cui uscivo dal campo quasi vergognandomi per quanto poco ero riuscito ad incidere nel match.

Magari stavo anche 5 minuti senza toccare un pallone.

Io che ero abituato a fare da punto di riferimento assoluto in tutte le azioni di gioco, nel mio Legia e nella Nazionale polacca.

Poi magari bastava, una finta, un dribbling o un lancio preciso sui piedi di un compagno per scaldare il cuore dei tifosi del City e ricevere scrosci di applausi come se avessi segnato con un tiro da trenta metri.

Ora però sento che le cose stanno cambiando. La mia intesa con i compagni è migliorata e il calcio inglese non è più così incomprensibile e distante come lo è stato all’inizio.

Il nostro manager, Tony Book, ha perfino modificato un pochino il gioco del team e adesso il pallone almeno la metà del tempo lo passa per terra.

Sento che i miei compagni hanno iniziato a fidarsi di me.

All’inizio ero solo un grandissimo calciatore nelle nostre sfide a “calcio-tennis” (devo ancora perdere un singolo match insieme al mio compagno Mick Channon) mentre ora hanno capito che anche sul terreno di gioco posso dare loro una mano.

E le cose stanno iniziando a girare per il verso giusto, per me e per la squadra.

Martedì sera ho segnato il mio primo goal per il Club in campionato.

È servito a darci la vittoria per uno a zero in una importantissima sfida per la salvezza qui al Maine Road contro il Middlesbrough.

E ora non vedo l’ora di tornare in campo!

Mancano solo cinque partite al termine del campionato.

Siamo ad un passo dalla salvezza, ma non dobbiamo abbassare la guardia.

Mica ho dovuto aspettare trent’anni per potermi trasferire all’estero e giocare in Seconda Divisione!

 

 

“Kazi” Deyna sarà determinante in quel finale di stagione.

Il Manchester City confermerà il suo status di squadra di First Division e Kazimierz Deyna, con alcune fantastiche prestazioni, entrerà definitivamente nel cuore dei tifosi del Maine Road.

La doppietta contro il Birmingham City nel 3 a 1 finale del primo maggio, il goal che il sabato successivo sbloccherà il risultato contro il Bristol City e un’altra doppietta nella sconfitta interna con l’Aston Villa nell’ultima di campionato.

Proprio in questo match Deyna segnerà un goal su calcio di punizione che resterà per molti anni a venire nella memoria dei tifosi del City presenti quella sera.

Tutto più che sufficiente a fare entrare Deyna nella storia del Manchester City.

L’anno successivo Deyna, sempre alle prese con diversi guai fisici, faticherà a giocare con continuità, ma quando sarà sorretto da una sufficiente condizione fisica continuerà a mostrare le sue enormi qualità.

Nel Manchester City Deyna rimarrà fino al gennaio del 1981, guadagnandosi, nonostante i tanti infortuni e la miseria di 43 partite totali giocate, lo status di “eroe di culto” per il popolo della parte blu di Manchester.

Per lui Manchester rappresenterà però anche l’acuirsi del suo problema personale con l’alcol.

Al di là del clima e dello stile di gioco, l’Inghilterra non fu esattamente la scelta migliore per il talentuoso playmaker polacco.

La “drink culture” all’interno dei Club inglesi è in quegli anni profondamente radicata.

«Allenati duramente, gioca duramente e bevi ancora più duramente» era uno degli slogan più in voga al tempo.

Per Kazi, che fin da adolescente in Polonia ha sempre avuto molta passione per la bottiglia e altrettanti guai disciplinari, è di sicuro la nazione sbagliata.

Gli viene ritirata la patente per guida in stato di ebbrezza ed in breve tempo diventa uno dei leader del City non solo in campo, dove il suo talento risalta in maniera evidente, ma anche nelle celeberrime “sessions” alcoliche del team dove Deyna tiene senza difficoltà “il passo” dei principali bevitori del Manchester City.

DEYNA CITY

Nel frattempo però, con l’avvento sulla panchina di John Bond, Deyna capisce che lo spazio per lui sarà sempre più limitato.

Per lui c’è un’allettante proposta dai San Diego Soccers nel calcio USA, ancora in grado di attirare vecchi campioni del calcio europeo, magari al crepuscolo delle loro carriere ma ancora in grado di deliziare con la loro tecnica il curioso pubblico statunitense.

Con Kazi negli USA in quegli anni ci sono George Best, Rodney Marsh, Francisco Marinho, Roberto Bettega…

Nei San Diego Sockers, Kazi giocherà per ben 6 stagioni e un calcio meno competitivo gli permetterà una maggiore continuità grazie alla quale mettere in mostra le sue grandi qualità tecniche.

Le prime tre stagioni sono strepitose. Deyna segna e fa segnare.

In un calcio che, condizionato dagli altri sport americani che vanno per la maggiore, è essenzialmente “statistico”, i numeri di Deyna sono impressionanti.

Nel 1983 addirittura giocherà 18 incontri, segnerà 15 reti e registrerà 16 assist… totalizzando un “46” (2 punti per i goal, 1 per gli assist) che negli Stati Uniti è considerato impressionante.

Sembra un periodo finalmente sereno per Kaziemierz, ma evidentemente il suo destino è sempre in bilico su equilibri sottilissimi.

Nel 1984 il calcio “outdoor”, la NASL, chiude i battenti. Deyna, che è una delle poche star rimaste in quel campionato, ne risente parecchio a livello economico. Non solo perché a trentasette anni trovare un altro ingaggio decoroso è tutt’altro che facile, ma anche perché ha scoperto che durante la sua permanenza statunitense il suo manager e amico Ted Miodonski si è messo in tasca una corposa fetta dei suoi guadagni.

Giocherà alcune stagioni nel campionato “indoor”, una pallida controfigura del calcio “vero”.

I risultati sono comunque eccellenti.

I Sockers vincono campionati in serie, ma ad ogni stagione che passa Deyna diventa sempre meno incisivo.

Nel settembre del 1987 Deyna si troverà senza una squadra, con 40 primavere sul groppone, in gravi difficoltà economiche e senza avere la minima idea di cosa fare nel futuro.

«Non ho mai pensato a quando avrei smesso di giocare a calcio. Perfino adesso non riesco a pensarci… eppure sono costretto a farlo» dirà in una intervista dell’epoca.

Con una carriera che volge ormai al termine, una famiglia da mantenere e pochi soldi sul conto corrente, i suoi demoni ritornano più accaniti e feroci che mai.

L’alcol torna ad essere padrone della sua vita. Deyna rifiuta ogni tipo di aiuto e sostegno e si chiude invece sempre di più in se stesso.

Intanto nella sua Polonia le cose sono radicalmente cambiate. Grazie alla strenua lotta dell’ex portuale Lech Walesa e del movimento “Solidarnosc”, la Polonia sta sempre di più affrancandosi dallo stretto giogo dell’Unione Sovietica.

Sono in molti a consigliargli il ritorno nel suo paese. In Polonia è adorato e sono pronti ad accoglierlo come il figliol prodigo. Manca dalla sua Varsavia ormai da quasi dieci anni.

Negli Stati Uniti, dove la popolarità del calcio è comunque ancora poca cosa, nessuno lo riconosce o si ricorda di lui, soprattutto dopo essere diventato un “ex”.

Per ben tre volte Deyna è già stato pizzicato a guidare in stato di ubriachezza. Gli è stata prima sospesa la patente ed è stato in seguito condannato a centottanta giorni di prigione… salvo essere poi rimesso in libertà dopo soli due giorni.

Tutto questo non gli insegna niente.

Sono le una e trenta della notte del 1° settembre 1989. Deyna sta percorrendo la Interstate 15 Nord, sulla Mira Mesa Boulevard. Sulla destra della carreggiata è fermo un grosso camion con i lampeggianti accesi.

Deyna, alla guida della sua Dodge Colt del 1974, si va a schiantare contro il camion. Non c’è alcun segno di frenata.

Kazimierz Deyna, il più forte calciatore polacco di tutti i tempi, morirà pochi minuti dopo il suo ricovero all’ospedale di San Diego per le gravissime ferite alla testa.

Il tasso di alcol riscontrato nel sangue supera il doppio del livello consentito.

Sono passati esattamente tre lustri da quel magico 1974 che consegnò alla storia del calcio questo fantastico calciatore.

Kazimierz Deyna farà ritorno nella sua Varsavia solo nel giugno del 2012 e le sue ceneri saranno sepolte al Powazki, il cimitero militare di Varsavia.

Chi lo conosceva, chi ha giocato con lui o contro di lui lo ricorda come un talento purissimo, un calciatore straordinario che al calcio ha dato tutto se stesso e che del calcio non poteva proprio fare a meno.

Finito il calcio è finita la sua vita.

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ANEDDOTI E CURIOSITÀ

Molto particolare la storia che porterà Kazimierz Deyna a vestire i colori del Manchester City.

Si stanno giocando i Mondiali di Argentina.

