GIGI MERONI: 50 anni dopo.

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di Diego Mariottini

Torino, domenica d’autunno. Il campione vuole festeggiare in casa con il compagno di squadra e con le rispettive compagne. In campo Gigi ha dato spettacolo e nel pomeriggio il Toro ha vinto per 4-2 contro la Sampdoria. È sera e dall’altra parte della città un ragazzetto è alla guida della sua Lancia Appia. C’è voglia di fare onore a una partita sofferta ma al limite della perfezione. È un anno particolare, quel 1967. Un anno nel quale c’è qualcosa nell’aria, si profila un vento di cambiamento ma è un’aria strana e le idee sul futuro del mondo non sono ancora abbastanza chiare. Un anno di fatti importanti ma quasi tutti poco piacevoli. Prima il suicidio di Tenco al Festival di Sanremo, poi il golpe dei colonnelli greci, e poi ancora la “guerra dei sei giorni” fra Egitto e Israele. Per non parlare della morte di Totò e di Che Guevara. Il mondo è in preda a un’accelerazione improvvisa, tutto vorrebbe correre e anche Gigi Meroni suo malgrado è dentro quel movimento irregolare. Anzi, lui è pronto a cambiare, il mondo non molto. Anche il ragazzetto alla guida si muove più veloce, la sua macchina ha bisogno di gas per salire di giri. Ma bisogna stare attenti quando si accelera troppo. Qualcuno potrebbe mettersi di traverso proprio in quel momento.

Che razza di ipocriti e di bigotti. “Meroni il sovversivo”, “Meroni il pagliaccio”, “Meroni la vergogna del calcio italiano”. E ora che era morto tutti a incensarlo, a osannarlo, a dargli l’estremo saluto in lacrime. Pronti a stracciarsi le vesti, perfino. Loro che –per carità di Dio- lo avevano sempre apprezzato, loro che ne avevano sempre riconosciuto il grande valore, pur criticandone qualche atteggiamento “eccessivo”. Balle! Gigi era semplicemente se stesso, un ragazzo che voleva andare oltre l’orizzonte grigio e allineato dell’Italia del suo tempo. Uno che usava la propria diversità per mostrare una verità scomoda: tutto è forma, convenzione, pronto a trasformarsi in linguaggio ipocrita, di regime. Le pure forme non esaltano mai le individualità. Oggi capelli un po’ lunghi, orecchini, baffi, pizzetti e tatuaggi lunghi tutto il braccio non fanno male a nessuno, sono anzi l’altra faccia del conformismo che fa dei calciatori attuali personaggi da ente del turismo. Lo può fare impunemente un cretino qualsiasi e sembrare perfino rassicurante ai più. Ma quando Gigi faceva l’alternativo, quell’insieme di comportamenti significava davvero mettersi contro la gran parte della stampa e dell’opinione pubblica. Essere stravaganti e fuori dagli schemi appariva come una sfida alla morale e alle convenzioni.

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Quella sera in città fa freddino, piove, e chi è in giro a piedi va di fretta, senza formalizzarsi se attraversare sulle strisce o no. Il ragazzetto alla guida continua la sua corsa in macchina. Senza esagerare, ma senza mai fermarsi. Il ragazzo si chiama Attilio Romero ed è un grande tifoso granata. In camera sua troneggia il poster del numero 7 del Torino.

15 ottobre 1967. Sera crudele, perfino per chi tifa “quegli altri”. Meroni e il suo amico Poletti stanno attraversando a piedi Corso Re Umberto, le signore stanno aspettando. Ma Cristiana in realtà non è la signora Meroni, perlomeno non ancora. Forse un giorno si sposeranno, forse no. Convivono e anche questo è un intollerabile motivo di scandalo. Forse un giorno avranno anche un figlio, chissà, c’è tempo per decidere, la vita è lunga. Per ora c’è un grande amore ma per i benpensanti è secondario. Contano lo status, gli anelli, i pezzi di carta. La Lancia Appia di Attilio Romero sta per imboccare il Corso. Sono le 21,30 circa e la sonnolenta Torino è davantialla tv. Sta per cominciare la Domenica Sportiva. Quell’anno la conduce Enzo Tortora.

