ROBY 10 DI FIORE.

di SIMONE GALEOTTI

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“Te lo ricordi quando arrivò a Firenze? Portava con sé bagagli e sogni, chissà quanto resterà, dicevamo fra noi. Non aveva vent’anni, un bel collo, sembrava di ceramica, i lineamenti sottili, quasi asiatici e in testa un cespuglio di ricci neri da Bacco gaudente. Cercava lo stadio, il centro, scorse uno di quei cartelli che lo indicano, credette di seguirlo ma in realtà percorse in tondo i viali, incontrandone altri, nessuno lo portò più in centro di quanto già non fosse, provò a orientarsi con la torre merlata di Palazzo Vecchio che si insinua tra i tetti, ora con le porte prive della cinta d’Arnolfo, ora in mezzo a uno slargo, ma qui si assomiglia tutto, le persiane, le terrazze, i fregi, il colore degli intonaci, la pietraserena, e non riuscì a raccapezzarsi, né a cogliere il pertugio giusto, come se la cerchia muraria esistesse ancora e lo respingesse. Salì su a Piazzale Michelangelo, e realizzò di essere in quel posto là famoso da cui si vede Firenze dall’alto, e fece qualche passo verso il muretto sotto al quale si apre il panorama con la cupola del Duomo, il marmo splendente del Campanile e le basiliche sparse dentro un mare occiduo di tegole, e la città stranamente non gli apparve ferma, bensì impegnata in una lunghissima azione al rallentatore come se faticosamente stesse scorrendo via. Oppure come se la stessa fosse già altrove, e lì sotto di sé, quel ragazzo, non vedesse più Firenze ma soltanto il suo riflesso.”

Roberto Baggio da Caldogno, approdò dal Vicenza che lo aveva strappato bambino alla squadra del suo paese ancor prima di possedere l’età richiesta dal regolamento per disputare incontri ufficiali. Subito un menisco rotto eppure a sedici anni eccolo incantare il pubblico del Menti, ormai orfano di Paolo Rossi, disegnando impensabili ghirigori in mezzo a disperati difensori avversari che ruzzolavano a terra cedendo ad ogni finta in maniera disarmante, incapaci di prevedere la pura naturalità del talento, perché, rifacendosi al teatro dei significati di Carmelo Bene, il genio fa quello che può ma il talento fa quello che vuole. Florindo e Matilde, i genitori, sono gente di provincia, del profondo veneto, hanno otto figli e una fabbrica di Carpenteria in cui devono far quadrare il bilancio. Non credono ai loro occhi quando nel 1985 Roberto venne eletto miglior giocatore della serie C e Ranieri Pontello gli mise sul tavolo del salotto un ricco contratto con la Fiorentina dove mancava solo la firma. Quella firma che mancherà anche quando nell’incontro contro il Rimini appoggerà male la gamba destra e lo raccolsero a pezzi: crociato, capsula, menisco e collaterale. Malgrado l’evento a Firenze nessuno ritratterà la parola data, nessuno pose sul piatto cifre differenti; la Fiorentina verserà i tre miliardi pattuiti con il Vicenza portando il ragazzo in Viale dei Mille, accollandosi operazione, cure e riabilitazione. E Roberto Baggio riassaggerà il campo nell’autunno del 1986, al termine di una lunga fisioterapia, giocando una buona partita contro la Sampdoria. Purtroppo, nell’allenamento di due giorni dopo, il menisco saltò un’altra volta e una nuvola grigia fece irruzione nella testa di Roberto Baggio, decidendo di restarci, tinteggiandolo di una luce solenne da scultura epica associata a un moto di tormento che lo accompagnerà in ogni attimo della sua carriera. Sarà in quel frangente che si avvicinò a una scuola italiana di buddhismo. Questo tipo di filosofia parve aiutarlo, fortificandolo, offrendogli risposte, rendendolo forse elusivo, eccentrico, ma lui tirò dritto, meditando, pregando, portando soprattutto a compimento l’ennesima rieducazione per essere pronto nella penultima di campionato, alla festa scudetto del Napoli di Maradona, in un San Paolo da pelle d’oca incorniciato da un cielo di maiolica, dove si svelerà una sorta di arcano simbolismo allorché Baggio infilò in rete una magistrale punizione dal limite dell’area pareggiando la rete realizzata dal bomber partenopeo Andrea Carnevale. Il suo primo goal in serie A diventerà così pura retorica, facile investitura: la nascita di un campione nel giorno della celebrazione del più grande dei campioni.

Nella stagione seguente Baggio incominciò a imprimere definitivamente il suo marchio. In panchina c’era Sven Goran Eriksson, biondino svedese pacato e taciturno che con gli occhialetti rotondi assomigliava più a un professore di lettere che a un tecnico di calcio. A San Siro di fronte al Milan di Arrigo Sacchi, Baggio ricevette un pallone poco oltre la metà campo, frenò un istante giusto il tempo di sfrangiare Filippo Galli e Carlo Ancelotti palesando una rapidità insolita e infine concluse, facendo sedere uno stordito Giovanni Galli, appoggiando delicatamente la palla nelle reti nere del Meazza. Lo superficie speciale nel sentimento dei tifosi viola se la conquistò segnando da par suo all’odiata Juve all’ultima giornata costringendola a un micidiale derby di spareggio con il Torino per non restare fuori dalle coppe. Tuttavia l’anno dell’esplosione di Baggio doveva ancora arrivare. Occorrerà attendere il torneo successivo. Insieme a Stefano Borgonovo darà vita a una delle coppie d’attacco più amate nella storia della Fiorentina. Apparve chiaro che Baggio era un giocatore unico, frutto di una commistione sapiente di antico e moderno per andatura e estro.