Durante una delle partite di qualificazione del primo turno in cui è impegnata la Polonia, il telecronista della BBC Barry Davies menziona il fatto che Kazimierz Deyna, il capitano e regista della Nazionale Polacca, «non nasconde il suo interesse per un trasferimento in un Club dell’Europa Occidentale».

Il commento non sembra nulla di più di una considerazione tutto sommato “normale” parlando di un giocatore di grande talento che, a trentuno anni, ha finalmente la possibilità di lasciare il suo paese per trasferirsi all’estero.

John Roberts, giornalista del Guardian, uno dei principali quotidiani britannici e, pare, tifosissimo del Manchester City, decide di contattare l’allora presidente dei “Blues” di Manchester Peter Swales.

«Presidente, poche settimane fa mi disse che cercava un centrocampista con i piedi buoni. Deyna è quello con i piedi “più buoni” di tutti» riferisce Roberts a Swales.

Viene contattato il Manager della Polonia Jacek Gmoch.

«Non credo sarà un problema, per un Club dell’importanza del Manchester City, riuscire ad avere Deyna» sono le parole dell’allenatore polacco, che aggiunge «Kazimierz ha ancora almeno due stagioni ad altissimi livelli in qualsiasi campionato lo mettiate».

Quando Deyna viene contattato è ancora molto deluso per le sue prestazioni nel recente campionato del mondo argentino.

Il rigore fallito proprio contro i padroni di casa si rivelerà decisivo nell’eliminazione della Polonia.

Ma quando gli viene proposto di andare al Manchester City il suo umore cambierà radicalmente.

Durante la metà degli anni ’70, nel pieno della sua forma fisica, Deyna fu inutilmente contattato da squadre del valore di Barcellona, Real Madrid, Bayern Monaco, Saint-Etienne e AS Monaco.

La regola imposta dalla Federazione (e dal governo) polacca prevedeva che solo al compimento del trentesimo anno di età sarebbe stato possibile per un calciatore espatriare.

Se avere il beneplacito di Deyna fu facilissimo, non altrettanto fu la trattativa che il Manchester City dovette intavolare con il Legia Varsavia, proprietaria del cartellino di Deyna, e soprattutto la squadra della Polizia Militare polacca.

Alla fine l’accordo fu di 100.000 sterline, trasformati in prodotti medicinali, fotocopiatrici, tute, palloni e… dollari statunitensi!

L’inizio di Deyna al Manchester City, come già detto, non fu affatto facile.

Molte critiche gli piovvero addosso per il suo stile compassato, la poca propensione alla fase di recupero del pallone e la scarsa determinazione nei contrasti.

Qualcuno, però, fin dall’inizio capì che Deyna era semplicemente un calciatore di un altro livello.

Uno fra i primi fu Alan Durban, manager dello Stoke City che disse di lui «Il problema è che Kazimierz Deyna viaggia su una lunghezza d’onda diversa da tutti gli altri. Lui è sintonizzato sulla BBC, gli altri su Radio Lussemburgo!»

Deyna fu uno dei protagonisti di “Fuga per la vittoria”, il famoso film ambientato in un campo di prigionia tedesco insieme a Pelè, Bobby Moore, Mike Summerbee, Osvaldo Ardiles e ad un improbabile Sylvester Stallone nelle vesti di portiere.

Sempre agli inizi del suo periodo al City, famosa fu una sua dichiarazione alla stampa: «Non ho bisogno che Malcolm Allison (allenatore del Manchester City) mi sostenga dicendo che sono un grande giocatore. Che sono un grande giocatore me lo ha già detto Pelè».

Questo era Kazimierz Deyna, il più grande calciatore polacco di tutti i tempi.

 

GRIGORIJ PERELMAN: Il matematico che rinunciò a un milione di dollari per andar a cercar funghi.

di MASSIMO BENCIVENGA

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Qual è geomètra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’egli indige

 

Una terzina che si trova poco più della ben più celebre

 

L’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

Naturalmente sto parlando della parte conclusiva de La Divina Commedia, laddove ogni

cantica, come ben sapete, termina con la parola stelle e laddove, in altro canto del Paradiso, il numero 19, Dante fa finire tre terzine alternate con la parola Cristo.

Non è di Cristo che voglio parlare, ma di geometri, in senso matematico, e di una storia ai limiti del credibile.

Una storia quasi da film.

Quasi.

E invece reale.

Crudelmente reale.

Dante usa la similitudine con il lavoro del matematico che tenta di misurare la circonferenza usando dei poligoni per spiegare, in maniera figurata, l’impossibilità di rendere a parole l’esperienza divina.

La quadratura del cerchio era un problema noto da secoli, ma Dante non sospettava d’aver dato il là, con la sua Commedia, alla ricerca furiosa di un’altra chicca matematica. I più arguti e attenti di voi saranno rimasti un po’ straniti davanti alla struttura dell’Oltretomba dantesco.

Sfere dentro sfere che s’innestano su altre superficie sferiche.

L’Oltretomba dantesco è come se fosse composto da due sfere con un bordo in comune. E

Nessun buco.

Di modo che uno potrebbe muoversi a piacimento come se fosse su un’unica superficie. Dante tutto ciò non lo sapeva, visto che questo problema topologico fu avanzato, perlomeno in maniera formale, da Henry Poincare intorno al 1904 quando si chiese se

una qualunque forma geometrica (una 3-varietà) chiusa e senza buchi in uno spazio di 4 dimensioni è identica (nel senso di cui sopra) ad una sfera in 4 dimensioni (una 3-sfera),

vale a dire si chiese se esisteva un qualche modo che consentisse di trasformare

(topologicamente) la prima sfera nella seconda.

Quasi un secolo dopo, nel 2000, l’imprenditore Landon T. Clay enunciò, sul modello dei

problemi del secolo proposti da Hilbert nel 1900, i Problemi matematici del Millennio, sette per essere precisi, promettendo una ricompensa di un milione di dollari a chiunque ne avesse risolto almeno uno.

Tra questi problemi c’era la Congettura di Poincaré.

Verso la fine del 2002, il matematico russo Grigorij Jakovlevič Perel’man cominciò a caricare su un server per matematici la risoluzione di questa congettura. Come nel caso del ben più celebre Ultimo teorema di Fermat, a un certo punto, dopo premesse incoraggianti, la comunità matematica trovò delle imprecisioni.

E come in quel caso, alla fine, e parliamo del tardo autunno del 2005, Perel’man riuscì a

mettere insieme i pezzi e a dimostrare in maniera affermativa la Congettura di Poincaré,

gettando un ponte, stante la potenza della topologia, su una maggiore comprensione della struttura dell’Universo.

I più ottimisti pensano che questa nuova certezza matematica possa aiutare ad avvicinare la teoria gravitazionale con la meccanica quantistica. In questo senso son passati 15 anni senza sostanziali passi avanti.

Nel 2005, Perel’man, nato a Leningrado (ora San Pietroburgo) nel 1966, aveva 39 anni. In

tempo per confermare una diceria e ricevere un premio. La diceria è quella che racconta di come i matematici diano il meglio di sé prima dei quarant’anni.

Il premio è la celebre Medaglia Fields, il cosidetto Nobel dei matematici.

Esistono storie divertenti e pruriginose sul perché Nobel non istituì un premio anche per i matematici.

Divertenti.

Pruriginose.

E false.

Nel 2006 la Medaglia fu assegnata a Perel’man e ad altri tre giovani studiosi. Contestualmente, sir John Ball, all’epoca presidente dell’Unione Matematica Internazionale, dichiarò la rinuncia al premio da parte dello stesso Grigorij.

In molti restarono sorpresi, ma non tutti.

Grigorij Jakovlevič Perel’man era recidivo.

Perel’man anni prima già non aveva ritirato l’European Mathematical Society.

Pensare che gente come John Nash o come Cedric Villani ha perso il sonno, nel caso di Nash anche il senno, pur di vincere il Premio, rende Grigorij Jakovlevič Perel’man ancor più originale anche all’interno di un mondo di alienati come quello dei matematici, con Talete che cadde in un pozzo suscitando l’ilarità della sua servetta, con Fermat che non aveva spazio sul margine per una dimostrazione e proseguendo, in una incompletissima carrellata, con la domestica di Riemann che bruciò la sua congettura.

Una cosa così potente, la congettura di Riemann, che se confutata metterebbe a rischio le

nostre transazioni bancarie.

A ben vedere, lo zelo di servette e domestiche ha spesso arrecato non poco danno alla Scienza e alla Conoscenza.

Ecco, pur all’interno di un contesto popolato da personaggi così sopra le righe, anche se Talete poi dimostrò anche senso pratico e commerciale, uno come Grigorij Jakovlevič Perel’man, figlio di un ingegnere di chiare origine ebree, rappresenta un Unicum.

