SYLVIA PLATH: Una, nessuna, centomila identità.

di SARA DEL BARBA

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“Lo specchio magico: uno studio del doppio in due romanzi di Dostoevskij”. Doppio. Due metà complementari eppure contrapposte. In tempi ancora non sospetti, il congedo dallo Smith College rappresentò il segno premonitore di un dualismo che era già parte integrante di quel se stessa. O di quelle se stesse. Attrazione e repulsione. Bello e brutto. Felice e triste. Bruna e bionda. L’ambivalenza che fu (s)oggetto protagonista di quella tesina di fine college, è stato, nella realtà, (s)oggetto protagonista della vita di Sylvia. Fino a perdere quell’identità da topos letterario pirandelliano, alla Eliot. Triste come l’equivoco da commedia della tragedia, che vuole deliberatamente far ridere di un riso isterico, stridulo, dissonante.

Sylvia Plath è nata il 27 ottobre 1932 a Boston, nel Massachusetts. La futura e precoce poetessa, così dotata quanto travagliata, nota per lo stile confessionale del suo lavoro, vide emergere l’interesse per la scrittura già dalla tenera età; ne è testimone il primo di una lunga serie di diari che, ad ogni pagina, offrono l’autentica fotografia di un ago caldo, vibrante, insistente e vivo, che poi smussa la sua acutezza per esaurire della sua stessa furia.

Il padre, Otto Emil Plath, figlio di genitori tedeschi, si trasferì in America a sedici anni per diventare in seguito uno stimato entomologo. Quando Otto Plath morì, poco dopo il suo ottavo compleanno, Sylvia soffrì sia di angoscia che di libertà. Otto era un padre severo, autoritario nei confronti dei suoi figli. Sylvia ha definito la relazione con Otto nella sua poesia, “Papà”. Basta leggerla per ritrovare la consueta trappola della dicotomia emozionale. La madre, Aurelia Schober, apparteneva ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts. Il loro rapporto era stretto quanto ambiguo. Dopo la morte del padre, la madre di Sylvia si trasferì con i suoi figli a Wellesley, nel Massachusetts, dove Sylvia si diplomò alla Bradford Senior High School nel 1950. Nello stesso anno, la Plath entrò allo Smith College dove eccelleva accademicamente, tanto che divenne direttore della Smith Review e le fu offerto un posto di prestigio come redattore ospite della rivista Mademoiselle nell’estate del suo terzo anno alla Smith, per il quale trascorse un mese a New York. Qui iniziarono i problemi psicologici della depressione, poi la diagnosi del bipolarismo, fino al tragico epilogo.

Una borsa di studio del Programma della Commissione Fulbright la condusse fino all’università di Cambridge, in Inghilterra. Fu proprio al tempo degli studi presso il Newnham College, uno dei costituenti l’università di Cambridge appunto, che conobbe il famoso poeta e professore Ted Hughes. Si sposarono dopo pochissimo, nel 1956, inizialmente tenendo segreto il rapporto che legava una studentessa al professore. La tipica relazione burrascosa.

Nel 1960 fu pubblicata in inghilterra la prima raccolta di poesie di Sylvia, “The Colossus”. Nello stesso anno diede alla luce la sua prima figlia, Freida. Nome non casuale. Due anni dopo, Plath e Hughes ebbero un secondo figlio, Nicholas, che da adulto avrebbe messo fine alla propria vita, come se nel suo DNA fosse scritto lo stesso, identico, insopportabile senso di disperazione della madre.

Il matrimonio di Sylvia e Ted stava andando a pezzi. L’affascinante e colto Hughes, sempre così mondano, così avvezzo alla compagnia di belle donne, nel 1962 se ne andò con un’altra donna, lasciando che Sylvia sprofondasse definitivamente nell’imo di una depressione inspiegabile a parole. Lottando con la sua malattia mentale, contro le sue pulsioni autodistruttive, scrisse The Bell Jar (1963) che, basato sulla sua vita e su quel crollo mentale di giovane donna, fu pubblicato inizialmente con lo pseudonimo di Victoria Lucas. Troppo vero per svelare il vero nome dell’autrice che ne era anche la protagonista. Tante le poesie, che avrebbero poi costituito la collezione Ariel (1965), pubblicata dopo la sua morte.

Sylvia si suicidò l’11 febbraio 1963.

Nel 1982 divenne la prima persona a vincere un premio postumo Pulitzer.

La scrittura, bacchetta magica per espandere verso l’esterno i tormenti e le ansie che nella vita quotidiana è obbligata a dissimulare. Per essere agli occhi degli altri come loro la vogliono. Un processo morfogeno dell’identità, della psiche, che non ha mai avuto una conclusione definita e definitiva.