La Fiesole il sabato ballava allo Space Electronic e la domenica impazziva per Baggio: “il ragazzo gioca bene, il ragazzo gioca bene…”, e fu amore incondizionato, e a proposito d’amore, Baggio convolerà a nozze con la coetanea Andreina Fabbi, fidanzatina conosciuta da giovanissimo. I suoi colpi trascinano la Fiorentina in Coppa Uefa e strappano applausi, convertono gli infedeli, cacciano gli spiriti. A ponte di mezzo la trippa e il lampredotto sembrano pure più buoni. Gli spetterebbe di diritto una nicchia del corridoio Vasariano a quel Baggio lì; naif, caracollante, con i calzettoni giù alle caviglie, la 10 viola immancabilmente fuori dai pantaloncini, gonfiata dal vento secco del Campo di Marte, ad accompagnare nell’estetica il tocco infinito, sotto quello sguardo da eterno fanciullo ferito.

La stagione 1989/90 avrà due facce. Eriksson decise di andare in Portogallo, al Benfica, e a Firenze in una lamentosa alternanza pervennero Bruno Giorgi e Francesco Graziani. In campionato la Fiorentina stenterà, salvandosi con troppi patemi d’animo, però in Europa la squadra sorprese tutti volando verso la finale, verso quella maledetta doppia finale del 1990, ironia della sorte da disputare proprio contro la Juventus. E Baggio? Si rincorrevano le voci: “è già della Juve”, “no, resta”. Baggio appariva visibilmente scosso, turbato, sapeva di essere al centro di una trattativa e dentro la sua testa si agitavano fantasmi che nemmeno le candele del suo tempio di pace buddista riuscirono a scacciare. Quei fantasmi che nella gara d’andata a Torino gli si pareranno innanzi nel momento preciso in cui a tu per tu con il portiere bianconero Stefano Tacconi non riuscirà a fare ciò che era solito fare al meglio sprecando l’occasione di portare a due le reti gigliate e gelare un Comunale impietrito. Invece niente, la Coppa, con discrete polemiche, se la prenderà la Juve che effettivamente si prenderà Baggio. Eppure, nonostante il dispiacere, nulla si spezzò nell’amore, solamente qualcosa si torse e scivolò via nei chiaroscuri dei palazzi di Piazza Savonarola.

Piazza Girolamo Savonarola era la sede della Fiorentina nella primavera del 1990. La mattina del 17 maggio un comunicato radio diffuso dalle maggiori emittenti locali e nazionali annunciò ufficialmente la cessione di Roberto Baggio alla Juventus per una cifra stimata intorno agli 11 miliardi di lire. La famiglia Pontello e il procuratore del giocatore, Antonio Caliendo, si erano accordati con Giampiero Boniperti, Luca di Montezemolo e gli Agnelli. Fu come ritrovarsi in una di quelle mattine umide quando scendi alla stazione di Santa Maria Novella e non trovi Firenze. C’è solo nebbia, lo scenario ideale per “Firenze canzone triste” di Ivan Graziani. Certo, non si trattò di un fulmine a ciel sereno, era nell’aria, tuttavia nello sfregare previsione e certezza si propagò una scintilla che incendiò di rabbia le strade.

In breve, un intera città sdegnata, andò via- via concentrandosi sotto la sede societaria, nei viali contigui, dentro il giardino stesso della Piazza, sotto i lampioni di ghisa, a ridosso delle aiuole, sotto l’ombra dei tigli e dei cedri.

E quando dico un intera città, dico un intera città. C’erano signore con le borse della spesa, pensionati col cappello e bastone, impiegati in giacca e cravatta, studenti con lo zaino sulle spalle e operai a fine turno. Gente che ebbe un sussulto, (non le larve odierne) sentendosi defraudata di colui che avrebbe potuto offuscare il mito di Antognoni e invece fu solo l’ultimo dei tanti giocattoli rotti, l’ultima passione frustrata. Ci furono attimi di paura, di confusione, di tensione vera, di sirene a squarciare il brusio sommesso nei già caldo pomeriggio di maggio. Restò del sangue a macchiare l’asfalto, ci furono dei feriti, anche tra le forze dell’ordine. Nove ore di scontri, nove ore di guerriglia, nove ore di lacrime e lacrimogeni, e tutto questo per un ragazzo con la maglia viola numero 10.

Per concludere ci sarebbe la vicenda della sciarpa, è vero. La sciarpa viola precipitata dalle tribune e raccolta dallo stesso Baggio che a testa bassa usciva dal campo dopo la sua sostituzione nel Fiorentina- Juventus della stagione seguente al suo trasferimento. La sua volontà di non infierire, di non calciare il rigore assegnato alla Juve (tirato da De Agostini e parato da Mareggini) ebbe l’effetto di sopprimere ogni residuo fischio, ogni rimanente rancore, e quella sciarpa fu davvero l’ultimo pegno d’amore, un fiore, dentro le pagine di un diario di ricordi.

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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