Perché se la gloria materiale può far schifo, quella immateriale, di fama imperitura, è sempre stata ferocemente inseguita e perseguita dai matematici, ben consapevoli che, a differenza di altri risultati in altre branche della Scienza, un teorema è… per sempre, direbbero alla De Beers.

Se rigorosamente dimostrato, un teorema potrà poi essere inglobato in casi particolari, ma mai del tutto superato o accantonato come succede per le altre scienze, dove nuove teorie soppiantano le vecchie relegandole al rango di errate credenze.

Ebbene, Grigorij Jakovlevič Perel’man, è forse l’unico caso di un matematico che ha rifiutato congiuntamente fama futura e successo monetario.

Già, perché non pago, quando nel 2010 l’Istituto Clay decise di tributargli il Milione di euro del Premio, Grigorij non trovò di meglio che rifiutare anche i soldi.

In quel momento viveva senza lavoro, avendo abbandonato anche l’insegnamento

unIversitario, e della pensione della mamma, ex insegnante di matematica.

È stato anche una delle ultime volte che s’è sentita la sua voce, quando sostenne che troppi soldi in Russia generano solo violenza.

Lasciandosi però andare a una chiosa civettuola, quando disse che se la soluzione era corretta, lui non aveva bisogno di altri riconoscimenti.

In questo accomunato da Andrew Wiles, l’uomo de L’ultimo teorema di Fermat, che per

questione di mesi non potè fregiarsi della Medaglia Fields.

Wiles, in modo molto british, affermò che nel momento in cui dimostri Fermat, del Premio non t’importa più nulla.

Da anni nessuno sa dove sia e cosa faccia Grigorij Jakovlevič Perel’man. Per alcuni s’è dato alla raccolta di funghi che, per uno con quella capacità di astrazione, può rappresentare una nuova sfida, atteso che i funghi son presenti sulla terra da milioni di anni prima dell’uomo e che, a loro volta, rappresentano un intero universo.

Prima ho parlato di Hilbert. Bene, sulla sua tomba c’è l’estratto di un suo discorso:

 

Wir mussen wissen,

wir werden wissen

(Dobbiamo sapere,

sapremo)

 

Sembra essere stata davvero questa, la conoscenza in sé, la stella polare che ha guidato sino a un certo punto la rotta matematica di Grigorij Jakovlevič Perel’man, l’uomo che ha rifiutato, da disoccupato, un milione di dollari.

Intorno al 2012, forse anche 2013, cominciò a girar voce che James Cameron, regista di

Terminator, Titanic e Avatar, figlio come Grigorij di un ingegnere e a sua volta ex studente di fisica, avesse in mente di girare un film, un biopic sull’eccentrico matematico russo. A quanto ne so, la cosa non è andata avanti.

Anche perché, come detto, riesce difficile parlare con Grigorij che, Dio non voglia!, potrebbe anche essere morto o moribondo visto e considerato che nessuno sa dove sia.

Le ultime foto lo ritraggono in metropolitana, con l’immancabile barba.

Sembra un barbone, ne ha l’aspetto, ma negli occhi è ben visibile lo shining, lo scintillio di chi ha capito il Paradiso e visto le Stelle.

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ROBERTO D’AVERSA: … il vento farà il suo giro …

di REMO GANDOLFI

(articolo scritto nel febbraio di quest’anno per SPORT MEDIASET)

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Siamo nel tardo autunno del 2016. L’idea romantica del nuovo corso del Parma Calcio 1913, nato dalle ceneri della precedente funesta gestione, di affidare la responsabilità tecnica ad alcuni dei suoi figli prediletti del passato (Nevio Scala alla presidenza, Luigi Apolloni in panchina, con Lorenzo Minotti Direttore Sportivo e Fausto Pizzi Responsabile del settore giovanile) è già arrivata alla fine del suo percorso, durato poco più di un anno.

Un anno in cui il Parma, sprofondato in Serie D “grazie” essenzialmente alla premiata ditta “Ghirardi & Leonardi”, era riuscito immediatamente a risalire nella serie superiore.

Bastano però poche settimane nel campionato di Serie C per ricredersi su quell’affascinante progetto.

La promozione alla serie cadetta, obiettivo dichiarato dalla giovane e ambiziosa dirigenza, è a rischio.

A metà novembre la classifica è già deficitaria e le posizioni di vertice si stanno rapidamente allontanando.

Come sempre, il primo a farne le spese, è “Mister” Gigi Apolloni.

Il progetto crolla come un castello di carte. Gli altri ex del Parma dei primi trionfi se ne vanno con lui. Per un paio di settimane sarà un altro ex, Stefano Morrone, a guidare la squadra.

Il 3 dicembre arriva dalla società una comunicazione ufficiale.

Il Parma Calcio 1913 ha scelto il nuovo allenatore.

Si chiama ROBERTO D’AVERSA.

… Roberto CHI ???

Per i tifosi crociati la delusione è palpabile.

Si pensava (e si sperava !) ad un nome di maggior impatto mediatico e soprattutto ad un allenatore di esperienza in grado di garantire ai ducali la possibilità di tornare immediatamente ai vertici di un campionato che invece stava sfuggendo di mano.

Neanche il tempo della consueta ricerca di informazioni su Google che il Parma fa un altro annuncio. Le sorti della gestione tecnica saranno condivise con il nuovo Direttore Sportivo Daniele Faggiano, dimessosi pochi giorni prima dal suo incarico nel Palermo, squadra militante nel campionato di Serie A, per divergenze con il presidente Zamparini.

Minuscolo

Roberto D’Aversa dimostra immediatamente di avere le idee chiare.

Il Parma si schiera con un 4-3-3 molto moderno e dinamico, con gli esterni molto larghi in fase offensiva per permettere alla squadra di attaccare in ampiezza, un centrocampo con un regista “basso” e una difesa abbastanza “bloccata” con i terzini più portati ad appoggiare l’azione offensiva piuttosto che alla sovrapposizioni.

Con un “bonus” non indifferente.

Alessandro Lucarelli, capitano, icona, bandiera e soprattutto l’unico ad accettare di ripartire dalla serie D, ancora al centro della difesa a guidare e organizzare un reparto  che diventerà a breve una garanzia assoluta.

D’Aversa cura inoltre con attenzione quasi maniacale i calci piazzati, altra arma che si rivelerà decisiva nella risalita verso le posizioni di vertice del campionato.

Alla terza partita sulla panchina dei ducali arriva il derby con la Reggiana.

A Parma probabilmente si potrà accettare di buon grado di non riuscire a risalire immediatamente in B.

Molto più difficile accettare di uscire sconfitti in un derby con i “cugini” reggiani.

L’incontro, giocato al Mapei Stadium di Reggio davanti a quasi 18.000 spettatori, vedrà la vittoria del Parma per due reti a zero, confermando quella solidità e quella organizzazione di gioco alla quale D’Aversa sta lavorando con grande dedizione fin dal suo arrivo.

Sarà la prima grande svolta di una stagione che ci concluderà con la vittoria nella finale dei play-off contro l’Alessandria disputata al Franchi di Firenze che sancirà il ritorno del Parma Calcio nella serie cadetta.

Il salto però è importante e la rosa va rinnovata e “puntellata” con innesti di qualità.

Faggiano ha già dimostrato di conoscere i calciatori e di sapersi muovere sul mercato con assoluta disinvoltura.

A giocatori che si riveleranno fondamentali nel futuro dei crociati acquistati durante la sessione invernale (Scozzarella, Iacoponi, Munari e Frattali) nell’estate arriveranno Gagliolo, Siligardi, Barillà, Di Gaudio, Ceravolo, Dezi e Insigne ma l’acquisto più importante ancora una volta sarà la decisione di Capitan Lucarelli di prolungare per un altro anno l’attività agonistica.

Il 4-3-3 di D’Aversa dà garanzie importanti.

I giocatori si riconoscono in questo sistema di gioco e chiunque scenda in campo dimostra di trovarsi a proprio agio e di conoscere alla perfezione i movimenti richiesti.

Nelle intenzioni della vigilia c’è la volontà di affrontare una stagione di adattamento alla categoria, senza patemi d’animo relativi alla permanenza nella serie cadetta ma con la consapevolezza che almeno una stagione sarà necessaria per capire limiti e possibilità della rosa a disposizione prima magari di investire nella stagione successiva per arrivare a risultati più ambiziosi.

Per i bookmakers (che “sanno”) il Parma è poco più di un’outsider, che potrà puntare a finire nella prima metà della classifica ma con scarse possibilità di promozione.

Senza contare il fatto che nessuna squadra nella storia del calcio italiano è mai riuscita sul campo a fare il “salto triplo” dalla serie D alla A.

E anche questo vorrà dire qualcosa !

Esiste però a Parma una parte consistente della tifoseria a cui queste previsioni non piacciono minimamente.

La “grandeur” di cui Parma si è nutrita per oltre tre secoli è difficile da estirpare dalle abitudini di tanti suoi abitanti che continuano imperterriti a pensare che Parma abbia il diritto divino di primeggiare in tutto quello che fa.