Per me scrivere è una forma di vita” “Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita […] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che esaminandosi, diranno tutto…”

Tentare di capire l’estenuante, eterno conflitto che fa sentire la propria anima e la propria mente in costante asfissia, arrancando tra il non poter ritrovare il ritmo regolare del respiro e il non poter farlo soffocare definitivamente, rende naturale tuffarsi in quella storia feroce e furiosa del lottare per vivere di quella giovane donna, del suo non fare pace con il modo di morire. L’autrice di questa storia non ha problemi ad alzarsi dal letto la mattina, anche se il suo narratore non può. Questa è la storia dell’ambizione di Sylvia quanto della sua malattia.

Come Esther Greenwood. “The Bell Jar” – “La Campana di Vetro”. Borsa di studio a New York, come apprendista in una rivista femminile per l’estate, la sua vita sembra essere sul punto di annunciare il luccichio di una foto da copertina, con “le scarpe comprate da Bloomingdale, il rossetto rosso e un vestito con le spalle scoperte”.

Ma quel fardello interiore è sempre in agguato. E’ la campana di vetro, è l’assenza di scelta, l’impossibilità di essere compresa dagli altri, l’impossibilità di mostrare il proprio dubbio. Esther, come Sylvia Plath, è intrappolata in una campana di ovatta, una cupola in cui l’aria è risucchiata dall’ordine prestabilito delle cose.

Ha un sorriso accecante in quella foto. Eppure qualcosa, dentro, la allontana anni luce dalla ragazza immortalata in quella posa.

Da subito, con una delicatezza malinconica che non la abbandona mai, nei prodotti della sua penna come nelle sue realtà di disordine mentale, Sylvia lascia che si possano scorgere le crepe che solcano nell’intimo la mente di Esther.

Come il servizio di piatti di fragilissima maiolica della nonna, quelli che non si possono toccare nella credenza di casa se non per specialissime e pre-selezionate occasioni, la sua sensibilità rischia di frammentarsi in mille pezzi al contatto con il mondo reale.

Esther vorrebbe avere la sicurezza che le sue colleghe di stage hanno del proprio corpo.

Brama la semplicità disarmante dell’impiego della seduzione che loro sanno mettere in pratica.

La vita a New York si rivela ben presto una gabbia dalla quale Esther tenta goffamente di liberarsi, provando in tutti i modi a vestire i panni della ragazza della foto.

Le giornate si fanno pesanti. Trascinano in una peregrinazione costante e nauseante un corpo senza vita.

Algida anche nell’apice della sua prima volta, che non scampa alla dicotomia nemmeno in quel momento in cui la freddezza di sé stride così tanto con la copiosa, rovente emorragia che brucia lungo le gambe.

E’ una colpa non sapere se preferire la campagna o la città? E’ un peccato pensare di non volersi sposare?

Il corpo è un estraneo; è letteralmente immobilizzata da se stessa. Dalle se stesse. Tragicamente inerte.

La sua identità sfugge sempre di più. Sa di dover avere un posto nella società, nel mondo. Perché tutti hanno una collocazione precisa. Ma la sua indecisione non è una semplice battuta d’arresto da ragazza che sta decidendo della sua vita: è una malattia. Perde la voglia di leggere, non sa più scrivere, non è possibile farsi rapire da Morfeo. Le notti sono troppo lunghe. La lettera di rifiuto alla scuola estiva di Harvard. Esther ha perso la sua identità. Smarrita.

L’unica via di uscita dal labirinto di una, nessuna, centomila identità è la morte.

Sylvia ha provato con tenacia a rimanere a galla. La maternità ha probabilmente rappresentato un momento di stand-by nei confronti dell’ossessione della morte. Per un attimo l’accettazione di una nuova condizione – di madre – ha dato la parvenza di poter far emergere quella parte pacata, tranquilla, quasi pacifica.

Ma la vita stessa è un’antagonista invincibile per Sylvia. La poesia rimane l’unico strumento in grado di spiegare lucidamente la sua necessità di morire. Di far soffocare definitivamente quel respiro mai stato regolare.

I suoi versi sono lo specchio del suo non riconoscersi in quella realtà, del non accettarla.

La voglia di indipendenza, di eccellere ancora, di brillare di luce propria e non di quella di un uomo che ha tanto amato e che non ha saputo vedere quanto sanguinava la sua anima.

Rotta. Hanno provato ad aggiustarla con l’elettroshock. La morte non è arrivata nemmeno in quell’occasione. Il vuoto continua a non potersi colmare.

E’ una sera molto fredda a Londra l’11 febbraio del 1963. Sylvia è a casa, i bambini sono andati a dormire. Ted è andato via da tempo, con un’altra donna, un’altra figlia. La solitudine è completamente aggrovigliata, tutt’una col suo corpo, in ogni suo nervo. La voglia di gridare, di farsi ascoltare. Di vomitare tutto il dolore. Ma l’immobilità è sempre trionfante.

