ROBERT ENKE: 4427

di SIMONE GALEOTTI

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“Ben lungi dall’essere negazione della volontà, il suicidio è il fenomeno di una sua più energica affermazione. La negazione, infatti, non consiste in un orrore dei mali della vita, ma nell’odio dei suoi piaceri. Il suicida vuole la vita: soltanto non è soddisfatto delle condizioni in cui gli si offre. Distruggendo il singolo fenomeno, il suicida non rinuncia quindi alla volontà di vivere ma, unicamente al vivere.”

A.Schopenhauer – “Il mondo come volontà e rappresentazione”

 

Quel pomeriggio, dopo gli allenamenti, qualcosa nella testa di Robert Enke prende consistenza, facendosi forma tangibile, divenendo ossessione, richiamo senza scampo.

Non era la prima volta, da un po’ di tempo Robert stava convivendo con un pensiero costante, ci si era perfino quasi abituato. Ma quella sera la sua immaginazione decide di superare il punto di non ritorno e la bolla non gli scoppia dentro al cervello in attesa di reimmergersi nella nuova salvifica ondata di circolazione sanguigna; quell’idea si coagula come lava al termine di un eruzione, lava uscita fuori dal suo cratere più profondo, creando un alter ego, un doppione di sé stesso, una sorta di figurina dell’album calciatori che lo osserva dall’esterno, da un punto d’osservazione privilegiato, dallo specchio di un mondo fuori dal mondo, e quest’altro Robert vede il suo corpo, lo vede morto, o in punto di morte.

Solo allora, alla stregua della firma di un patto faustiano, sorride. Il silenzio ed il freddo già intenso di novembre avevano avvolto la periferia di Hannover. Netta, immobile, era calata la sera infranta dalle luci al led della sua Mercedes GL 320. Robert Enke è un portiere di calcio, tutto sommato un buon portiere di calcio.

Ferma la macchina al limitare di un campo vicino al paese di Himmerlreich che, sentenza del destino, in tedesco significa “regno del cielo”; scende, abbandona il portafoglio sul sedile del passeggero e lascia lo sportello aperto; gocce di pioggia gelata si stagliano sul suo cranio perfettamente rasato, sulle spalle robuste, mentre la fronte è appena increspata dalle rughe di una trepidazione sommessa. Vede i tralicci della ferrovia, scorge la teoria parallela dei binari ai loro piedi e cammina, cammina nell’erba alta, fradicia, procede senza indugio con passo cadenzato da corteo attraverso un percorso che pare conoscere da tutta la vita, sembra un automa, indifferente nella pace di quarzo; addosso ha la tuta del suo Hannover ’96, morbida, come gli angeli sopra di lui che lo sfiorano dolcemente con ali di amore sconfinato ma Robert non cede, perché Robert Enke è nell’atto davanti alla sua quinta emendata, e qui occorre sospendere l’azione, non si può più tornare indietro.

Diceva Immanuel Kant nella “Critica alla Ragion Pura” che il romanticismo tedesco non consiste in una dichiarazione d’amore bensì nell’avvelenarsi con l’arsenico per amore.

Enke controlla l’orologio in uno sforzo terribile di appartenere ancora al tempo, mancano cinque minuti alle 18 e 20 del 10 novembre 2009 e il diretto 4427 Hannover-Brema dovrebbe transitare puntuale. Morire a rate è la specialità dei portieri scrisse Albert Camus che di portieri se ne intendeva per aver ricoperto il ruolo in gioventù.

Robert Enke comincia a morire tre anni addietro, quando sua figlia Lara si spegne a causa di una rara malattia cardiaca e la sua depressione prende una piega preoccupante anche secondo gli appunti conservati nello studio del suo psicoterapeuta Valentin Markser.

Eppure ci sono segnali di ripresa, almeno nella carriera agonistica che ad un certo punto fanno ben sperare. Il CT Joachim Löw lo convoca in nazionale per una gara amichevole contro la Georgia e in breve si conquista un posto nella selezione iscritta agli europei svizzero-austriaci del 2008. Con sua moglie Teresa adotta una bambina che chiamano Leila. Però quella sera Robert sta facendo troppo tardi, Teresa è preoccupata, lo cerca al cellulare ma lui non risponde, non risponderà più. Teresa non si accorge che il cassetto della scrivania del salotto è semiaperto. Dentro c’è una lettera. E’ il testamento spirituale di Robert Enke, le sue scuse, la sua vita attraversata in un pozzo di parole senza fondo, dove ripercorre l’infanzia a Jena, le prime ginocchia sbucciate sul campetto dei pulcini del Carl Zeiss, la trafila nelle giovanili, l’esordio in Bundesliga e l’estero; subito un triennio nel Benfica guidato da Jupp Heynckes di cui diviene capitano, poi lo stallo contrattuale a Lisbona e allora ecco Barcellona, il Camp Nou.

Eppure in Spagna non va bene, viene confinato in panchina, l’influsso nefasto di Saturno lo paralizza al pari del più famoso e malinconico quadro di Albrecht Dürer. Una sola apparizione di venti minuti in Coppa del RE e di seguito una vertigine di sconforto che passa dalla Turchia indossando la maglia del Fenerbache allenato da Christoph Daum. Altresì sul Bosforo scenderà in campo per una sola partita peraltro persa malamente 3-0 contro i rivali cittadini dell’Istanbulspor.

Finalmente torna dalle parti di casa, ad Hannover, e il volto riacquista una parvenza di serenità. Ma evidentemente dopo un po’ anche l’area piccola dell’Hannover ‘96 diventa rapidamente un purgatorio che non riesce a curare totalmente l’anima di un portiere perché si sa, seppure nel recente pareggio con l’Amburgo sei stato un protagonista, la sconfitta, l’umiliazione e l’inferno possono essere sempre dietro l’angolo presentandosi improvvisamente, crudelmente, la domenica successiva.

E Robert Enke non s’infila guanti bianchi come Sepp Maier per affrontare il fato oscuro, Enke è un puritano, si veste di nero e adesso il treno sta arrivando a folle velocità, si accorge di sentire un funerale nella mente, i passi leggeri di gente in lutto avanti e indietro, finché gli parve venir meno ogni senso e si getta, privo di suono, nel suo ultimo volo.

L’intera Germania si svegliò scioccata dal gesto di Enke, la bara venne esposta allo stadio davanti a quarantamila persone e le lacrime si persero in una brezza segreta dettata dallo spartito del ricordo, senza frasi, sotto il cielo tremolante di Hannover.

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Autore: remogandolfi

Amo gli ultimi. Quelli spesso perdenti, autodistruttivi, sfigati fino all'inverosimile. Qui proverò a raccontare qualche piccola storia dei tanti che ho amato, nello sport, nella musica e nel cinema. Accompagnato da tanti amici con le mie stesse passioni.

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