Che si parli di lirica, di cibo, di bellezze artistica e di sport.

E’ quello zoccolo duro di tifosi che generalmente popolano le poltroncine più costose, che vivono ancora negli anni ’90 del grande Parma del Cavalier

Tanzi e che si avvicinano al calcio allo stesso modo con cui vanno a teatro o si siedono a tavola: pretendono semplicemente il meglio.

Gli stessi che, Parma Calcio a parte, guardano l’Italia ai Mondiali di calcio, qualche partita di Champions League e la loro conoscenza calcistica finisce lì.

A questi basta un inizio di stagione “normale”, dove c’è la necessità di conoscere la categoria, dove gli errori inizi a pagarli duramente, dove ci sono avversari con un tasso tecnico superiore e dove l’inesperienza di tanti giocatori del Parma che la B la conoscono relativamente necessita di tempo e un po’ di pazienza.

Una sola vittoria nelle prime nove partite trasforma molto velocemente i mugugni iniziali in una vera e propria contestazione che arriva al suo zenit nel gennaio del 2018, con il Parma fuori dalla zona play-offs e Roberto D’Aversa al centro di attacchi sempre più duri da parte di “tifosi” che talvolta perdono il senso della misura stridendo in maniera importante con quella che è l’immagine di Parma, cioè una città non solo accogliente e civile ma anche profondamente equilibrata ed educata.

Per fortuna in quel periodo dove quattro/quinti dei supporter ducali chiedono la testa di Roberto D’Aversa ci sono diverse eccezioni.

E tutte importantissime.

Innanzitutto la squadra, compattissima e coesa a fianco del suo allenatore.

Ci sono i principali giornalisti locali che, pur non riservando le critiche necessarie a tenere sempre alta la concentrazione, vedono e riconoscono il grande lavoro svolto da D’Aversa e dai suoi ragazzi.

C’è la società e in primis il vice Presidente Pietro Pizzarotti, che non solo confermano il loro apprezzamento e il pieno appoggio a D’Aversa ma che proprio nel momento di maggiore difficoltà decidono di rinnovargli il contratto per la stagione successiva … con lo stesso Pizzarotti che aggiunge “se fosse per me a D’Aversa farei un contratto di dieci anni!”

Infine c’è la curva Nord.

Il cuore pulsante della tifoseria dei Crociati che non ha mai fatto mancare un solo secondo il proprio incitamento e sostegno a squadra e allenatore.

Quella formata da quei ragazzi che solo due stagioni prima spendevano i loro soldi per seguire il Parma ad Arzignano, a Rovigo o a Chioggia e che sanno cosa sia la “sofferenza” molto di più dei “soloni” seduti in tribuna.

Passato il periodo difficile (giocato tra l’altro senza entrambi i centravanti titolari Calaiò e Ceravolo) il Parma inizia a risalire la classifica. La promozione inizia a diventare una seria possibilità.

A Cesena un’inopinata sconfitta arrivata nei minuti finali, rimette tutto in discussione.

Si arriva all’ultima partita di campionato ma le carte migliori le ha in mano il Frosinone a cui basta battere un Foggia ormai fuori dalla mischia per garantirsi il secondo posto valido per la promozione diretta, costringendo i crociati ai play-offs.

Come è andata lo sappiamo tutti.

Il Parma fa il suo dovere vincendo a La Spezia e la dea bendata, tramite il piede destro del giocatore del Foggia Roberto Floriano, fa il resto.

Il Parma compie un autentico miracolo sportivo, destinato ad entrare nella leggenda del calcio italiano: la terza promozione consecutiva ottenuta sul campo.

La gioia è però di breve durata.

Alcuni messaggi scambiati tra giocatori del Parma e dello Spezia nei giorni antecedenti l’ultima di campionato tengono con il fiato sospeso tutti i supporter dei crociati.

E soprattutto bloccano i movimenti di mercato della Società per praticamente tutta l’estate.

Comprare per la serie A o per un altro campionato di B ?

La differenza è sostanziale.

Per ora ci si limita a piangere l’addio di Capitan Lucarelli e a confermare buona parte dell’ossatura che ha conquistato la promozione.

Sono rimasti in tanti e non per fare i comprimari. Iacoponi, Gagliolo, Scozzarella, Barillà, Siligardi, Di Gaudio.

Quando arriva il (logico) verdetto che garantisce al Parma il ritorno nella massima serie il mercato è ormai agli sgoccioli.

Nonostante questo il D.S. Faggiano (fino a quel momento praticamente infallibile) a giovani di belle speranze come Di Marco, Stulac, Grassi, Bastoni e altri più esperti come Sepe, Inglese, Gobbi e Biabiany porta a Parma due calciatori di grande esperienza e con un passato importante: il difensore centrale portoghese Bruno Alves e l’attaccante ivoriano Gervinho.

Arrivano come svincolati e da due campionati “minori” come quello scozzese e quello cinese. Sono entrambi ormai al crepuscolo delle loro carriere.

Si riveleranno fondamentali.

Può sembrare incredibile ma anche in quell’estate i mugugni non si placano.

I leoncini da tastiera si scatenano sui social. L’obiettivo è sempre lo stesso.

“Se vogliamo tornare in B subito basta che confermiamo D’Aversa” oppure “D’Aversa non è un allenatore da Serie A. Occorre qualcuno d’esperienza”.

E’ con queste premesse che inizia il campionato di Serie A, stagione 2018-2019.

E in barba a “soloni” e “leoncini” il Parma e D’Aversa si adattano immediatamente alla realtà della massima serie.

Intelligenza e pragmatismo sono doti fondamentali per qualsiasi allenatore.

Per D’Aversa sono probabilmente le due peculiarità principali.

Capisce che le qualità tecniche del “nemico” (le altre 19 squadre della Serie A) sono praticamente tutte superiori a quelle dei suoi ragazzi.

Giocarsela alla pari o “a viso aperto” come si diceva un tempo vuol dire andare al martirio.

Il centrocampo del Parma in particolare è probabilmente, da un punto di vista tecnico, il più debole di tutto il campionato.

Occorre allora limitare al minimo le qualità dell’avversario ed esaltare le proprie che saranno corsa, agonismo, attenzione tattica e sacrificio.

D’Aversa fa esattamente questo.

Sembra quasi attingere da “L’arte della Guerra” di Sun Tzu.

Studiare l’avversario nei minimi dettagli per neutralizzarne la forza diventa la chiave della vittoria.

E mentre il mondo del calcio ormai ad ogni latitudine continua a scimmiottare se stesso in quello stucchevole “possesso palla” fatto di decine e decine di noiosi passaggi in orizzontale per guadagnare magari cinque metri di campo, D’Aversa ricorre ad un calcio diverso, talmente diverso da risultare diametralmente opposto a quello “trendy” e globalizzato.

La difesa rimane “bassa” a presidiare la propria area di rigore, i terzini stanno “a casa” preoccupandosi innanzitutto di difendere e quando i difensori sono in possesso della sfera non devono guardare al compagno di fianco ma davanti a loro, in verticale.

E i passaggi non sono di 5 metri ma di 30 o 40.

Davanti c’è un centravanti come Inglese che, come aveva fatto Calaiò nelle stagioni precedenti, è lì apposta per rendere giocabili quei palloni, “sgonfiandoli” per i compagni di squadra, che siano i centrocampisti che salgono in appoggio e gli esterni su cui scaricare il pallone.

L’obiettivo è dichiarato: fare densità nella propria metà campo e avere più spazio possibile in quella avversaria.

Gli uomini per questo tipo di gioco sono perfetti.

A cominciare da Gervinho che quando ha spazio a disposizione diventa incontenibile.

Ogni partita è una battaglia.

Ma la squadra è compatta, tosta e organizzata.

Si soffre, ma si sapeva.

I mugugni, il famoso “brusio” delle zone nobili del Tardini non si sono mai placati del tutto.

Adesso che si è in Serie A, che si stanno facendo i punti necessari a garantire la permanenza occorre trovare qualcos’altro su cui polemizzare, qualcosa per cui attaccare D’Aversa, mai troppo amato neppure adesso.

E i “santoni” del Tardini e i “leoncini” da tastiera l’argomento lo trovano anche stavolta.

IL GIOCO.
O meglio … l’assenza di gioco.

Hai tempo di spiegargli che “il gioco” non è fare 10 passaggi laterali di fila ma che la parola “gioco” di per se non vuole dire nulla se non è accompagnata dalla parola “organizzazione”.

Allora si che ha un senso.

E il Parma è una delle squadre più organizzate di tutta la Serie A.

Perché quando tutti sanno esattamente cosa fare in campo, quando i compiti sono chiari, quando sono alla portata dei giocatori e quando tutti, comprese le seconde linee, sanno entrare e fare il loro dovere … quella si chiama “organizzazione di gioco” che alcuni allenatori sanno dare altri no.