In poche ore scorrono nella sua mente tutti i pensieri, tutte le sue disordinate identità. Una vita, seppure breve, a combattere per non rassegnarsi alla mediocrità, a lottare contro il mulino a vento dell’impossibilità di trovare la pace, nonostante i successi, l’amore, i ricordi piacevoli che hanno lenito di tanto in tanto quell’esistenza. Attraverso un amore che con un colpo la faceva sentire viva e calda e con l’altro la distruggeva, rendendola ghiaccio. Un’ombra scomoda, quella di Ted. Anche nella sua assenza.

La voglia di vita, quella che era riuscita a sentire ai tempi di bambina sulla East Coast, o alla notizia dello stage a New York.

Ripercorrendo l’antologia dei suoi sbagli, provando, un’ultima volta, a capire cosa avrebbe potuto fare di più, di meglio, di giusto, quali vesti si sarebbe dovuta cucire addosso per uscire da quella gabbia, per non sentire il peso di convivere con se stessa.

In quella sera gelida di febbraio Sylvia prende scotch e asciugamani e sigilla con una cura morbosa ogni fessura della porta. Con la stessa cura prepara la colazione per i suoi figli, latte, pane e burro. Li pone sul tavolo della loro camera, così che, all’indomani, Frieda e Nicholas abbiano, almeno per un attimo, il solito dolce risveglio, sperando che, prima o poi, possano capire il suo amore per loro anche in quell’ultimo, estremo gesto disperato.

Torna in cucina. Accende il gas e infila la testa nel forno. Nell’attesa e nella speranza di trovare nell’ultimo, debole, straziante anelito, la quiete. Per sentire un soffio di libertà nel momento in cui le crepe della sua campana di vetro esplodono, stridenti, in uno, nessuno, centomila frantumi.

 

 

Ted Hughes è stato certamente omertoso da quell’11 febbraio del 1963. Solo non molto prima della sua morte, avvenuta nel 1998, raccontò il complesso rapporto con Sylvia Plath nel libro “Lettere di compleanno”, esplicitamente indirizzate a lei. Dal momento in cui la abbandonò ed ancor di più dopo il suo suicidio, Ted divenne più noto per le gravose colpe che portava, quelle di aggressioni, tradimenti e minacce nei confronti della poetessa americana, che non per le proprie poesie. Colpe vere? O forse solo presunte? Certo è che il pensiero che ebbe Ted, nel momento in cui Sylvia pose fine alla sua tribolata esistenza, fu quello di stracciare le ultime pagine dell’ultimo diario della Plath. Quelle che raccontavano la sofferenza sempre più opprimente, il respiro reso sempre più affannoso dell’ultimo periodo della sua vita, quello della storia con e senza Ted.  Anche  la sua amante, Assia Wevill, non molti anni dopo il suicidio di Sylvia, pose fine alla propria vita, portando via con sé anche la piccola figlia Shura Hughes, di quattro anni. Storie incrociate di anime maledette.

Sylvia Plath è stata scrittrice dalla sensibilità emozionale fervida e drammatica. Come nella vita, anche nei suoi versi si possono ritrovare picchi energici straordinari, dicotomici tra il costruire e il distruggere. Come la sospensione costante della sua anima e della sua mente tra la vita e la morte. Leggerla porta inevitabilmente ad avvertire anche la propria intima fragilità. Ci si sente nude, senza possibilità di salvazione. Senza protezione. L’abisso della mente umana attraverso la necessaria scrittura, così tremendamente lucida, cruda, ma anche  ricercata nella sua metrica originale. Nodi inestricabili che, forse, nemmeno la morte ha potuto sciogliere.

“I Am Vertical” ne è un esempio, Pubblicata nell’estate del 1961 nella rivista “Critial Quarterly” e inclusa in Crossing the Water.

I Am Vertical

But I would rather be horizontal.

I am not a tree with my root in the soil

Sucking up minerals and motherly love

So that each March I may gleam into leaf,

Nor am I the beauty of a garden bed

Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,

Unknowing I must soon unpetal.

Compared with me, a tree is immortal

And a flower-head not tall, but more startling,

And I want the one’s longevity and the other’s daring.

 

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,

The trees and the flowers have been strewing their cool odors.

I walk among them, but none of them are noticing.

Sometimes I think that when I am sleeping

I must most perfectly resemble them–

Thoughts gone dim.

It is more natural to me, lying down.

Then the sky and I are in open conversation,

And I shall be useful when I lie down finally:

Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.

 

 

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero con radici nel suolo

succhiante minerali e amore materno

così da poter brillare di foglie a ogni marzo,

né sono la beltà di un’aiuola

ultradipinta che susciti grida di meraviglia,

senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.

Confronto a me, un albero è immortale

e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:

dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

 

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,

alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.

A volte io penso che mentre dormo

forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –

con i miei pensieri andati in nebbia.

Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,

e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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