Ovunque fosse andato a giocare fino a quel momento, Gigi Meroni era diventato l’idolo delle folle. I dribbling, le finte repentine, le sue giocate d’ingegno e una plateale irriverenza agonistica avevano incendiato il cuore dei tifosi fin dal primo momento.  A Genova, sponda rossoblù, scoppia un feeling sul filo della simbiosi. Sarà la fase storica, sarà un carattere insofferente alle regole, sarà quel vento di contestazione che comincia a soffiarealla metà degli anni 60. Saranno tante cose insieme ma Luigi – subito ribattezzato in modo confidenziale Gigi da chi rimane estasiato dalle qualità tecniche di un mingherlino neppure alto ma con una fantasia di gioco che non vuole limiti e confini – si sente a casa sua. È lì che un giorno incrocia lo sguardo di Cristiana: una storia d’amore che scandalizza e che tiene banco sui rotocalchi di allora. Quando i due si conoscono a Genova, lei ha 17 anni, e nella vita ricarica i fucili nel tiro a segno del Luna Park alla Foce. Madre tedesca e padre napoletano, giostrai di tradizione. La famiglia di lei non vede di buon occhio la relazione e nel 1964 Gigi deve assistere impotente al matrimonio della ragazza con un altro, imposto dalla madre alla Bella del Luna Park. Ma Cristiana, d’accordo con Meroni, si rivolge alla Sacra Rota. Quel matrimonio non s’aveva da fare e non durerà. Nel frattempo Gigi è passato dal Genoa a Torino, dove i tifosi già impazziscono per quel numero 7 geniale, incostante, pronto a tutto purché non gli si chieda nulla. Troppo individuo per essere leader, troppo talentuoso per i gol facili. Abiti particolari, barba incolta, atteggiamenti da eterno outsider in cerca di sé. Per molti la sua è voglia di stupire, per lui è semplicemente “un’altra cosa”. Ed è in nome di “quell’altra cosa” che Cristiana lo ama. Checché ne dica il mondo, il sentimento deve trionfare sulle regole. Lei prende e si trasferisce con lui a Torino, residenza in Corso Re Umberto 46. Anche Attilio Romero, che con la sua Lancia Appia ha appena imboccato con una certa decisione proprio Corso Re Umberto, adora Gigi. Addirittura si è fatto crescere i capelli, proprio come lui. Somigliargli è essere un po’ Meroni, anche senza quei piedi e quella fantasia in campo.

Enzo Tortora sta per andare in onda, la Domenica Sportiva è quasi ai titoli di testa e qualcuno lo chiama un attimo in disparte. È successo qualcosa ma non si sa bene cosa. Dietro le quinte all’improvviso gli dicono la verità. In serata una macchina ha investito all’improvviso Meroni mentre il calciatore stava attraversando una via del centro di Torino. Con lui c’era Fabrizio Poletti, che si è fatto male ma che se la caverà con poco. Il numero 7 granata invece è in fin di vita, in condizioni gravissime. L’urto di una FIAT 124 ha spinto all’indietro il ragazzo nella corsia opposta, dove una Lancia Appia non ha potuto evitare di centrarlo in pieno. Anzi, lo ha trascinato con sé in rettilineo per quasi 50 metri. Tortora si rifiuta di dare la notizia in diretta, così come un’ora più tardi sarà categorico nel non volerne annunciare la morte. La televisione non può dare spettacolo in nome di un presunto quanto malinteso diritto di cronaca.

L’urlo straziante di Cristiana apre il cielo in due, i compagni di squadra restano ammutoliti. Poche ore prima Gigi Meroni era stato il trascinatore in una domenica trionfale e ora non c’era più. Fossati, inseparabile compagno di stanza fin dai tempi del Genoa, è una maschera di dolore, Nestor Combin non ci vuole ancora credere. Negli spogliatoi del “Comunale” lui e Gigi si erano lasciati giurando solennemente di battere la Juve la domenica successiva, per la soddisfazione loro e del popolo granata. “Domenica gliene farai 3” aveva sentenziato Meroni al bomber, senza dargli possibilità di replica.