“Giochiamo da schifo” oppure “Non facciamo due passaggi di fila” “La mano dell’allenatore non si vede per niente” sono le frasi più ricorrenti dei nostri “amici”.

Insomma, lo stesso medesimo meccanismo che per fortuna mette in moto gli stessi medesimi meccanismi della stagione precedente.

La lungimiranza e il senso di riconoscenza di Pizzarotti e della società che rinnovano il contratto a D’Aversa, la squadra che si compatta e alza ulteriormente il livello delle proprie prestazioni e la curva Nord che sostiene la squadra anche e soprattutto nei momenti più difficili e delicati delle partite.

Il Parma conquista la salvezza, faticando si ma senza alcun patema d’animo.

Si arriva così alla stagione in corso

Faggiano consegna a D’Aversa giocatori perfetti per “l’organizzazione di gioco” del Parma e soprattutto a centrocampo si uniscono a Kucka, arrivato nel mercato invernale precedente, giocatori come Hernani, Brugman e l’ultimo arrivato Kurtic che permettono al Parma di alzare in modo esponenziale il tasso tecnico in quel reparto nevralgico.

Con questi “ingredienti” si può pensare ad un piatto più prelibato, anche esteticamente. Non solo che tolga la fame ma che abbia anche gusto.

D’Aversa “alza” la linea difensiva del Parma e pur mantenendo inalterate le sue preziose qualità di squadra contropiedista (saper fare bene un contropiede non sarà mica diventato un difetto ?!) ora è in grado anche all’occorrenza di “fare” la partita, di attaccare in numero e di fare densità anche nella metà campo avversaria.

Attaccanti veloci e tecnici, due prime punte da poter alternare, entrambe potenti, forti in acrobazia e capaci di far salire la squadra,  un centrocampo dinamico e con un discreto tasso tecnico e una difesa solida nella quale al fianco di Bruno Alves e del neo-acquisto Darmian continuano ad essere giocatori imprescindibili Iacoponi e Gagliolo, protagonisti già della promozione dalla serie cadetta.

E così, da un giorno all’altro, il nostro Mister è diventato, anche per gli aristocratici del Tardini e i leoncini dei social, il nuovo “Special One” della Pianura Padana.

In queste ultime settimane lo sport preferito di Parma e provincia si chiama “Tutti sul carro” a festeggiare il Parma Calcio e il suo Profeta.

Sono già arrivati copiosi i “Io l’ho sempre difeso !” oppure “Mai avuto dubbi su di lui. Erano i giocatori che non lo seguivano !” e anche “Che era bravo si vedeva dai ! Era solo questione di tempo !” e perfino un “Tatticamente bravi come lui non ce ne sono !”.

Tranquilli.

E’ solo questione di tempo.

Alla terza sconfitta consecutiva (che arriverà prima o poi perché in nove mesi di campionato un calo è fisiologico per tutte le squadre di tutto il pianeta) torneranno tutti fuori come lupetti dalle loro tane.

E saranno più agguerriti che mai !

Sono aperte le scommesse sull’argomento.

“Hanno già tutti la testa altrove. Si sentono già in altri lidi”

“Al solito. Ha ancora sbagliato preparazione. E così ci mangiamo l’Europa League” (!)

“Hanno finito la benzina. Non è proprio capace di fare il turn over !”.

Li stiamo già aspettando al varco.

Chi ha invece lo ha visto lavorare, chi conosce la sua meticolosità, la sua eccellente gestione del gruppo e la sua professionalità di certezze ne ha un’altra: che Parma e i parmigiani, presto o tardi, arriveranno a rimpiangere il Signor Roberto D’Aversa.

 

POSTILLA

Questo pezzo, pubblicato a marzo da Sport Mediaset, è stato scritto il 20 febbraio del 2020, pochi giorni prima dell’arrivo del Covid.

E’ di un paio di giorni fa (22 agosto) la notizia della fine del rapporto tra il Signor Roberto D’Aversa e il Parma Calcio.

Non avrei mai pensato di doverlo ringraziare così presto ma è così.

In bocca al lupo Mister.

LEE SHARPE: Troppa voglia di vita.

di REMO GANDOLFI 

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Adesso potrei, e forse dovrei, essere nel miglior momento della mia carriera.

Quello in cui hai accumulato sufficiente esperienza per imparare a gestire qualunque situazione ti si presenti in partita e, al tempo stesso, hai ancora la prestanza fisica per giocare senza alcuna fatica ai massimi livelli.

Invece io, a 31 anni, non ho più neppure una squadra per cui giocare.

Avevo diciassette anni e avevo giocato un pugno di partite con il Torquay in Terza Divisione quando Alex Ferguson venne a vedermi giocare.

Gli piacque quello che vide e mi portò con sé al Manchester United.

Pagò la cifra più alta mai pagata per un teenager nella storia del calcio britannico: 300.000 sterline. Un sacco di soldi all’epoca.

Era il giugno del 1988. A settembre di quello stesso anno Ferguson mi buttò nella mischia.

Era una partita di campionato contro il West Ham: vincemmo 2 a 0.

E quando dopo pochi mesi Jesper Olsen venne ceduto al Bordeaux e la maglia numero 11 si trovò improvvisamente senza un padrone, capii che era arrivata la mia grande occasione. Non avevo ancora diciotto anni e giocavo davanti a 40.000 spettatori all’Old Trafford. Roba da non crederci!

Mi riusciva tutto facile. Anzi, i ritmi in Terza Divisione erano assai più ossessivi. Nella massima serie, almeno se sapevi stoppare decentemente un pallone avevi il tempo di alzare la testa e scegliere l’opzione migliore.

Ferguson mi lasciò il tempo di maturare, facendomi giocare spesso, ma non facendomi mai sentire troppa pressione.

Anche se non fui felice di dover assistere dalla tribuna alla nostra vittoria in FA CUP, il primo trionfo dell’era Ferguson dopo tanti anni di vacche magre.

Nell’estate del 1990, però, Ferguson fu chiarissimo con me. «Figliolo,-mi disse- sarai la nostra ala sinistra titolare ad inizio stagione. Dipende da te se vuoi che quella maglia sia tua per tutta la stagione o meno».

Giocai una stagione meravigliosa, sensazionale, fantastica.

Vincemmo la Coppa delle Coppe battendo il Barcellona in finale e per me arrivò il premio come “Miglior giovane calciatore dell’anno”.

Avevo appena compiuto venti anni e qualche settimana prima del mio compleanno era arrivato anche l’esordio in Nazionale.

Ero il più giovane calciatore a indossare la maglia bianca dei “Tre Leoni” dopo Duncan Edwards.

Cosa poteva andare storto?

Invece qualcosa di storto c’era. Era la mia testa.

Avevo venti anni e pensavo che per un calciatore professionista vivere come un normale ventenne fosse non solo possibile, ma anche la cosa più naturale di questo mondo.

La vita notturna di Manchester era meravigliosa a quei tempi: locali a tutti gli angoli di strada, musica fantastica e ragazze che ti cadevano ai piedi.

Passai l’estate del 1991 a “vivere”.

Come un ragazzo di vent’anni.

Con la differenza che avevo molti più soldi in tasca dei miei coetanei e…, diciamocelo, ero e sono anche piuttosto attraente!

Credo che in quell’estate io abbia passato non più di tre giorni sobrio…

Ma il primo giorno di allenamento, nei 12 minuti di corsa a cui ci sottoponeva Ferguson per vedere in che stato eravamo al rientro dall’estate, arrivai terzo…

Altre vittorie, altre grandi partite (tra cui una tripletta contro l’Arsenal in Coppa di Lega), ma poi qualcosa comincia ad andare storto.

Nel novembre 1992 mi ammalo di meningite. Non esattamente una passeggiata.

I tabloids inglesi mi sono sempre più addosso. Le loro risorse di fango da tirarmi addosso sono infinite.

Dicono che mi drogo, che sono ubriaco tutte le sere, che salto gli allenamenti…

Tutte cazzate. Sto solo male!

E ci metto dei mesi prima di rimettermi a posto, in condizione di giocare a calcio ai livelli a cui avevo abituato il Boss, i miei compagni e i tifosi dell’Old Trafford. Ma il problema non è solo il mio fisico che ha bisogno di un po’ di tempo per tornare quello di prima.

L’altro problema è che, quando sono finalmente pronto per tornare in squadra, all’ala sinistra gioca un ragazzino secco secco ma più veloce di un fulmine: si chiama Ryan Giggs e capisco subito che riprendere la maglia numero 11 sarà un’impresa.

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E allora divento un “comodino” come si dice da queste parti. Buono per tutte le occasioni… e per tutti i ruoli: terzino sinistro, ala destra, centrocampista centrale e qualche volta perfino nel mio ruolo all’ala sinistra, quando Ryan è stanco o ha problemi fisici.

Tante volte mi capita anche di dovermi sedere in panchina o addirittura in tribuna.

Il mio gioco è basato su tre cose; velocità, cross e autostima. Le prime due non mi sono mai mancate… con la terza comincio ad avere dei problemi.

Mi convinco che quando Ferguson mi mette in campo devo per forza fare sfracelli.

Per l’amor di Dio… qualche volta ci riesco pure! Contro il Barcellona in Champions League nell’ottobre del 1994 semplicemente non riuscivano a prendermi. Un assist (uno dei miei cross al bacio per Hughesy) e un goal… E che goal! Un colpo di tacco che fece venire giù l’Old Trafford!

Ma i guai fisici cominciavano a diventare sempre più costanti e quando la stagione successiva arrivò una brutta frattura alla caviglia pensai davvero che ormai la sfortuna mi si fosse appiccicata addosso.

Quando tornai, Kanchelskis, l’ala destra titolare, venne venduto all’Everton.

E visto che Giggs sull’altra fascia era ormai semplicemente di un altro pianeta, pensai che quella potesse diventare la mia posizione.

Ferguson, però, stava allevando una generazione di piccoli fenomeni nelle giovanili.

Uno di questi era biondino, con i capelli sempre impeccabili. Non era un fulmine di guerra ma con il piede destro faceva davvero quello che voleva.

Si chiamava David Beckham.

Chiesi di andare via; non ne potevo più di vedere i miei compagni sollevare un trofeo dopo l’altro mentre io restavo sempre ai margini.

Ok! Quando c’era da festeggiare ero sempre una star e nei locali facevo abbondantemente la mia parte, ma in campo contavo sempre meno.

Si fece avanti il Leeds United. Fino a pochi anni prima erano stati fra i nostri più acerrimi rivali. Anzi, nel 1992 ci avevano strappato un titolo che sentivamo già nostro.

Howard Wilkinson mi voleva a tutti i costi. Ok, questa è l’occasione mi sono detto.

Dopo un mese l’uomo che mi aveva voluto a tutti i costi a Leeds (pagando la bellezza di 4.5 milioni di sterline) venne licenziato.

Al suo posto George Graham. Uno che con i calciatori “creativi” e un po’ anarchici come il sottoscritto ci va d’accordo come i gatti con l’acqua.

Non mi arresi e per un po’ di tempo trovammo il modo di convivere. Tra un guaio muscolare e l’altro giocai 26 partite in campionato e feci 5 goal. Insomma, non avevo fatto sfracelli ma la mia parte sì, e appieno.

Ma quella puttana della sfortuna decide di non mollarmi. Nell’ultima partita di precampionato della stagione successiva mi saltano i legamenti crociati del ginocchio.

A quei tempi non era uno scherzo, così rimango fuori tutta la stagione. Del sottoscritto tifosi e compagni si ricordano solo per avermi visto nella foto di squadra il primo giorno di ritiro.

Rientro ma non sono più io. Ho perso quel metro di velocità che per me era tutto, era la “differenza”.

Graham (con grande gioia di tutta la squadra) se ne va dal Leeds United per accasarsi al Tottenham.

David O’Leary, che era il suo braccio destro, diventa il nostro Manager.

«Non rientri nei miei piani Sharpey, occorre che ti trovi una squadra». Se non altro è stato onesto.

Non mollo, continuo ad allenarmi e a lottare per avere un’occasione. O’Leary forse si commuove e mi butta dentro per una partita di Coppa Uefa contro la Roma.

Dopo un’ora in cui dalle tribune mi dicono di tutto -il coro più gentile è “Sharp, you are shit!”-O’Leary, sempre per compassione, mi toglie dal campo.

Sparisco negli spogliatoi. So benissimo che quella sarà l’ultima partita al Leeds.

Da lì in poi è un precipitare senza paracadute verso l’abisso.

Bradford, Portsmouth in prestito… fino ad essere addirittura scartato dall’Exeter City, che gioca nella Quarta serie Professionistica.

Accetto di provare per il Grimsby e per il Rotherham. Niente da fare. Non mi ritengono all’altezza.

E adesso sono qua, in attesa che suoni quel maledetto telefono e che mi venga data un’altra possibilità.

A Dubai? In Sudafrica? Negli Stati Uniti?

Dovunque sia, ma a trentuno anni non ho nessuna intenzione di arrendermi… anche se sono il primo a sapere che il Lee Sharpe di quell’Arsenal-Manchester United di Coppa non tornerà mai più.

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Lee Sharpe avrà effettivamente un’offerta per continuare a giocare a calcio.Dalla squadra islandese del Grindavik.

Ci giocherà sette partite prima di rendersi conto che forse c’è un limite a tutto.

In Inghilterra le uniche offerte che arrivano sono da squadre semi professionistiche.

La voglia di giocare sarà più forte dell’orgoglio, ma dopo una stagione al Garforth Town, anche Lee capisce che non è il caso di continuare a farsi del male.

A trentatré anni Lee Sharpe chiude con il calcio.

E si aggiunge alla lunga, interminabile lista dei calciatori di cui si dirà in eterno “avrebbe potuto fare molto di più” …

 

 

ANEDDOTI E CURIOSITÀ

«Un giorno venne a casa mia Alex Ferguson. Era convintissimo che Giggs ed io fossimo stati fuori tutto il giorno a bere e a fare casino. Quando suonò alla porta andò ad aprire proprio Giggs, che aveva in mano le uniche due bottiglie di birra che ci fossero in casa.

Ferguson ce ne disse di tutti i colori: “Siete stati fuori a bere tutto il giorno e ancora non vi basta. Anche in casa continuate a bere come dei vecchi alcolizzati”. Il Boss era su tutte le furie. Noi incassammo, zitti e a testa bassa.

… Mica potevamo dirgli che stavamo uscendo proprio in quel momento

«Ferguson era veramente incredibile. Sapeva tutto, non lo potevi fregare.

Uscivi al sabato sera e lui all’allenamento del lunedì sapeva dov’eri stato, con chi e a che ora e in che condizioni eri tornato.

Allora mi terrorizzava… poi capii che era un modo per prendersi cura di noi».

Al rientro dal grave infortunio al Leeds trovare posto nel team di David O’Leary per Sharpe fu impossibile. Un’ancora di salvezza arrivò, nell’autunno del 1998, dal vecchio compagno di Nazionale David Platt, neo-allenatore della Sampdoria.

Sharpe fece le valigie per l’Italia, carico come una molla e convinto che questa sarebbe stata la sua grande occasione.

… Dopo neppure un mese per problemi burocratici Platt verrà sollevato dall’incarico … Sharpe non giocherà più una sola partita e prima della fine dell’anno tornerà in Inghilterra.

I quattro mesi in Islanda con il Grindavik saranno ricordati da Sharpe per diversi motivi.

Il primo è sicuramente il calore e l’accoglienza del popolo islandese e dei compagni di squadra … ma ancora di più la ferrea regola imposta dalla società sul divieto assoluto di bere alcol.

«I quattro mesi più lunghi della mia vita!» ricorda oggi con un sorriso Sharpe.

«L’errore più grosso che ho commesso è stato quello di andare al Bradford. Ero convinto che da lì sarebbe ripartita la mia carriera.Invece lì è dove si è affossata definitivamente.

Chris Hutchings, l’allenatore, faceva la formazione. Poi entrava negli spogliatoi il Presidente e decideva che qualche scelta non gli andava a genio… ho visto gente già cambiata e pronta a scendere in campo doversi rimettere la tuta perché il Signor Geoffrey Richmond, il Presidente del Club, non apprezzava la scelta del Mister».

 

Infine la chicca assoluta del repertorio di Sharpe.

«È il 25 gennaio del 1995. -racconta- Si gioca Crystal Palace-Manchester United.

Sì, è proprio “quel” Crystal Palace-Manchester United. Quello in cui Eric Cantona decide di prendere a calci uno spettatore che aveva dato della puttana a sua madre.

Il Manchester United, dopo essere passato in vantaggio pochi minuti dopo l’espulsione di Cantona, si fa raggiungere da Southgate nel finale.

Quando a fine partita Alex Ferguson entra negli spogliatoi è un’autentica furia. Volano bicchieri e panini, le borse dei calciatori e qualche vestito dagli attaccapanni.

Le urla si sentono probabilmente anche nel centro di Londra. Ferguson ne ha per tutti:

“Pallister, porca puttana, non hai rinviato un solo pallone di testa in 90 minuti!”;

“Ince, dove cazzo eri stasera? in vacanza?”;

“Sharp, mia nonna avrebbe corso più di te stasera… e avrebbe fatto più cross!”;

“Cole, lo sai che per fare goal devi tirare in porta qualche volta? E centrarla, possibilmente!”

Poi Ferguson arriva a Cantona.Tutti ci aspettiamo il peggio, anche se tutti sappiamo che Ferguson un po’ di timore nei confronti di quel “matto” di un francese ce l’ha.

Invece il tono di voce del nostro manager cala di diversi decibel. Diventa quasi gentile.

“Eric, figliolo… non puoi andartene in giro a prendere a calci la gente”.