Alle nove in punto di martedì, la bara viene portata alla chiesa dei Santi Angeli Custodi, vicino alla stazione di Porta Susa. Torino si attiene da sempre ai rigidi orari lavorativi, ma quel giorno si blocca. Non vuol sapere d’altro. Chissenefrega delle fabbriche e della FIAT. 20 mila persone per strada, testa più testa meno. Applausi, applausi scroscianti per l’ultima del genio. Lo stesso avviene nel pomeriggio, quando il feretro di Gigi viene portato nella sua Como. Como bigotta e perbenista, che lo considerava un “peccatore” perché conviveva “more uxorio”. Al punto che una volta il parroco arriva perfino a negargli l’assoluzione, malgrado le offerte che Gigi aveva fatto alla parrocchia in tutti quegli anni. Ma quel giorno per tutti è tornato a casa il “Luigino”. Prima l’ostracismo poi la falsa pietà. Succede, dicono.

La domenica successiva c’è il derby con la Juventus. I ragazzi sentono di giocare in 10 anche se formalmente qualcuno ha la maglia numero 7. La indossa il giovane Carelli. Nestor Combin non ha dimenticato quelle parole: “Domenica gliene farai 3”. Ha la febbre a 39 per tutta la settimana, l’attaccante franco-argentino ed è nella lista dei sicuri assenti per domenica 22, ma sta facendo di tutto per rimettersi. C’è un patto e i patti si rispettano. Se lo erano giurato un po’ per gioco, per cameratismo scherzoso. Ma a quel punto per “l’indio” vincere ha il sapore del dovere morale, anche perché Meroni non aveva mai assaporato una stracittadina torinese. A Gigi quella vittoria è dovuta. Il Torino gliela deve. Il popolo granata avrà pure diritto ad un sorriso.

La forza del cuore sprigiona una potenza misteriosa, irragionevole, mai riconducibile alla logica. Non si assoggetta al buon senso e dei pronostici non ha alcun rispetto. Quella forza non si compra e non si vende, o ce l’hai o non è nemmeno il caso di parlarne. Non c’è tempo per recriminare, si gioca e basta. Lo stadio è pieno e di fronte c’è la Juve.

Sono passati pochi minuti, due, forse tre. Bercellino, commette fallo al limite dell’area su Moschino. Calcio di punizione per il Torino. La barriera è piazzata, ma stranamente si apre. Una saetta terrificante di Combin e la palla entra nella rete del portiere Colombo fermo lì a guardare. Corre sotto la curva “l’indio” in una gioia cui si mischiano sentimenti contrastanti. Quel gol lo vuole condividere con i suoi tifosi, loro sanno bene perché. Lui, il suo segno sul derby l’ha già lasciato. Ma tutto questo non basta a placare il suo fuoco. Mancano ancora 86 minuti da giocare.

Passano altri quattro minuti e l’attaccante scambia palla con Facchin, vede un corridoio buono e ci prova ancora. A volte l’effetto sorpresa funziona meglio di qualsiasi schema. Un tiro micidiale da trenta metri e il portiere bianconero resta come una statua. 2-0. Non è una doppia botta di fortuna, il Toro è superiore in tutti  i reparti, corre di più, ha testa e cuore dalla sua parte. Nella ripresa la Juve ci prova, e non giocherebbe neanche male, ma non è proprio giornata. Crea azioni, ma dalle parti del portiere Vieri proprio non ci arriva. E al quarto d’ora della ripresa, cala il sipario. Combin dopo un’azione manovrata a centrocampo, cui la difesa avversaria non sa opporsi, superal’ultimo uomo e la mette dentro ancora una volta. Lacrime e sorrisi si mischiano in modo indistinto.

 

Nestor è stato di parola con Gigi. Ma la partita non è ancora finita. La Juve ci prova ancora, per salvare almeno la faccia, ma a stroncarla definitivamente provvede il giovane Carelli. Del vero e insostituibile titolare non ha molto, se non la buona volontà in campo, ma quelpomeriggio d’autunno sembra sorretto da un motore supplementare. La riserva di Meroni si scatena sulla fascia, converge verso il centro, nel tentativo di servire ancora Combin. Ma il terzino avversario scivola, lasciando un corridoio spalancato verso la propria porta. Carelli si presenta solo davanti a Colombo e va in rete con una freddezza che da lui non si era mai vista prima. Forse ha segnato Carelli, forse ha soltanto segnato “la maglia numero 7”. 4-0 e finisce con il “torello” a centrocampo. Non era mai successo che il Toro battesse i cugini con quel risultato. Non sarebbe successo più.

Dall’alto, spunta un sorriso che non tutti possono vedere.

 

Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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