Ci guardammo tra di noi per un paio di secondi… e poi scoppiammo a ridere!… Con Ferguson che ci avrebbe fulminati tutti quanti!»

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MAURICIO PINILLA: “One Centimeter From Glory”

di MASSIMO BENCIVENGA

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Uno dei miei più cari amici si chiama Mauro Pepe ed è un mental coach sportivo. E ricordo come fosse ora la reazione stizzita quando gli parlai del tatuaggio.

È un po’ come ricordare ogni giorno il proprio fallimento, mi disse. Punto di vista ben più che comprensibile.
Non sono in molti a riuscire a portare allegramente in giro l’immagine dell’istante incompiuto, del kairos che ti volta le spalle, della Nike che diventa Nemesi; no, davvero ci vogliono le spalle larghe per riuscire a portare sulla pelle quella sensazione di incompiutezza stemperandola con la camminata scanzonata di chi sa d’aver mancata la mission della vita, ma se ne fotte; di chi è ben consapevole d’aver infilato la sliding door sbagliata, ma ne ride.

Il tatuaggio sintetizza in poche linee quel che accadde il 28 Giugno del 2014 a Belo Horizonte. Quei pochi tratti riescono mirabilmente a sublimare e miscelare attimo cogente e carriera calcistica. Belo Horizonte, che bel nome. Tutto sembrava propizio per il compimento di una profezia, per la vittoria finale che sempre s’accompagna al Viaggio dell’Eroe. Ma l’avrete capito che le divinità del calcio sono capricciose, spesso sadicamente divertenti e quel giorno seppero tessere un ordito drammatico.

Ma cosa successe?

Il 28 Giugno del 2014, al 119 minuto di Brasile-Cile, Mauricio Ricardo Pinilla Ferrera chiese e ottenne un triangolo da Alexis Sanchez, scansò come fosse la cosa più facile del mondo l’intervento di Thiago Silva, ai tempi il miglior difensore del mondo, e scagliò una folgore. Avete presente lo schiocco di un albero abbattuto da un fulmine? Bene, la traversa del Brasile emise un genito simile. Ma la palla non volle saperne di entrare, s’alzò alta sopra la tormentata storia di Pinilla e decise che no, quel giorno sarebbe stato risparmiato al Brasile un altro Maracanaço. Quel giorno, almeno. O forse proprio quel giorno cominciarono a ordire altri progetti per Belo Horizonte, le sadiche e capricciose divinità del calcio.

La profezia che voleva il giovane Pinilla essere considerato più completo di Salas e Zamorano fu sfatata del tutto quel giorno. Pochi centimetri più giù e la Storia di quel mondiale sarebbe cambiata e avrebbe dato un senso ai pazzi undici anni di Pinilla. Dal 2003 al 1014 Mauricio vestì infatti le casacche di ben 13 squadre, forse un record o forse no in questo calcio caleidoscopico e tritatutto, riuscendo a passare da attimi di gioia a momenti veramente difficili, con ricoveri in clinica per disintossicarsi forse dall’alcol e dagli attacchi di panico, con la disarmante facilità e leggerezza con la quale eseguiva uno dei colpi più difficili e spettacolare del calcio, la Chilena, che noi chiamiamo rovesciata.

Nel 2003 arrivò, per tre milioni di euro, alla bulimica Inter, all’epoca regina di mercato e scatenata sul mercato dei talenti, grazie al fiuto di Marco Branca su imbeccata di Ivan Zamorano, elemento totemico in Cile. Aveva 19 anni, essendo nato nel 1984, ma il suo nome circolava in tutto il sudamerica ogni volta che si chiedeva a un procuratore un futuro craque.
Lo chiamavano Pinigol.
S’era messo in luce all’Universidad de Chile e con le nazionali giovanili. Branca l’aveva visto segnare in rovesciata e si convinse a prendere quel ragazzo dai grossi mezzi tecnici e fisici che per certi versi ricordava Branca stesso, un altro che avrebbe potuto segnare il doppio delle reti effettivamente messe a referto.
All’universidad de Chile, Pinilla aveva giocato insieme a Faustino Asprilla. Mauricio aveva visto i danni che la dirompente e pervicace forza autodistruttiva sa porre in essere nella mente e nelle azioni di chi sceglie di sperperare il proprio talento, ma evidentemente gli riuscì difficile pensare a tutto ciò a soli 19 anni. Non quando hai torme di ragazze adoranti intorno a te, e non quando pensi di poter dribblare la vita con una finta o prenderla gioiosamente a calci come fosse l’ennesima chilenita.
Nel 2003 aveva già esordito, con gol al debutto, anche nella nazionale A. Dal momento che quell’Inter aveva, con Vieri, Julio Cruz, Recoba, Kallon, Adriano e il coetaneo Martins, una formidabile batteria di frombolieri, si decise di mandare Pinilla a farsi le ossa al Chievo di Del Neri. Pessima scelta: il Chievo di Del Neri giocava a memoria, con un 4-4-2 nel quale uno dei 2 faceva da boa per le incursioni a rimorchio dell’altro. Soprattutto, non aveva senso cambiare un meccanismo che funzionava come un orologio per cercare di far rendere al meglio quel cileno alto, tenico e con la faccia che non sfigurebbe in un film di pirati. E allora Pinilla cominciò a girare per l’Europa e per il mondo.
Non giocherà un minuto di serie A con l’Inter.
Per quanto giovane, o proprio perché lo era, Pinilla divenne mediaticamente sovraesposto, e forse proprio la morbosa e scopofila attenzione che già a vent’anni riceveva dalla stampa del suo paese, che se da un verso lo coccolava per un altro non gli perdonava di fare poca vita da atleta, non mancando di usare anche le sue relazioni sentimentali per vendere di più, sarà uno dei detonatori che faranno deflagrare le insidie nascoste nella sua immaturità, facendo deragliare aspettative e carriera. Non era abituato a tutto ciò, Mauricio. Né forse aveva le spalle abbastanza larghe per sopportare una simile pressione.

Pinigol cominciò a diventare Pinigel, con anche un comico che ci mise il carico da undici con una parodia.
Ovunque andasse in quegli anni, Celta, Sporting Lisbona, Racing Santander, Hearts, ritorno in Cile all’Universidad, ancora Hearts, Vasco da Gama e Apollon, la musica era sempre la stessa: partenza quasi sempre bene, in Portogallo cominciarono a chiamarlo Pinbomba, del resto la classe non è acqua, per poi finire, per un motivo o per un altro, infortuni, depressione o l’equivalente cilena della saudade, in un (de)crescento rossiniano.
Due soli gol in cinque partite nel campionato cipriota sono davvero poca cosa. Però imparò a pescare molto bene.
Il Vasco addirittura retrocesse.
Non per colpa sua, visto che giocò solo tre partite, prima di partire, navigatore al contrario, verso il Mediterraneo. Pesante, svogliato, sovrappeso, Mauricio a venticinque anni sembrava destinato a terminare la carriera. Se il lato calcistico andava male, malissimo, per uno che avrebbe dovuto dare dei punti a Salas e Zamorano, in patria era sempre oggetto di attenzioni mediatiche. E come non esserlo se le donne, nonostante tutti i non-gol, nonostante le promesse mancate sul campo, si scioglievano per lui. È di questi tempi la lite con il coetaneo Luis Jimenez, ex Ternana, Lazio e Fiorentina, Inter e Parma, un altro che avrebbe potuto dare di più. Chissà cosa sarebbe stato il Cile se Luis e Mauricio avessero centrato le aspettative? I due arrivarono alle mani in una discoteca, forse per via della compagna di Jimenez.

A Edimburgo trovò il presidente Romanov, che prese a volergli bene, ne rilevò il cartellino dallo Sporting e cercò di farne il perno degli Hearts. Anche i tifosi, nonostante le pochissime apparizioni, non si capacitavano sul perché e per come uno del genere giocasse in Scozia. Anni duri e bui, quelli tra il 2006 e il 2009; Mauricio divenne papà di Augustina e si lasciò con la compagna Gisella; girò per il mondo, calcistico e non, senza concludere nulla; cercò di ritrovare se stesso a Marbella, in una clinica nel quale lo spedì il presidente Romanov, che in quel ragazzo ci credeva davvero.
Il lituano Vladimir Romanov pagò le cure necessarie per curare lo stato depressivo del suo ariete, contando di poterlo avere, lucido, abile e arruolato, per iniziare a fare la storia del club. Come spesso capita a chi si fa del male da solo, ricordate la vena autodistruttiva che ho accennato più sopra in merito ad Asprilla?, Mauricio litigò con Romanov, rifiutandosi di firmare un contratto a incentivi, legato a presenze e gol. È questo il periodo immediatamente precedente alle tre presenze nel Vasco e alle cinque nel campionato cipriota.
Per un po’ cercò di accasarsi al prestigioso Gremio di Porto Alegre, ex club di Renato Portaluppi, altro talento sperperato in notti brave, ma neanche la società portoghese del Vitória Guimarães se la sentì di investire in quel ragazzo che portava innanzi a sé la nomea del tiratardi, del beone, dell’attaccabrighe. Che andasse a cantare! Già, perché Pinilla da giovane canticchiava anche, quando il mondo sembrava essere ai suoi piedi.

Preda dei suoi demoni, generati da un successo troppo prematuro e da una immaturità di fondo dovuta non tanto a storie da libri cuore, la famiglia Pinilla viveva ben più che discretamente, quanto forse al fatto di essere stato sin da piccolo viziato anche dalle sorelle, Mauricio nell’estate del 2009 stava per affogare nei vortici di una mente resa fragile dalla consapevolezza di star buttando via tutto quel ben di Dio. Pure una squadra della serie b belga gli disse di no.

Sia come sia, in Italia qualcuno si ricordò di quel giovane preso dall’Inter, e a questa notorietà, inutile dirlo, contribuirono anche le sue bravate, che però ebbero almeno il merito di non far cadere nell’oblio anche quel poco di scintillante che s’era intravisto attraverso la fuliggine delle sue imprese fuori dal campo.

Se ne ricordarono i dirigenti del Grosseto, ai tempi in serie B, che lo ingaggiarono con un contratto da 130.000 euro. Allenatore era Gustinetti, poi sostituito da un ancora poco noto Maurizio Sarri.
Con il Grosseto, Pinigol diede senso all’accostamento fonetico con Batigol. Marcò 24 gol in 24 partite, uguagliando anche il record del puntero argentino che, con la Fiorentina, era andato in gol per 11 giornate consecutive. Giocò alla grande, Pinilla, anche se le 24 partite sono pochine per via di due infortuni. Senza quei due pit stop magari il Grosseto avrebbe centrato i play-off. Ma tutti, tutti!, a cominciare dai compagni di squadra si resero conto che Pinigol era un lusso per la categoria. Giocò così bene che Mauricio sperò anche in una convocazione per i mondiali africani; sperò ardentemente che uno come Marcelo Bielsa, un rosarino purosangue, amante del gioco d’attacco e dei mustang calcistici, desse una opportunità a un Pinilla tirato a lucido. Così non fu, Mauricio ci rimase male, ma si consolò anche con una ritrovata serenità familiare, frutto della riconciliazione con Gisella e con la messa in cantiere di un’altra bimba, Matilda, che nascerà a Palermo. Perché dopo l’ottima annata in Toscana la serie A tornò a corteggiare il ragazzo scovato da Branca, che alla fine scelse la corte di Zamparini e la città che aveva fatto da culla la coorte di Federico II, lo Stupor Mundi.

Mauricio scelse la maglia numero 51 in luogo della giovanile 15, quasi a voler marcare, anche numericamente, una decisa e decisiva inversione di tendenza. Patì naturalmente diversi infortuni, quelli non mancheranno mai, ma riuscì a mettere a verbale 9 reti in 31 gare, con i rosanero all’ottavo posto.

Nel Settembre del 2011 scagliò una bomba nel sette della porta dell’Inter facendo esplodere il Renzo Barbera in un Palermo-Inter 4-3 che da quelle parti ancora ricordano. Non rimarrà l’unico segnato alla squadra che l’aveva portato in Italia, nel calcio dei Grandi.
Adesso il suo nome girava per davvero, ma per raccontar di calcio e non di notti brave; ritornò in nazionale, ma ritornarono anche gli infortuni e i tempi lunghi. Mauricio cominciò a perdere posizioni nelle gerarchie d’attacco e decise di partire ancora.
A Gennaio del 2012.
Destinazione Cagliari, ennesima città di mare e sole.

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Non ci mise molto a convincere i cagliaritani d’aver per le mani, se non un emulo di Rombo di Tuono, perlomeno un più che degno erede dei Fonseca e degli Oliveira. In più, l’esuberanza fisica, l’allure e l’atteggiamento da capopopolo di Mauricio ne favorirono l’inserimento in tempo zero. Alla seconda partita segnò contro la Roma, poi ne fece altri. Pur frenato da numerosi stop i due anni a Cagliari furono bellissimi. Mauricio divenne il califfo che avrebbe potuto diventare. Dimostrò di saper segnare, da vero bucaniere dell’area di rigore, in tutti i modi: di destro e di sinistro, di testa (con la quale punì ancora l’Inter andando a raccogliere, come un conquistador, l’applauso della curva), su rigore e punizione, da fuori area e da opportunista dell’area piccola.
Più il bonus track, il marchio di fabbrica: la chilenita.
Bonus del bonus track: a Cagliari nacque anche l’erede maschio, di nome Mauricio Alessandro.

Per un momento, l’Inter sembrò riavvicinarsi a lui, che rispose dicendo che era la squadra della sua adolescenza, in quanto team del suo idolo e procuratore Ivan Zamorano. Ma non era più il tempo, il kairos era passato.
Piccola nota: Zamorano gestiva la carriera di Mauricio insieme a Hugo Rubio. Bene, in più ferrati di voi ricorderanno che Rubio e Zamorano furono acquistati, insieme, dal Bologna di Maifredi nel 1988, quando si introdusse il terzo straniero.

Anche con la nazionale, dicevo, le cose cominciarono ad andar meglio, Jorge Sampaoli lo convocava con regolarità e lo fece entrare, da sostituto, nella partita con l’Ecuador, decisiva per accedere a Brazil 2014.

Già, Brasile-Cile, quella finta a scartare Thiago Silva come fosse il paletto per uno slalomista e quel tiro magnifico, troppo magnifico. Se l’avesse colpita più sporca, forse quella palla sarebbe entrata e al minuto 119 il Cile avrebbe eliminato i verdeoro. E poi? Chi può dire cosa sarebbe successo con in campo un Pinilla integro nel fisico e rinfrancato nel morale? Ma queste ipotesi appartengono all’ucronia calciatica.

Quel bolide si stampò sulla traversa, ma le capricciose e sadiche divinità del calcio quel giorno non avevano ancora finito di giocare al gatto con il topo con Pinilla, con quelle squadre e con quella città.
Pinilla, forse ancora scosso, sbagliò il suo rigore nella lotteria che premiò il Brasile.

Perché ho più volte detto che le divinità del calcio quel giorno seppero tessere una trama diabolica? Perché se permisero al Brasile di passare, forse lo fecero solo per far subire, sempre in quello stadio, a Belo Horizonte dal bel nome, la caporetto per 1-7 altrimenti nota come Mineiraço.

Dopo quel 28 Giugno del 2014, Mauricio andò a giocare, a segnare, a infortunarsi, anche a Genova, sponda Genoa, a Bergamo, ancora Genoa, ancora Universidad de Chile e infine Coquimbo Unido.
Il Coquimbo Unido è una squadra che ha origini lontane, molto gallesi con quarti di sangue inglese. El club Pirata, lo chiamanano così.
È conosciuto così questo club, come El Pirata.
Porto sicuro e buen retiro per uno come Mauricio che pirata lo è stato davvero: dell’area di rigore e dei mari tempestosi della vita.

Ovunque divenne subito un idolo dei tifosi, che ne apprezzavano l’impegno, le corse sotto la curva dopo i gol e, naturalmente, le realizzazioni acrobatiche. Il ragazzo era maturato, forse troppo tardi per lasciare un segno nel calcio, ma ancora abbastanza presto per essere un buon padre e un buon marito.
Come tanti non ha saputo gestire al meglio un precoce successo, come tanti ha buttato al vento tante opportunità, come tanti ha lavorato duro per sporcare quanto di buono si diceva su di lui, andando a nutrire il lupo cattivo che alberga in ognuno di noi, pennellando il dipinto maledetto che noi stessi tratteggiamo nella nostra anima, ma…

Maledetto, ma non troppo verrebbe da dire, perché se tanto ha sperperato alla fine è riuscito, a differenza di altri, a non entrare nell’ultima bolgia del cerchio dei maledetti, dalla quale si esce solo perdendo la vita o l’anima.
Spesso entrambe.
Pinilla non ha perso nulla di tutto ciò, se non la mancata dimostrazione di un’ipotesi che sembrava condurre a un teorema di quelli importanti, ma sono cose che capitano, e che si possono perdonare, specie se riesci a far sorridere la gente mentre ti ricorda, gambe all’aria e schiena alla porta, tentare il colpo più difficile e spettacolare del calcio: la rovesciata.
O la chilena, in onore di Ramón Unzaga che la mostrò alla Copa America del 1920. A proposito di Copa America, Pinilla, sia pure da rincalzo, è riuscito a vincerne ben due, nel 2015 e 2016.

Sudamericano sino al midollo, in un’ultima straordinaria inversione dal normale, dalla consuetudine, con un’ultima chilena, Mauricio ha fatto scrivere la didascalia del tatuaggio in…

Inglese.

One Centimeter From Glory.

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